30 Marzo 2021

"In una comunità costruita sul distanziamento sociale dobbiamo andare verso l'altro, corteggiarne la paura". La sconfitta di Eros, il più antico degli dei

L’amore è stato definito come la “peggiore di tutte le calamità“, eppure oggi resta essenziale e sempre più urgente tornare a metterlo al centro della nostra vita sociale.  Rapportarsi, oggi, significa riconquistare l’essenziale, soffocato dal baccano comunicativo e dalla proliferazione delle cose. L’erotismo, così come il dolore, infatti, può avere una funzione educativa e conoscitiva, perché consente di aprire una via verso l’altro e al tempo stesso verso noi stessi, portando in questo modo a una razionalizzazione delle passioni. L’eros allora si trasforma in logos, e la ragione è la condizione necessaria alla nascita del nostro stesso pensiero.

Nella nostra società anche l’erotismo viene ricondotto nella sfera del proprio interesse. Incapaci di riconoscere l’altro nella sua diversità, cerchiamo in ogni legame una conferma di noi stessi, con la conseguenza di sprofondare ovunque nella nostra stessa ombra, come Narciso nel fiume. Rapportarsi con qualcuno, oggi, allora si inscrive nell’ambito della sovversione delle regole del mondo capitalista, proprio perché per aprirsi in modo autentico all’altro bisogna farlo in modo disinteressato, agire ciò contro la paura della sofferenza che può causare un abbandono. Costruire legami disinteressati significa quindi agire al di fuori della sfera del nostro utile e delle passioni addomesticate.

Come scrive il filosofo francese Alain Badoiuu nella prefazione del libro di Byung-Chul Han, Eros in agonia (Nottetempo, 2019), anche la sensualità nel mondo contemporaneo viene ridotta come tutto il resto a una forma di consumo priva di rischi. L’eccesso, la follia, la tensione negativa – ovvero la sofferenza, la malinconia che investiamo nel rapporto con la diversità rappresentata dall’altro – sarebbe invece in grado di aprire una breccia nella scorza della ripetizione e della nostra quotidianità. Tutti questi elementi, però, vengono banditi attraverso il più forte imperativo dei nostri tempi: evitare il dolore a ogni costo.

L’irruzione dell’Altro nella nostra vita rappresenta a tutti gli effetti un disastro, una vera e propria apocalisse che altera inevitabilmente il nostro normale equilibrio. Come nel film Melancholia di Lars von Trier, il nostro ego avverte insieme a Justine la minaccia del pianeta che incombe. La collisione del pianeta Melancholia sulla Terra è pari all’effetto deflagrante causato dalla presenza di qualcuno nella nostra vita che non si riduca alla proiezione della nostra personalità. La differenza dell’altro si oppone alla sua riduzione in oggetto di consumo, e ciò lo rende incollocabile, senza luogo, senza etichetta, a differenza delle merci che siamo abituati a consumare, ciascuna sul proprio scaffale, ciascuna col suo nome, con le sue istruzioni e col suo prezzo ben esposto.

L’attesa dell’apocalisse, portata dalla pulsione erotica e dal desiderio, per Justine si configura come una paradossale forma di guarigione dalla sua depressione. L’effetto devastante del disastro, in realtà, produce una reazione curativa, catartica. L’apparizione dell’Altro, in questo caso il pianeta Melancholia, strappa la protagonista dalla propria palude narcisistica, distogliendola dalla sua sterile autoreferenzialità. L’attesa della catastrofe è come la sintesi di “una felice unione con l’amato”: Justine è nuda, distesa sulle sponde rocciose del fiume, nella sequenza dove sembra attingere dalla luce del pianeta portatore di morte per appagarsi. La depressione che attraversa la protagonista nel film, improvvisamente si capovolge in una miracolosa metamorfosi, capace di trasformarla in soggetto amante. Questo itinerario conduce Justine alla sconfitta della depressione attraverso la via dell’eros.  La caduta del pianeta evoca tutta la potenza sovversiva dell’amore quando irrompe nella nostra vita. L’amore, non a caso, nel movimento della dialettica dello spirito hegeliana, rappresenta “il ritorno conciliato dal suo altro in sé stesso”.

La malinconia, però, come suggerisce il film, deve essere distinta dalla depressione. La prima, infatti, è generata da un sentimento di sofferenza, ma mantiene un legame con l’Altro, proprio perché è conseguenza di un legame, si forma in virtù di una mancanza che non è mai autoreferenziale, ma investe la persona nella sua partecipazione al dolore dell’Altro. La depressione invece “è priva di legame e di indirizzamento”, in virtù della propria autoreferenzialità essa si manifesta perché separata da ogni relazione. La malinconia, al contrario, trattiene l’esperienza dell’Altro, come ad esempio l’esperienza della perdita, mantenendo un rapporto, anche se negativo, con l’assente. Seguendo questo itinerario è possibile allora riscontrare una funzione positiva del dolore, e della malinconia, perché funzionale allo sviluppo della persona nella sua integrità. L’erotismo, allo stesso modo, possiede una funzione educativa e conoscitiva, perché consente di aprire una via verso la razionalizzazione delle passioni, e la ragione è la condizione necessaria al sorgere del pensiero. L’eros così si trasforma in logos: con la sua carica travolgente e, al tempo stesso, malinconica, è ciò che innerva il pensiero.

