15 Agosto 2018

Elegia sul ciglio del Ponte Morandi. A precipizio, insieme a Dino Campana, Hart Crane e Franz Kafka (che ci dice: guarda che il ponte sei tu!)

Il ponte è innaturale, esplicita un volo in cemento. Al posto di seguire il profilo delle cose, lo semplifichiamo. Una riga astratta sul vuoto.

*

Ci piace l’idea che il ponte unisca mondi – a volte esalta distanze. Al posto di costruire giardini nel labirinto e istituire patti di amicizia con Minotauro, Dedalo tenta il volo. Perde il figlio, Icaro. Diventa costruttore di armi da guerra. Il ponte è indossare le ali.

*

Se il ponte è un getto verso l’avvenire, beh, è meglio sedersi e guardare l’ora in cui culmina il tramonto.

*

Un ponte che non fa il ponte: una lingua sospesa nel vuoto, un verbo barbarico, una condanna spietata. Un braccio a cui hanno segato il polso. Ne vediamo tanti, così.

*

Quando vidi il ‘Morandi’, su cui siamo passati tutti, dissi all’amico, sembrano due angeli identificati nel cemento, che si sfidano.

*

Se crolla un ponte siamo precipitati tutti – ma lo sforzo, immediato, da qualche minuto dopo la tragedia, è ‘trovare i responsabili’. La politica continua sempre a prendere a secchiate il prossimo, che i Ministri si riempiano la gola di calcestruzzo.

*

Lo chiamavano in gergo ‘ponte di Brooklyn’: perché questo servaggio di fronte al mito americano? Noi non sappiamo svettare altrimenti?

*

Al Ponte di Brooklyn, nel suo grande poema, The Bridge, Hart Crane dedica una poesia piena di onore e di clangore:

I tuo cavi respirano ancora il Nord Atlantico.
E oscura come il cielo degli ebrei
ecco la tua ricompensa… Quell’anonimo abbraccio che ci doni
non può distruggerlo il tempo: tu dimostri a noi
una vibrante grazia, un vibrante perdono.

*

L’abbraccio da anonimo è diventato la spirale del pitone.

*

L’ultimo verso del poema di Crane è micidiale. “…slanciati/ verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi,/ e con la tua curvatura presta un mito a Dio”. Il ponte declina, si sbriciola, come un braccio, sfiancato. Se un ponte crolla, quella via è esaurita. Questo millennio non sa più reggerci: torniamo al cammino, allora, tracciamo sentieri tra le ginestre e gli abeti, che ci ferisca ancora l’orizzonte del mar Ligure, netto come una spina azzurra, quando appare, sempre inatteso.

*

“O città fantastica, o gorgo di fremiti sordi!”: così canta Dino Campana la città, Genova, porto onirico del poeta lisergico. Nel 1909, da Genova, Campana compie il viaggio fantomatico in Argentina. Il poeta-ponte, il poeta dei due mondi, dei mondi incomparabili. “Per i vichi marini nell’ambigua/ Sera cacciavo il vento tra i fanali/ Preludii dal groviglio delle navi”. E ancora dal 1911 al 1913, continua la relazione tra il poeta e Genova, dove ogni fremito lirico è possibile.

*

Il ponte, l’aereo, la nave: all’uomo le gambe sono poco, la stazione eretta poco importa, bisogna dominare l’elemento – che poi ti rovina addosso.

*

Nel 1917 Franz Kafka scrive Il ponte. Incipit indimenticabile (“Ero rigido e freddo, ero un ponte, stavo sopra un abisso”). Anche il ponte ipotizzato da Kafka crolla. Dopo aver atteso, in un luogo remoto, un ‘passeggero’ – “chi era? un bambino? un sogno? un bandito? un suicida? un tentatore?” – il ponte non resiste. Si volta. “Mi girai per vederlo”. Come Orfeo si volta per vedere colei che ama e che sta estraendo dagli inferi. “Un ponte che si volta!”. Nessun ponte può voltarsi – per questo, precipita.

*

Non dico che il ‘Morandi’ si sia voltato – che pietà può esserci in quel capodoglio di cemento con le ali? Dico che siamo noi il ponte. Che siamo noi che dobbiamo reggere, come scrive Kafka, “colui che ti è affidato”. Senza voltarsi – senza chiedere grazie – realizzati nel compito. Siamo noi a sorreggere. Siamo noi, braccia, mani, gambe, il ponte. (d.b.)

Gruppo MAGOG