In ogni caso, pur incompreso, destò sconcerto. Come si sa, prima di Flaubert a incarnare la barbarie dell’opera (Madame Bovary, c’est moi!), è Emily Brontë, fatale e sfuggente, ribelle e devota, a sintetizzarsi nel suo protagonista, dietro lo schermo delle parole di Catherine, ebbre di ragionata follia: “Heathcliff sono io – lui è sempre, sempre nei miei pensieri – […] come il mio stesso essere – perciò non parlare ancora della nostra separazione – è impossibile”. D’altronde, “Wuthering Heights è l’espressione della ‘differenza’, fuori da ogni norma dell’autrice, e del bisogno umano e universale d’amore. Heathcliff ne è il centro, il pianto violento per la sua assenza. Splendida celebrazione del privato, Wuthering Heights è chiusa tra le sue porte chiuse e la sua asprezza”, conferma Paola Tonussi, autrice, per Salerno, di una brillante (per qualità di stile) e poderosa (son più di 400 pagine) biografia di Emily Brontë. Clausura – cioè: claustrofobia del sentire, amare indocile – e indipendenza – che significa: inadempienza ai codici romanzeschi costituiti – del romanzo sono l’alcova dell’autrice. Inevitabilmente, “Cime tempestose”, censito con timor di vertigine dalla stampa alla sua stampa, nel 1848 (di “romanzo rozzo, originale, possente” scrisse l’American Review; “affascinati da una strana magia, leggiamo qualcosa che pure non ci piace”, perfeziona il Literary World), pare adattarsi alla trama della vita di Emily, esaurendola. “A lungo fraintesa come un’opera poetica e metafisica di una stucchevole e allucinata radiosità… Cime tempestose è invece un capolavoro di matura e sconvolgente grandezza”, ha decretato Joyce Carol Oates, cingendo il libro con una trinità di parole – “anomalia… irregolarità… stranezza” – che dicono di Emily, specie di prototipo di altre esistenze magnifiche e marginali, della Dickinson, della Plath, di Cristina Campo, da noi, specie di monache dell’arte. Fuggire dall’agiografia come dal conformismo romantico è l’impegno principale della Tonussi (“Emily Brontë non è l’‘icona’ romantica della poetessa morta giovane dopo una vita di solitudine e silenzio alla canonica di Haworth, né fu sempre la stoica degli ultimi anni, la donna ‘Titano’ consegnata alla leggenda: riscattandola da ogni ‘mitologia’ formatasi intorno a lei… ci appare anche oggi una figura molto moderna”), che scrive una biografia dalla possente natura narrativa, costellata da una dote di fonti implacabile. La storia dei fratelli Brontë, nati & morti a breve distanza l’uno dall’altro, legati da una rete di sogni, cresciuti narrando, è diventata, in UK, un progetto, “Brontë 200”. Al di là dei meri dati biografici, c’è bisogno di chi, posizionando candele e luci, dando alle mani gioco d’ombre e alla parola puntura d’abisso (il capitolo più emozionante, L’approdo, ci porta a toccare il viso di Emily unghiato dal male: “manca poco alle due. Charlotte e Anne guardano sgomente il cambiamento sul suo viso: «Se mandate a chiamare un dottore, ora lo vedrò» dice con una voce che non sembra più sua. Cosa significano quelle parole nel più orgoglioso degli esseri, concessione estrema di chi ha finalmente trovato la via di fuga o pietà finale per le sorelle dai visi sconvolti? Tenta di alzarsi, appoggiandosi con una mano al divano. Le chiedono di coricarsi. «No, no» sono le ultime parole di una ribelle fino alla fine”), evochi una vita con non passeggera gloria. (d.b.)
Definiamo Emily Brontë in tre aggettivi. Spiegando la ragione della scelta.
Emily era ‘amante della solitudine’, ‘forte’ e ‘appassionata’. Il suo amore per la solitudine è evidente sin da bambina e proseguirà nell’adolescenza e nella giovinezza, plasmandone la scrittura: i suoi versi Emily avrebbe voluto tenerli segreti e Wuthering Heights è un mondo privato, chiuso dentro le emozioni, proprio come la canonica di Haworth è simbolicamente chiusa – e quindi anche simbolicamente divisa – tra il cimitero e il mondo selvaggio delle brughiere.
