22 Maggio 2019

Dentro l’arte di Enrico Piras, l’incisore mitologico. Come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi

Ci sono delle patrie poetiche che attengono al mondo dell’incisione, la quale ha una stretta correlazione con la scrittura in versi. Ci riferiamo a quella tecnica in cavo nella matrice di metallo che può essere incisa direttamente (bulino o puntasecca), oppure mediante acidi (acquaforte, acquatinta, cera molle). L’inchiostro penetra nei solchi creando un distintivo, un marchio d’arte. Un incisore e pittore di livello, Enrico Piras (nato a Sassari nel 1931, dopo la laurea in Lettere fu a contatto con illustri personalità tra cui Joyce ed Emilio Lussu), ha fatto di Olzai, un paese sardo in provincia di Nuoro, il suo universo granitico nel piccolo anfiteatro a ridosso della montagna, una specie di villaggio perso in una rifrazione come tante altre nella relazione profonda alla radice del sentire (senso e sentimento del luogo). Le sue incisioni sono architetture naturali tra posti impervi in pietra, case, scalette, campane, vegetazione, alberi, cespi, inquadrature viste dalla finestra delle abitazioni dei contadini. Come ha scritto Manlio Brigaglia, Enrico Piras ha avuto il “dono dai suoi dei”: non solo portare appresso il suo borgo (nel rione Drovennoro), ma continuare ad abitarlo dall’infanzia e dalla giovinezza, dando dunque una figurazione alle cose inalterate nel tempo e nello spazio. Di queste incisioni colpiscono le stradine periferiche che potrebbero delineare il riquadro di qualunque secolo, un passaggio stretto verso il bosco millenario, i viottoli medievali, scorci poveri e per lo più di esterni (raramente di interni domestici). La vernice molle e l’acquatinta ricreano le nevicate d’epoca in un orizzonte storico e geografico di questo microcosmo isolano: una vera e propria terra elettiva.

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Un lavoro di Enrico Piras, “Scala di granito” (acquaforte, 2005)

Enrico Piras, allievo di Carmelo Floris e Staney Dessy, è certamente ispirato da quelle stesse intenzioni con cui Vittorio Sereni, scrivendo ad Attilio Bertolucci, affermava che avere una patria poetica significa essere sovrano, sentenziando così il massimo risultato. La stessa cosa diceva Franco Scataglini, il dialettale di Ancona, ormai un classico del Novecento: “È dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda”. Elisabetta Pigliapoco nel suo libro Patrie poetiche (peQuod 2010) ha attraversato i luoghi della poesia contemporanea coadiuvata dalle relazioni critiche di Alberto Casadei, Roberto Galaverni e Gualtiero De Santi (tra gli altri). Tornando ad Enrico Piras, si intuisce facilmente che esiste una poesia di gesti e una poesia di immagini, che il linguaggio della parola non è il solo con cui determinare una ricerca storica, la dolcezza di una realtà paesaggistica, così come lo stato d’animo che rappresenti e interpreti il proprio mondo, o meglio la coniugazione io-mondo. Piras è mitologico come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi. L’esperienza dell’incisore non vuole dare rilievo ad un particolarismo riduttivo, ma essere fonte di un’idea che tutto ciò che sfugge alla connotazione determinata dal luogo conosciuto è anch’esso una misura assoluta nel mistero dell’esistere materiale e culturale, antropologico: un vissuto che gravità appunto in un’identità come fosse possesso, prodigio da ammirare nella grande memoria dell’Italia, lontana però da questioni di carattere sociale e politico, da un’ideologia allusiva, da un conflitto regionalistico. Le incisioni di Enrico Piras sono una produzione virgiliana, sovrastorica e dunque fuori dalla cronaca di oggi, immerse fatalmente in un territorio romantico.

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L’incisore, seguendo una sua toponomastica, non si chiude nel borgo, ma apre una via simbolica con le coordinate prive di misure o confini, quasi che la geografia specifica racchiuda anche una bussola per orientarsi in un anfratto iniziatico trasformato in canto, in godimento per la terra madre, in una verità fatta di illuminazioni, di abitudini umane nei casolari e dietro ai cancelli di quelle casupole dai tetti bassi o in quegli stabili innalzati verso il cielo, con i soffitti altissimi. Siamo ad Olzai, ma potremmo essere ovunque a raccontare un paese poetico: nella Langa di Cesare Pavese come nella Maremma di Mario Luzi, perché ogni escursione assomiglia ad un’altra, come ogni fusione tra natura e luogo urbano, nell’unicum della sacrale contrada affacciata dietro un cipresso o una quercia. La peculiarità espressiva è pertanto una partitura fitta di segni che fluiscono, nel vaso comunicante tra incisione e poesia, in un’area solo all’apparenza ristretta. Involontariamente Piras ci romanda allo stesso Gabriele D’Annunzio “passeggiatore” nel suo Abruzzo aspro e roccioso che assomiglia molto, in quel santuario d’amore en plein air, al territorio sardo nei dintorni di Olzai. Tecnicamente, l’opera è ben descritta da Nicola Micieli che parla di “gusto per la composizione a larga stesura cromatica”, nonché del senso della dispiegata luminosità nella materia pittorica, “che trova argine e salda disciplina nel disegno che definisce l’impianto visivo”.

Alessandro Moscè

 

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