27 Maggio 2020

“Chi sopravvivrà all’epidemia, riuscirà a sopravvivere alla fine dei rapporti civili? Avrà qualcosa in cui credere?”. Le quattro verità sulla peste, tra il Trionfo della Morte e Ingmar Bergman

«Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?» (Nietzsche, Genealogia della morale)

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Questi giorni difficili hanno fatto emergere molte e diverse Italie, a volte in contraddizione fra loro, in più o meno esacerbato conflitto da anni, perché c’è un’Italia della Resistenza, pronta a prendersi le proprie responsabilità e a sollevarsi contro la deriva antidemocratica, e un’Italia qualunquista, che crede nella retorica della società dello spettacolo, e sollecita e invoca un cripto-dispotismo magari adattato alla propria stolida sicurezza individualistica. Giorni difficili, tristi, che lasceranno degli strascichi, alimentati tanto da disinformazione astrusa quanto da informazione manipolata, e probabilmente, in alcuni casi, deterioreranno i rapporti fra gli italiani, e degli italiani con se stessi, se essi non si disporranno a leggere con senso critico le diverse “verità” (comprese le “non-verità”) che sono state dette (e talvolta non-dette).

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Come in ogni epidemia, da che mondo è mondo, esistono più livelli di verità. Mi pare di individuarne almeno quattro: il primo è politico; il secondo è scientifico; il terzo è umano; il quarto è metafisico, o – nella sua versione laica – metaforico. Sul primo non è il caso che si spendano, per ora, molte parole: ci penseranno gli studiosi a rimettere ordine. Per centinaia di anni si credette che la peste fosse diffusa dagli “untori”. Una categoria di esseri umani, presi il più delle volte dalla strada, reietti inermi, sciocchi e pitocchi, sprovveduti, malcapitati, capri espiatori di una catastrofe (termine con cui s’intende non milioni di contagiati, ma milioni di morti) che li trascendeva. Che la peste fosse diffusa dagli untori non era una verità scientifica, ovviamente, ma politica: serviva a coprire le gravi colpe di un Potere inefficiente e ottuso, incapace di gestire il bene pubblico, di provvedere all’emergenza, di assumersi responsabilità. I media, che allora consistevano in grida o in qualche timida gazzetta, servivano a diffondere la voce del padrone. Tra i medici non mancavano coloro che nutrivano dubbi sullo stragismo degli untori, chi sa se manovrati da qualche principe straniero, o dal diavolo in persona; ma alla fine, se non volevano rischiare la gogna popolare, o cedevano o si mettevano da parte. Sono cose che racconta, con dovizia di particolari, Manzoni, nel romanzo che tutti conosciamo e nella Storia della colonna infame, e prima di lui aveva già intuito Pietro Verri, nelle Osservazioni sulla tortura. Solo nel 1894 il dottor Alexandre Yersen scoprì che a portare e a diffondere la peste era un maledetto batterio coccobacillo, contro il quale si sono provati tanti vaccini, ma nessuno finora si è rivelato sicuro al 100%. Morale: per arrivare a una verità scientifica ci possono volere centinaia e centinaia di anni; per una verità politica non si può attendere molte ore.

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La verità umana è la più dolorosa, e consiste tanto nel male orrendo che piaga gli appestati (si tratti di vaiolo, febbre tifoidea o peste in senso proprio), quanto nell’esperienza che traumatizza chi sopravvive, per cui niente è più uguale a prima (c’è ancora qualcuno che non ci crede?). La verità umana sono i morti: migliaia, milioni. I pianti non bastano, inutili i soccorsi, insufficienti i lazzeretti, i carri funebri, ancor meno i becchini che portano vittime e contagiati al cimitero e li seppelliscono in fosse comuni, scavando dove capita. E in queste fosse vi finiscono tutti, dal pezzente al ricco: anche chi per censo crede di meritare una tomba più comoda sotto il pavimento del duomo o in un sarcofago con bassorilievi e tanto di epitaffio, può finire in una poltiglia di cadaveri. E se non bastano le fosse comuni, si accendono i roghi. Davanti alla morte siamo tutti uguali: donde Il trionfo della morte, e, a scandirne la macabra ineluttabilità, La danza della morte, grandi serie tematiche dell’arte figurativa intorno alle quali i nostri antenati, non molte generazioni fa, cercavano di rendersi conto dell’insensatezza di quello che stavano vivendo. Se la morte non fa distinzione, l’unica cosa certa è – per chi se lo può permettere – scappare in campagna, evadere dal consorzio umano, cercare un posto isolato, e là aspettare che tutto finisca. Come i dieci giovani di buona famiglia che nel Decameron di Boccaccio, abbandonati dai loro parenti (chi morto, chi fuggito) si ritirano in una ricca tenuta aristocratica che li culla come fuori dal mondo: la loro, però, non è paura, ma un atto di fede nella vita che tornerà a scaldare il cuore e i sentimenti degli uomini, resuscitando la pietas verso i vinti, gli sconfitti, che intanto la peste cancella e avvilisce; la fede di quei giovani tornerà a ricordarci che, nonostante tutto, la morte non ci può annichilire, non riesce a smontare la nostra speranza nell’umanità. Perciò, per passare la quarantena, non resta che “raccontare” novelle su novelle, che ci dicono che esiste ancora, di là, fuori da quel luogo privilegiato, il mondo.

