28 Novembre 2020

“Ne morirono a miriadi… per una civiltà in putrefazione”. A un secolo dal “Mauberley” di Ezra Pound

“Il Properzio si riferisce a tutti gli imperi che si riducono a un mucchio di merda. Nel caso in cui anche le persone abbastanza intelligenti non l’avessero capito, ho fatto Mauberley molto più chiaro […]” (E. Pound, Letters).

Se è vero che la decadenza, più che l’insieme delle condizioni legate a un certo periodo storico, esprime uno stato mentale, allora varrà forse la pena ripresentare oggi l’Hugh Selwyn Mauberley, opera di Pound data alle stampe a Londra esattamente un secolo fa. E questo anche perché, impero britannico o romano o asiatico o d’oltreoceano che sia, l’odore sembra essere sempre quello.

In effetti, molti dei sintomi registrati da Pound nei suoi versi (formalmente ispirati al Gautier di Émaux et Camées, come più volte riconosciuto dal poeta stesso: cosa che molti traduttori sembrano o aver dimenticato, o semplicemente non aver voluto prendere in considerazione nel redigere le loro versioni…) molti di questi sintomi, dicevo, dovrebbero apparirci piuttosto familiari:

Tutto scorre, πάντα ῥεῖ

diceva il saggio Eraclito…

ma sarà una pacchianata da do’ schei

il nostro solo lascito.

Anche la bellezza cristiana

difetta, dopo Samotracia ‒

vediamo τὸ καλόν decretato

in base a indici di mercato.

Va ricordato che proprio in quegli anni Pound conosce C. H. Douglas e la sua teoria del credito sociale, recensisce il suo Economic Democracy sulla “Little Review”e torna ad appassionarsi di argomenti economici: il che, per un poeta, significa essenzialmente tornare a sbattere il muso contro la Storia e contro tutto il suo miserevole corteo di interessi, politica, meccanismi del potere e del consenso, abietta volgarità:

Non per noi la carne del fauno

né del santo la visione –

abbiamo i media per eucarestia,

diritto di voto per circoncisione.

Tutti sono eguali, davanti alla legge.

Liberi da Pisistrato, possiamo eleggere

per governarci a capo dello Stato

tra un eunuco o un coperto e allineato.

La seconda grande botta nel giro di qualche anno, se teniamo presente la prima guerra mondiale, che pure compare in quest’opera col ricordo d’amici e artisti falcidiati dal conflitto:

Ne morirono a miriadi

e dei migliori, tra di loro,

per una vecchia troia incancrenita

per una civiltà in putrefazione.

Incanto, dalle labbra sorridenti

occhi vivaci andati sotto terra…

per due badilate di statue in pezzi

per qualche migliaio di libri di merda.

Leggendo questi versi si fa strada l’idea che i problemi di una civiltà non siano mai semplicemente economico/politici o culturali, che attaccarli o cercare di risolverli da una sola angolazione sarebbe scorretto, perché si mutilerebbe la realtà ritrovandosi così impossibilitati a comprenderla del tutto e dunque agirvi con efficacia. Leggendo questi versi, piuttosto, risulta chiaro che le due componenti non sono separabili e che quindi, solo per fare un esempio, in una popolazione costantemente irrorata con stallatico intellettuale non potranno che rampollare microcefali ammuffiti o potenzialmente inficiabili da funghi e mucidume e affini, alimentando così una forma di putrefazione della civiltà o di civiltà in putrefazione… e che d’altro canto ambienti stantii, miasmatici non permettono che il pullulare di una certa vegetazione:

Non ho mai, mai menzionato nessuno

se non per vendermi: è un buon consiglio

dà retta. Quanto alla letteratura,

senti a me… è solo una gran rottura.

E nessuno riconosce un capolavoro a prima vista.

E smettila coi versi, ragazzo…

non valgono un cazzo.