La forza, la tempra morale oltre che fisica di Emily si fanno notare molto presto: tra i fratelli, Emily è quella a cui tutti, prima o poi, fanno riferimento e presso cui cercano aiuto nelle difficoltà, nelle delusioni attraversate. Formato un sodalizio infantile con la minore Anne, il senso di protezione che Emily prova verso di lei non viene mai meno. Con l’andare degli anni Charlotte, sebbene sia la maggiore, guarda ad Emily come alla roccia cui aggrapparsi per non cedere alla disperazione: per l’amore impossibile con il suo professore di Bruxelles, l’evidenza di non potersi mantenere scrivendo o l’impossibilità ad aprire una scuola loro in casa. Infine, negli ultimi tempi, è Branwell che, imboccata la spirale dell’alcol e dell’oppio, si affida ad Emily o meglio è Emily che si prende cura di lui, lo aspetta quando torna a tarda notte dal Black Bull, la taverna vicina a casa, lo ascolta piangere l’amore ancora una volta irrealizzabile per Lydia Robinson, lo sprona a vivere ancora. Soprattutto, non giudicandolo, gli offre in silenzio la propria solidarietà e generosità.
Emily Brontë è appassionata nella scelta delle letture, nell’amore per la propria casa, la natura, e gli animali. Di là dalla vicenda straordinaria di Catherine e Heathcliff – un amore che sfida ogni legge, «di Dio e degli uomini» – pensiamo, solo per fare un esempio, alla nostalgia acuta che la vista di un rametto d’erica già morso dal gelo d’inverno le suscita, mentre era lontana da casa a Law Hill: quell’esile stelo solitario le «riporta, vagheggiato e lontano», l’«incantesimo» di Haworth e lei rivolge al suo fiore preferito parole di solito riservate all’essere amato. Velati dalla lontananza le paiono più belli «i pendii dove s’abbatte la tramontana/ E le valli dove un tempo vagavo». Lei e Anne bambine correvano sotto il cielo che «si scioglieva d’ambra e d’azzurro»: «Alle brughiere, dove il fanello trillava/ Il suo canto sul vecchio granito –/ Dove […] la libera allodola colmava/ Ogni cuore della sua stessa estasi». E «in esilio lontano», sul ciglio d’un colle, l’erica «rada e stentata» e prossima a scomparire le «sussurra»: «Sono fiorita al sole della mia ultima estate».
Si parla di una vita tutta mentale di Emily: come possiamo definire il rapporto tra lei e le sorelle, Anne e Charlotte? C’era davvero questo legame magico, nutrito dalla letteratura?
Sì, il rapporto che Emily Brontë ha con i fratelli è davvero magico: «a web of sunny air we wove in childhood» lo definisce Charlotte, «un velo d’aria dorata che intessemmo da bambini». Tutti imparano a ‘decodificare’ il mondo attraverso le loro letture, vastissime ed eterogenee, crescono considerando i personaggi dei romanzi letti compagni semi reali – come quelli politici d’altronde, perché i Brontë sono tutti «furiosi politici», dice sempre Charlotte. Dalle pagine di letteratura e in seguito di poesia imparano un codice estetico, morale e di comportamento e quando iniziano a scrivere le loro storie riverberano quel clima intenso, rarefatto e appassionato. Il che scatenerà le critiche negative a Jane Eyre e soprattutto a Wuthering Heights, ma i critici non sapevano che lingua e visione della vita – vivide, colme di passione, non convenzionali – risalivano molto indietro, ai giochi di quattro bambini che inventavano mondi nel nord Pacifico e in Africa, nelle loro le saghe fantastiche di Gondal e di Angria. Riguardo alla vita solo ‘mentale’ di Emily ciò è vero, ma in parte: Emily vive con tale intensità la propria fantasia da non voler abbandonare mai, fino alla fine, il regno fantastico di Gondal e tuttavia per brevi periodi lascia casa sua e conosce realtà diverse. Da bambina va a scuola a Cowan Bridge, da ragazza a Roe Head, insegna qualche mese vicino Halifax, cede infine alle insistenze di Charlotte di seguirla a Bruxelles per completare la loro istruzione. Il fatto è che il confronto con il mondo non ‘regge’ alla potenza visionaria della sua immaginazione, al suo senso della libertà, al suo bisogno di solitudine: conosciuto l’esterno, Emily Brontë decide che quelle norme e quei modelli non le appartengono e quindi dopo l’esperienza di Bruxelles rientra per sempre alla canonica di Haworth, l’unico posto al mondo in cui può essere felice.