Nella società del sesso veloce, ogni connotato di negatività, o di squilibrio, non è contemplabile. Quel momento in cui l’individuo spogliato dalle sue convinzioni, sradicato dalle abitudini consolidate, si mette in discussione, non è ammesso. Quando il capitalismo assolutizza la “nuda vita”, ovvero l’esistenza concepita entro i suoi limiti biologici e privata dei suoi contrassegni simbolici, aggrava il processo che conduce alla trasformazione delle persone in merce,  mettendo al bando ogni forma di sacralità intrinseca nell’erotismo, riducendolo a feticcio. Ne La società della stanchezza, il filosofo Byung-Chul Han riconduce queste dinamiche a una precisa e patologica “violenza neuronale” tipica del mondo contemporaneo. Tra le varie patologie elencate spiccano alcune come il burnout, la sindrome da deficit di attenzione, l’iperattività e il disturbo borderline della personalità: la conseguenza di tali disfunzioni, per il filosofo, sarebbe da ricondurre all’auto-sfruttamento condotto su sé stesso dal soggetto. Come nel Prometeo di Kakfa, convinti di essere liberi, in realtà siamo incatenati alla nostra autoreferenzialità e ci infliggiamo autonomamente sempre le stesse identiche ferite.

Questa condizione di autosfruttamento si manifesta in maniera particolarmente evidente nell’eccesso di lavoro, quando il soggetto investe costantemente tutte le proprie energie per massimizzare la propria prestazione, senza nemmeno che ci sia più bisogno di qualcun altro che lo sfrutti. Questa attività si accompagna alla credenza di agire liberamente, mentre a delinearsi è una libertà costrittiva o una libera costrizione. L’imperativo della società della prestazione impone ritmi frenetici, pause di lavoro compresse, il tempo libero è assorbito nel tempo di lavoro stesso, così come ogni nostra azione è indirizzata a soddisfare le nostre vanità, configurando il rapporto con l’Altro solo nella logica del suo superamento, perché dobbiamo essere migliori, più competitivi, sempre più prestanti e sempre più depressi, perché vittime della pressione sociale che abbiamo interiorizzato.

In Realismo capitalista, Mark Fisher si sofferma sulle conseguenze della riorganizzazione post-fordista del lavoro nell’ambito degli affetti e, come Han, e ancora prima di lui, Zygmunt Bauman, individua nell’estrema condizione di precarietà dettata dalla flessibilità l’incapacità, per l’uomo contemporaneo, di costruire dei legami solidi e duraturi. Tale situazione è riassumibile nello slogan “niente è a lungo termine”: infatti, se un tempo i lavoratori investivano le loro capacità con l’ambizione di progredire e migliorare la propria posizione, oggi, agli stessi, viene richiesta una costante riorganizzazione della loro professionalizzazione, per acquisire sempre nuove abilità, senza la reale possibilità di stabilizzare la propria condizione. Lo stress generato investe inevitabilmente i legami interpersonali di preoccupazioni prodotte dal lavoro, inglobando gli affetti in una instabilità permanente. Quei valori che il capitalismo richiede, come l’impegno e la fiducia, sono gli stessi che paradossalmente ritiene obsoleti. Da un lato ha bisogno della famiglia, essa viene sostenuta e protetta come strumento “essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro” dalla società, dato che svolge quella funzione di cura per le ferite causate da condizioni socioeconomiche incerte; dall’altro il sistema stesso è il primo a minarne le fondamenta. L’impedimento di rinsaldare i legami affettivi è determinato infatti dai ritmi e delle richieste sempre più pressanti che richiede la propria prestazione lavorativa.

Il soggetto è stretto da un lato nella morsa di un edonismo forzato, esplicitamente paragonato dallo stesso Fisher, a un’occupazione a tutti gli effetti, in virtù dell’erosione dei confini tra lavoro e tempo libero, e dall’altro dall’incapacità di costruire legami nel tempo, perché terrorizzato dalla prospettiva della negatività dell’esperienza con l’Altro. Il soggetto narciso contemporaneo è allora l’emblema di un uomo a cui non manca niente, ma che – come nello stato descritto da Kierkegaard – è incapace di dare consistenza alla propria esperienza. Il desiderio è declinato unicamente nella sua versione estetizzante ed edonista, facendo coincidere il suo slancio perpetuo con la sua imperitura insoddisfazione permanente. Quella che crede essere una manifestazione di libertà, si trasforma in schiavitù. Il suo è un desiderio che ricerca la propria insoddisfazione e, una volta raggiunta, finisce per uniformare la varietà del mondo allo specchio della propria volontà narcisistica.

Provare a compiere i nostri passi verso l’ignoto, in quello che Martin Heidegger chiamava l’impercorso, nelle lettere a sua moglie Elfride, significa ricominciare a pensare l’impossibilità del pensiero senza prima essere stati amici, o amanti, ovvero senza avere in prima persona sperimentato cosa significa soffrire per qualcuno, e una volta trattenuta questa esperienza così radicale, indicibile per la sua forza, è in grado di trasformare. L’eros, infatti, è la spinta vitale per connettere e connetterci attraverso una nuova qualità dell’esistenza legata all’amore in grado di concepire una società completamente diversa. Rimettere al centro l’Eros, “il più vecchio degli dei”, significa capovolgere l’idea di una comunità fondata sul distanziamento sociale: invece che alimentare la repulsione verso l’estraneo per paura, provare ad avvicinarsi, demolendo le barriere che ci separano, diventare individui che vadano verso l’Altro, ne corteggino la paura, dando vita a una società realmente libera.

Omar Suboh

*in copertina Melancholia (2011) di Lars von Trier

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