26 Marzo 2021

Piccolo discorso su un verso di Eugenio Montale

Un endecasillabo mi trafigge il palato fino a stralunare gli occhi, da tempo, è questo: e persistenza è solo l’estinzione. C’è poco da dire se non che la poesia elegge, spesso, gli insoliti – Eugenio Montale, l’uomo della vita “al cinque per cento”, quel ceffo da camaleonte – al trogolo del genio. Quel verso è lo zenit di una poesia molto nota, Piccolo testamento, posta nella raccolta più alta di Montale, La bufera e altro, nell’ultima sezione, la settima, Conclusioni provvisorie (“provvisorie”, “piccolo”, “altro”: tutto è come in crollo, sul bilico di una incertezza livida, appena una fregata di gioia). La prima edizione della Bufera, tirata in mille esemplari, esce per Neri Pozza, nel 1956; nelle “Note”, spicciole, Montale ci avvisa che “Il Piccolo testamento è del 12 maggio ’53”, quando il poeta andava per i 57 anni. La raccolta comincia con “La bufera che sgronda sulle foglie” e termina con Il sogno del prigioniero, in una attesa: chissà se l’ultimo verso, su cui il libro si chiude (“il mio sogno di te non è finito”), è legato a quello che serra La bufera, “mi salutasti – per entrar nel buio”, medesimo abbaglio di enigmatiche figure femminili, tra sogno e buio, saluto e infinito. Ci sono, qui, alcune tra le più celebri poesie di Montale, La primavera hitleriana e L’anguilla, ad esempio.

Nel suo “Piccolo testamento”, dettato nel 1226, San Francesco definisce “in tre parole la mia volontà: che in ossequio alla memoria mia… si amino sempre a vicenda; sempre amino e osservino la signoria nostra, la santa povertà; sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici di santa madre chiesa”. Il testamento è piccolo perché confermato nel precipizio della malattia, “poiché per la debolezza e la sofferenza non sono in grado di parlare”. Il testamento è la volontà ultima, patto estremo, che sfocia in morte. Il Piccolo testamento di Montale – la penultima poesia della “Bufera”; l’ultima per potenza di senso –, in verità, è una Apocalisse in vitro, dipinta su ceramica, con quell’appello profetico, ineluttabile: “è l’ora”. Il testamento – “testimonianza/ d’una fede che fu combattuta” – è ordalia della memoria, ricapitolazione, in un chiaroscuro di fuochi notturni. Feti di luce appaiono ovunque, a rintoccare il faro del fato: “traccia madreperlacea”; “lume”; “bruciò”; “focolare”; “lampada”; “tenue bagliore”… La poesia nasce “a notte” e termina sulla cruna di un “fiammifero”, scintilla, viene da dire, come di pietre che si sgretolino per effetto di fuoco in schegge, dentro una cattedrale vuota. Come se destino fosse una latitanza. In questa Apocalisse tascabile, naturalmente, c’è “un ombroso Lucifero” che volteggia sopra i grandi fiumi dell’Occidente – Tamigi; Hudson; Senna – così prossimi e opposti ai secolari fiumi con cui Ungaretti si fa la culla (Isonzo; Serchio; Nilo; Senna). Ci sono i repertori della profezia, sempre scandita nel sangue (“Giusto era il segno…”; “Ognuno riconosce i suoi”), ci sono la “fede” e la “speranza”: la carità è sostituita da un perpetuo istante di cenere, in quel distico sigillato: “ma una storia non dura che nella cenere/ e persistenza è solo l’estinzione”. Già: ma cosa significa, se non che solo raspando tra le scorie di un corpo incenerito possiamo scovarne l’oro, il resto, cioè l’unico? Il frammento esatto da cui risalire all’autentico corpo, colto nella trasfigurazione.

Montale – come i grandi poeti – non spiega ma allude, spiga, non descrive ma scaraventa nel simbolo, non declama ma cela (miracolo del poeta che scava una tana perché sia il lettore a rivelarlo). Più banalmente, Piccolo testamento è l’altro lato della Primavera hitleriana. Alcune immagini – ovvero: alcuni suoni, dacché la poesia è per recitazione, sempre – sono pressoché speculari: “traccia madreperlacea di lumaca/ o smeriglio di vetro calpestato” (PT) rimanda alla “nuvola bianca delle falene impazzite/… una coltre su cui scricchia/ come su zucchero il piede” (PH), da una parte la lumaca e dall’altra la falena, da un lato il vetro e dall’altra lo zucchero, ovunque il calpestio. In Piccolo testamento appare Lucifero e la “sardana… infernale”; in Primavera hitleriana fa ombra il “messo infernale”, e “un alalà di scherani”. Eppure, se in PH c’è Clizia, punto di rotazione del poema, ode all’immutato nel mutamento (“tu/ che il non mutato amor mutata serbi”), PT è l’estasi dell’estinzione, poesia che ambisce alla cenere, lambisce il nulla, a farsi fuoco fatuo, fatale blu.

Nel libro dedicato a Robert Walser, che s’intitola Il passeggiatore solitario, W. G. Sebald ricalca un passo in cui lo scrittore svizzero parla della cenere. “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non ci è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”. “Gli uomini sono tutti terra e cenere” dice Siracide (17, 32), eppure Dio trae l’uomo dalla “polvere”. Perché la cenere esista, qualcosa deve bruciare, qualcosa che arde, che pre-esiste e persiste, è stato; la polvere è materia prima, informe particola, ostia di terra. La cenere, forse, prevede un dio nel fuoco; eppure, è nel giorno delle Ceneri che ci viene ricordato che siamo polvere.

Persiste ciò che con ostinazione non vuole estinguersi; ma è proprio perché si estingue che qualcosa – un viso, una memoria, una bestia – assurge a simbolo, a tara nel tempo, a bagliore balordo, a brivido. Solo la cenere garantisce l’amore, in effetti; amiamo perché la morte fa di ogni incontro un appello, improcrastinabile, di ogni evento, l’ultimo, l’eremo delle scelte definitive: ed è nella rincorsa (“Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato/ non può fallire nel ritrovarti”) che ci si celebra. A volte si può amare in perfezione solo se uno dei due muore. Estinguere indica, per contrasto d’alchimia, “il tenue bagliore” che non si spegne e la cenere, infine, è cenacolo. Non più eredi di nulla, ci fissiamo, io e te, come fossimo risorti, parziali: dove ci morde, allora, il tempo?

***

Piccolo testamento

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell’Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

Eugenio Montale

Gruppo MAGOG