Intorno al 1920 Pound, oltre che con la Storia, doveva fare i conti con altri due mostri: l’immane capolavoro in itinere di Joyce, il futuro Ulysses, e l’astro di T. S. Eliot, già preannunciato dalle poesie che precedono The Waste Land (a proposito di questo libro, Pound scriverà che il poemetto è buono al punto “[…] da far chiudere bottega a tutti noi altri”). Il Mauberley testimonia anche la strenua lotta della ricerca stilistica, di un artefice all’inseguimento di una voce propria e di un’opera finalmente moderna, epocale, capace di esprimere un tempo e i suoi movimenti più propri, inconfondibile:

Per tre anni, stonando col suo tempo,

lottò per far risorger l’arte morta

della poesia ‒ per mantenere “il sublime”

nel vecchio senso. Sbagliando in partenza…

no, in difficoltà: ma essendo lui nato

nella barbarie, nel secolo sbagliato,

si ostinò a spremer gigli dalle ghiande,

Capaneo ‒ lui trota per esche false.

Questa ricerca viene portata avanti tramite vari mezzi, tra cui spiccano quelli dell’ironia e dell’autoparodia. Attraverso la maschera di Mauberly, Pound sembra infatti scagliarsi contro il suo lato più sterilmente raffinato, più idealista ed estetizzante – scagliarsi contro l’autore di Canzoni, raccolta che qualche anno prima aveva sottoposto all’amico Ford Madox Ford facendolo cadere a terra e contorcere al suolo dallo schifo:

Niente… solo mielose confessioni

non-risposta alle umane aggressioni

nelle precipitazioni

d’insostanziale manna

levando il flebile sussurro

del suo soggettivo osanna.

In quanto poeta anche Pound è possibile preda di questo lato molle e del suo abbandono, della inopportuna e pur lusinghevole tentazione a considerare e a giudicare il mondo semplicemente sub forma pulchritudinisma il suo grado d’intelligenza, la sua abnorme voracità intellettuale non gli permettono di crogiolarsi in una simile Arcadia della mente, portandolo invece a sbattere il muso contro la Storia e a condannare ogni suo personale eccesso estetizzante, seppure sempre sopravviva in lui il sentimento che un poeta, dans le meilleur des mondes possibles, dovrebbe essere libero di occuparsi solo ed esclusivamente di poesia:

Così, se il colore di lei

ne incontrava lo sguardo,

temperato, come se fosse

attraverso un perfetto smalto,

non pensava ad una applicazione

di ciò alla relazione fra lo Stato

e l’individuo ‒ ma più temperato

gli era il mese, grazie alla visione.

A differenza dello Stephen dell’Ulysses, per Pound la Storia non è un incubo da cui cerca di svegliarsi. La Storia è un problema: è il campo, la rete di relazioni che l’uomo (e quindi il poeta) è chiamato a trasformare tramite la propria azione, ognuno impegnando sé stesso con le conoscenze e gli strumenti a sua disposizione. Così il poeta combatte nella Storia come può – e se la forma del mondo in cui non si riconosce, se la forma del mondo che vuole combattere chiede qualcosa, allora la sua rivolta comincerà non tanto con una battaglia campale o uno scontro diretto in campo aperto, quanto piuttosto col far saltare alcuni ponti o tagliare linee dei rifornimenti, prendere di mira qualche ufficiale isolato, sabotare mezzi e salmerie – e queste azioni di lotta clandestina per un poeta possono cominciare dai versi, in una sorta di guerriglia formale che è insieme estetica e delle idee:

L’età richiedeva un’istantanea

della sua smorfia epilettica

qualcosa per la scena contemporanea

no, certo non una grazia attica…

no, certo no… l’oscura fantasia

dello sguardo interiore ‒

meglio ego spacciato per poesia

che i classici in versione!

L’età richiedeva uno stampo in gesso

prodotto così, da sera a mattina,

un cinema in prosa, non alabastro

o la scultura della rima.

(cari traduttori! – in questo caso la forma è contenuto, non rispettarla è tradire il messaggio e le intenzioni del poeta).

Hugh Selwyn Mauberly è una grande opera di un grande poeta. Entrambi meritano d’essere letti e compresi, d’essere restituiti alla loro grandezza. E quindi leggete e comprendetene tutti.

Francesco Zevio

(testo e traduzioni)

Gruppo MAGOG