La verità umana è la più complessa, ha bisogno di anni per essere digerita, ma è quella che sopravvivrà più a lungo. Tra gli effetti collaterali di una grande epidemia, come quelli di ogni catastrofe, non è solo la crisi economica, ma anche lo sbriciolarsi dei rapporti di convivenza civile fra gli esseri umani, soprattutto quando vige la sopraffazione e il sopruso, e superstizioni e pregiudizi prevalgono non solo sulla verità che è un affare molto intricato, ma anche sul senso critico che ci impedisce di credere nella “verità” del primo che sentiamo. Chi sopravvivrà all’epidemia, riuscirà a sopravvivere alla fine dei rapporti civili? avrà qualcosa in cui credere? quanto tempo gli ci vorrà per tornare a credere nel prossimo, nel vicino di casa? Morale: la verità umana non finisce mai.

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E siamo all’ultimo livello di verità: perché tanta morte? come è possibile? che senso ha la vita? che cosa ha scatenato questa ira divina? o altrimenti, dov’è Dio? È un senso di colpa, misto ad angoscia e paura (che non sono la stessa cosa), quello che cerca ora un’uscita di sicurezza nel pensiero che dietro tanto male vi sia un mistero più grande, un disegno imperscrutabile di cui sfugge, per ora, la trama. Non è un sentimento antico o medievale, ma di sempre: come può tale angosciosa fragilità di fronte a una catastrofe catturare anche l’uomo che crede nel progresso? Dopotutto, la modernità ha dimostrato che scienza e tecnologia sono in grado di migliorare le condizioni di vita di tanti uomini, fatte di sofferenze e miserie millenarie; eppure, un dubbio viene quando scienza e tecnologia sono impiegate per lo sterminio di massa, come possono dimostrare – ove non bastassero le guerre mondiali e tante altri conflitti non meno cruenti né meno lunghi – le due bombe atomiche, che speriamo restino le ultime. Lo sa Ingmar Bergman, che nel 1956 realizza il Settimo sigillo, film che ancora oggi lascia, nella sua lucida e sobria asciuttezza, sbalorditi. Il Cavaliere, al secolo Antonius Block, crociato precocemente invecchiato dalla dura esperienza in Terrasanta, non cessa di domandarsi che senso ha tutto questo. Sa che non sarà facile avere una risposta, intanto gioca la sua partita a scacchi con la Morte, consapevole che, per quanto voglia illudersi del contrario, un giorno dovrà perdere. Scopo, però, della sua partita disperata è di distrarre la Morte da una giovane famiglia cui essa, nel paese devastato dalla peste, abbandonato da Dio che si è nascosto chi sa dove e chi sa da quando, vuole portare via con sé. Al Cavaliere resta appena il tempo di un’azione buona per riscattare la sua vita buttata in assassinii e prepotenze. Antonius Block non viene dal Medioevo, ma non è neanche un uomo del Novecento: è il prototipo dell’Uomo che, in ogni angolo della terra, in ogni momento, solleva i quesiti fondamentali sull’esistenza.

Questo film di Bergman arriva nove anni dopo la Peste di Albert Camus (1947), il quale a sua volta richiama, ora esplicitamente ora allusivamente, tanta letteratura sulla peste, non per ricapitolare quanto già detto, bensì per proiettare l’evento luttuoso, per cui gli uomini hanno tanto pianto e scritto, su un orizzonte esistenziale molto più ampio: la peste come metafora della forza incontrollabile del male assurdo, sulla quale è inutile ogni speculazione metafisica o retorica politica. Non resta che rimboccarsi le maniche: è quello che fa il bravo medico Rieux con la sua squadra di assistenti, infermieri, volontari, semplici impiegati, che organizzano, assistono, curano, sperimentano, fronteggiano il male senza paura e senza superbia; insomma non perdono tempo, perché ogni giorno è prezioso, certo, e perché vi sono dei frangenti in cui bisogna mettere da parte se stessi e riporre al centro delle nostre preoccupazioni l’Uomo detto altrimenti Homo sapiens, il quale ci ha messo 150.000 anni per esplorare e conoscere il mondo, e farlo suo, e probabilmente ci metterà molto meno tempo per mandarlo in rovina. Homo sapiens ha imparato a destreggiarsi fra i pericoli quotidiani della fame e della sete, delle bestie feroci, delle questioni sociali, e quelli straordinari delle calamità naturali, delle alluvioni, dei terremoti, delle guerre e delle epidemie; e alla fine pare che non abbia ancora capito che il pericolo maggiore è dentro di sé, nella sua incapacità di amare il mondo di cui è abitante usufruttuario, non proprietario, questo giardino con le sue risorse limitate e non garantite, e con i suoi difetti, niente di più niente di meno, o prendere o lasciare, un pianeta per il quale non abbiamo a disposizione alcuna alternativa. E per quest’ultimo livello, mi pare superfluo proporre una morale.

Salvatore Ritrovato

*In copertina: parte della “Danza macabra” di Bernt Notke nella Chiesa di San Nicola a Tallinn

 

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