Che ruolo ha avuto, piuttosto, il fratello Branwell, che muore pochi mesi prima di lei?
Da bambino Branwell è la ‘speranza’ artistica della famiglia, che fino a un certo punto non sembra mai dubitare del suo genio. Branwell scrive, compone poesia, studia latino e greco, dipinge (a lui si devono tra l’altro gli unici due ritratti che abbiamo di Emily), tenta molte strade e in tutte fallisce o disperde vanamente talento ed energie. Diventa anche ispettore delle ferrovie, poi precettore privato: quando tutto il suo mondo crolla e Branwell torna a casa distrutto già dipendente da droga e alcol, la casa è messa a dura prova dai suoi accessi di collera e disperazione. Emily cerca d’aiutare quel fratello sfortunato ma ha anche modo di guardare a lui come a una sorta di “studio artistico”: vede da vicino come si comporta un uomo che si senta offeso, disperato e vinto. Heathcliff urla con l’infelicità di Branwell e maledice con le sue parole d’angoscia, acuminate come lame.
Da dove nasce “Cime tempestose”? e che risposta ha avuto dalla stampa e dal mondo culturale dell’epoca?
Cime tempestose, Wuthering Heights nasce da una summa di letture di Emily Brontë, precoci e voraci: i romanzi di Walter Scott e le Mille e una notte, le opere di Byron e di Shelley e della stessa Mary Shelley, i poeti romantici inglesi e quelli tedeschi. Viene dall’assimilazione dei romanzi pubblicati a puntate sull’amata “Blackwood’s Review”, nonché dai racconti locali e dalle leggende dello Yorkshire, ad Emily note sin da bambina grazie alle storie ascoltate da Tabby. Viene infine anche dalla sua saga di Gondal, che ne rispecchia sentimenti, valori e ideali, il coraggio di «un’anima senza catene» come si autodefinisce in una delle liriche più belle, la sua visione del mondo, il pessimismo cosmico, l’amore per la natura osservata tutti i giorni sulle brughiere dello Yorkshire e infinitamente amata, perché quel paesaggio corrisponde a qualcosa di profondo dentro di lei: «sono più felice quando più lontana…» dice in un’altra lirica. Viene infine dalla sua straordinaria capacità d’inventare personaggi intimamente figli di quel paesaggio: così intuisce Catherine in uno scintillio di luce sulle colline e sente la voce di Heathcliff gridare nel vento. All’uscita del romanzo i critici e la stampa lo stroncarono perché lo trovarono ‘volgare’ e ‘violento’ e i suoi personaggi, Heathcliff in particolare, ‘demoni in sembianze umane’. Non lo capirono ma tutti vacillarono sotto l’impatto della passione, per quanto fraintesa. Bisognerà aspettare dopo la morte di Emily perché un altro poeta, Sidney Dobell, faccia giustizia a Wuthering Heights, per lui «the great utterance of a baby god», «l’espressione immane di un dio bambino». Oggi è uno dei romanzi più letti, più amati e più citati dell’intera letteratura mondiale. Un’opera unica, terribile nella sua potenza abbagliante, sublime.
Abbiamo idea da dove provenga l’ispirazione per Heathcliff?
