25 Maggio 2019

Venditrice ambulante, prostituta d’occasione, soubrette, scrittrice: la vita di Emmy Hennings, una che non ha avuto paura di sporcarsi nell’umano

È un incubo: ti vengono a prendere. Sei in arresto. L’accusa, non si sa. Ci viene subito in mente Kafka, ma anche la polizia segreta di un qualsiasi regime totalitario che si presenta all’alba per annunciare che il nuovo giorno non ci sarà. Almeno non per te.

Uomini e donne che scompaiano senza lasciare traccia di sé. Non è, questo scenario, soltanto un incubo, non è soltanto letteratura, ma una esperienza reale: quel misurarsi con una colpa che non si sa in che cosa consista e che forse è semplicemente la colpa di essere troppo vivi. Di pretendere l’impossibile. Di essere incapaci di accontentarsi del fatto che il mondo e i suoi abitanti sono e non possono essere altro che quelli che sono.

Infatti, non è la qualità della colpa che interessa a Emmy Hennings (1885-1948), ma il tormento esistenziale dell’uomo nel momento preciso in cui perde la libertà nel senso più elementare: la libertà, apparentemente piccola, di dirigere i propri passi nella direzione che vuole.

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Emmy Hennings è una giovane donna di estrazione sociale modesta, per niente colta, irrequieta, con una gran voglia di vivere e una sensibilità d’artista. Non si nutre di letture e teorie, ma della vita stessa che osserva ovunque si trovi: spesso per puro caso, visto che la sua esistenza, almeno fino all’incontro decisivo con lo scrittore Hugo Ball, non ha una direzione, ma è piuttosto un girovagare senza meta, spinto dal desiderio di intensificare la propria vita costi quel che costi, anche a rischio di perdere tutto: la salute, la reputazione, ogni forma di sicurezza sociale.

Emmy Hennings non ha una professione, se non, come dice lei stessa, quella di vivere e cioè di rendersi permeabile per tutto ciò che le succede. Per mantenersi fa quello che capita, la venditrice ambulante, la soubrette, l’entraîneuse, la prostituta d’occasione. Non ha pregiudizi, non ha paura di sporcarsi di vita. Non ha idea di dove vuole arrivare, ma forse proprio per questo motivo riesce ad arrivare un po’ ovunque: nei bassifondi dell’anima, dove non esistono più delle categorie prestabilite e dove le cose s’intrecciano indissolubilmente, accennando a delle verità scomode e sconvolgenti, in alcun modo strumentalizzabili.

Per molti anni gira con delle compagnie teatrali itineranti. Incarna dei ruoli che altri scrivono per lei, cercando di corrispondere alle proiezioni maschili che si ispirano alla bella donna spregiudicata che lei, in quegli anni, indubbiamente è. Bella e spregiudicata, ma anche lunatica, inaffidabile, imprevedibile. Presente e assente al contempo. Pronta a vivere tutte le esperienze con l’audacia dell’avventuriera nata che non accetta l’idea del limite.

In questo senso, anche la prigione è per lei un luogo di vita da indagare in assoluta libertà: un microcosmo abitato da individui, da persone inconfondibili alle quali lei dà un nome e una storia. Nelle ore vuote di attese e di noia, coglie le storie di vita delle sue compagne di cella. Biografie spezzate di donne che per quanto tentano di cavarsela, non riescono a condurre una vita come si deve e alle quali l’autrice, facendole parlare di sé in prima persona, restituisce la dignità perduta.

Così come lei stessa non si identifica con la sua colpa – che in ogni caso rimane vaga – così non identifica nemmeno le sue compagne con il motivo della loro detenzione, ma le incontra con interesse e sincera partecipazione per le loro sorti. Per lei, quelle donne non sono delle criminali, ma degli esseri umani che come tali meritano rispetto.

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In mezzo a caos e disperazione, a sporcizia e privazione, cerca di rimanere lucida e, per quanto possibile, oggettiva affinché noi, in quelle vite umiliate e disprezzate, possiamo scoprire tutte le sfumature del nostro stesso maldestro vivere: Sono così felice, e nel profondo di me penso: non potrò mai essere del tutto infelice. Non sono capace di disperare. Finché potrò vedere un altro essere umano oltre a me non crollerò.

Solidarietà.

È forse quella la parola chiave e allo stesso tempo la risposta alla legittima domanda per quale motivo si dovrebbe leggere il libro di una scrittrice tedesca pressoché sconosciuta, apparsa oramai cento anni fa, che certamente non fa parte di un canone letterario.

Solidarietà.

Il senso di comunanza tra gli uomini – e, in senso più ampio, tra tutto ciò che vive – è un sentimento che sembra si sia perso lungo la strada verso un mondo illuminato in tutte le sue parti, pulito da ogni residuo di sporcizia e ottimizzato in tutti gli aspetti quotidiani e della convivenza sociale. In un mondo, però, dove non c’è più bisogno dell’altro, in cui l’altro è quasi diventato l’altro assoluto, è altrettanto impossibile riconoscere se stessi.

È forse quella la provocazione che ci lancia Emmy Hennings nell’accurata e attenta traduzione di Marco Federici Solari: che non possiamo essere o diventare noi stessi se non accogliamo nel nostro io tutte le sfumature dell’umano, quello che siamo e tutto quello che non siamo, che non ci piace, che non vogliamo essere.

Ecco, la sfida.

 Stefanie Golisch

*Emmy Hennings, Prigione, traduzione di Marco Federici Solari, L’Orma editore, Roma 2019

**In copertina: Emmy Hennings (1885-1948); insieme al marito Hugo Ball fonderà il Cabaret Voltaire a Zurigo

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