Heathcliff è l’incarnazione e il punto d’incontro di molte «visioni», come le chiama Emily Brontë: una combinazione straordinaria tra la sua fantasia, il suo desiderio d’amore e le sue molte letture. Heathcliff è il discendente diretto degli “eroi maledetti” che amano e odiano con furore a Gondal e l’erede del mito miltoniano – Satana, l’angelo sconfitto eppure ancora bellissimo, sempre orgoglioso – e l’altro mito potentissimo per Emily, quello byroniano – il mago Manfred in particolare, ma anche il Corsaro e lo stesso Byron: il poeta degli estremi, dalla personalità grandiosa, colui che riteneva lo stato dell’uomo inadeguato rispetto l’altezza delle proprie aspirazioni. Emily ne legge la vita e rimane affascinata dal suo temperamento, l’amore per la natura e per la solitudine che appartengono anche a lei, la passione per gli animali e l’ideale della libertà. La stessa dolorosa vicenda personale di Branwell contribuisce, come dicevo, alla creazione di Heathcliff con il tormento di un amore negato e urlato in accenti disperati e inconsulti. Per quanto riguarda il nome ‘Heathcliff’, che è insieme nome e cognome, il fratello Branwell porta un nome che in realtà è il cognome della madre – Maria Branwell – ma soprattutto in questo nome si abbracciano due tra le cose della natura che Emily più amava: Heath, l’erica, e Cliff, la vetta.
Che valore hanno, nella crescita, nell’opera di Emily, le poesie? Cosa leggeva, che giudizio aveva del suo tempo?
Emily Brontë è una lettrice e amante di poesia coltissima: non solo leggeva poesia settecentesca – Thompson e Pope ad esempio – ma conosceva benissimo i poeti romantici da Wordsworth a Coleridge, da Byron a Shelley. Gli ultimi due echeggiano moltissimo nella sua opera e nel romanzo: la celebre chiusa suggellata dalla parola talismano, «terra», la «quieta terra» dove il viaggio terreno dei protagonisti trova infine pace è un ennesimo eco da Shelley. In Wuthering Heights e nei versi di Emily ci sono poi ripetute tracce di Shakespeare, Novalis, Goethe. Emily impara dal padre il latino tanto bene da riuscire a tradurre brani dell’Eneide e da Orazio. D’altronde basta scorrere il catalogo dei libri dei Brontë conservati al Brontë Museum per rendersi conto dell’eccezionale varietà di letture in prosa e in poesia di Emily e dei fratelli, figli di un padre a sua volta poeta, scrittore e lettore instancabile. Con il proprio tempo Emily ha un rapporto ambivalente: da un lato il desiderio di preservare la propria unicità e originalità la spinge a rimanere a Haworth, a casa dove vive esclusivamente in compagnia dei familiari, di Tabby e dei suoi animali, eludendo ogni frequentazione esterna che avrebbe potuto avere in quanto figlia del curato del villaggio. Dall’altro però, quando lei e le sorelle ereditano il capitale della zia è lei ad amministrarlo, e bene: si rende esperta del mercato azionario studiando ogni trafiletto di giornale e dedica alle azioni la stessa meticolosa attenzione con cui creerà l’impalcatura legale che sorregge in filigrana il suo romanzo. Le sorelle si fidano di lei: Emily ha sempre dimostrato grande senso pratico e saprà padroneggiare anche gli oneri dell’eredità, ma tutto ciò per lei è comunque poco importante. Emily Brontë vive per scrivere, per le brughiere e per i suoi animali.
Mi pare che Emily, nella sua biografia, sorga alla nitidezza di un simbolo: quale? Voglio dire, cosa ci dice, oggi, quella vita di allora e che confidenza ha la vita di Emily con la sua opera?
La vita di Emily Brontë è talmente bella, particolare e appassionata che da essa traluce più di un simbolo: personalmente direi l’amore per la poesia e la natura, la forza e il coraggio di essere sempre se stessi anche in condizioni avverse e lo sguardo rivolto all’alto, a un senso ideale del vivere e del morire. Emily Brontë muore infatti con fermezza stoica – la filosofia stoica era un’altra sua frequentazione spirituale – a soli trent’anni e solo all’ultimo periodo della sua breve e luminosa vita si potrebbe dedicare un volume. Quella vita è un modello, inarrivabile da un punto di vista letterario, comunque unico da un punto di vista umano: nel gioco imponderabile delle affinità elettive che il destino ci regala, la vita e l’opera di Emily rimangono per me un faro, un lungo amore, la certezza di poter «spiccare il volo sull’ala incantata» ogni volta in cui riapro quel romanzo: «1801 – Sono appena tornato da una visita al mio padrone di casa…». E il sogno, intatto e spericolato, ricomincia.
*In copertina: Ralph Fiennes e Juliette Binoche nella versione cinematografica di “Cime tempestose” del 1992