Fabio Pusterla, ticinese nato a Mendrisio nel 1957 (insegna in un liceo e all’università della Svizzera italiana), è uno dei migliori poeti italiani di oggi: lo conferma l’ultima uscita dal titolo Cenere, o terra (Marcos y Marcos 2018), dove i punti di convergenza della testualità che riempie il vuoto esistenziale sono soprattutto gli elementi primordiali: terra, aria, acqua e fuoco di una geografica residenza. La bellezza del creato non è quella di una cartolina folcloristica e promozionale, bensì nasce, nel titolo dell’opera, da un verso dantesco che indica toponimi, siti, un territorio da esplorare inglobandolo, selezionandolo, stratificandolo. Come accertabile nell’antologia riassuntiva di un percorso che dura da trent’anni, Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 (Einaudi 2009), il verso di Fabio Pusterla si sposta dall’immanenza cartografica ad un’emulsione di materiale franto (fanghiglia, pietrame, calcite, zinco, piombo, carbone, falda), tra “la chiazza di luce sul fondo”, richiamando un verso, e la “chiarità di bruma” appena sfumata dei suoi luoghi prediletti. Luoghi dove all’improvviso può essere avvistata una capra e dove l’aria della vallata può intingersi di nafta ai margini di un viadotto o in prossimità di un costone. La lingua-oggetto e il verso sciolto, cesellato, che incarna le cose (lirico e multiforme), costruiscono l’equilibrio di un manufatto di notevole qualità stilistica. Scrive Enrico Testa nell’antologia Dopo la lirica (Einaudi 2005), che Pusterla “tenta fuori del vischioso conforto di uno stato catatonico, un rapporto con le forme e le figure dell’esperienza e con i loro tracciati percettivi e sentimentali”. È vero: fuori da ogni schematismo, da ogni ideologia, affermazione o negazione civile, questa poesia è un rivolgimento a ciò che risponde alla realtà disossata da simbolismi e convenzioni sociali, fuori anche da obiettivi che non siano meramente rappresentativi di un patrimonio comune, fisico e biologico, di un’appartenenza alla sacralità della vita, quotidiana e primigenia, di chi avverte con intensità i fenomeni privati e pubblici tramite impressioni sensoriali. Nessun apparentamento neppure con la linea lombarda o con una tendenza spinta ad abbracciare una poetica ecologista. Eventualmente Pusterla può essere ascritto a quella tradizione che traduce il gesto sinestetico in un monologo interiore, che accompagna lo slancio auto-conoscitivo ad un controcanto naturalistico e polifonico.
La luce “nervosa e pulsante”, che abbaglia e fa da contorno, da fissità irradiante, è vista spesso dal basso, tra le case e i posteggi, nell’immobilità tesa, in un punto di sospensione situato nel topos letterario dalle parti di Asiago e Chiasso, nelle boscaglie di Valsolda, nella Madonna dei Campi, piccola chiesa nei pressi di Castel Rozzone, a Focara, citata da Dante nell’Inferno, nella casa del custode delle acque di Vaprio d’Adda, nella Secca del Diavolo vicino Santa Teresa di Gallura, fino a risalire al Canton Ticino, rievocando e intersecando i personaggi incrociati nella letteratura e negli ambienti dove sono vissuti o vivono ancora: Jacopo Da Lentini, Francesco d’Assisi, Giuseppe Parini, Milo De Angelis. Il Monte Zebio, a nord di Asiago, ricoperto di abeti, pini, cardini, stormi di libellule, nei cui boschi emergono i residui bellici del conflitto mondiale, apre il primo sipario naturalistico in una dimora impervia: “Da qui saliva una sera Rigoni / Stern piangendo Primo Levi d’affocata / simmetrica desolazione, sulla roccia spezzata / poggiando una mano smagrita o una lacrima”.
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Fabio Pusterla è il poeta in cammino con un monocolo tra le mani. Non si limita ad osservare come farebbe il viandante, ma trascorre il tempo dilatandolo in una rivelazione intima ed espressionistica, in ciò che definisce “aria di passo”. Respira l’atmosfera del luogo riempiendolo di strati visibili (cemento, asfalto, reticolati) e immaginari (le “lame d’acqua”, il “soffio d’arsura”, le “fauci dei monti”). La sua è dunque una poesia di transito, di soste, ma anche di attesa, a volte “ammutolita”, altre volte incantata in un confine riempito di ricordi, tanto fa far esclamare, in uno dei pochi interrogativi, l’avvertimento perturbante: “E la gioia, chi ha rubato la gioia?”. Pusterla dà spazio al nonnulla e allo stesso tempo ad un procedimento di accumulo di sensazioni uditive: il brusio, il martello pneumatico, in una dimensione spazio-temporale stremata, da riconquistare, come se il “possesso” del luogo fosse possibile attraverso la parola esatta, segnica, che segua l’andare tra la “rissa dei giorni”, nel fascino stesso dei boschi notturni, nelle corse tra le tenebre, in una proiezione fantasmatica che “arriva da molto lontano” e che sente gridare perfino la luna. Indicazioni ed esortazioni, apparizioni e visioni paleontologiche si allungano parallelamente allo sguardo: “Un’ombra di ragazza / sul mesto umidore del vetro / è una scarpata madida che aggetta sul vuoto”; “Appare meglio la luce e ti assale / più di sorpresa il fulgore degli oggetti / abbandonati, dei fiori negli orti sospesi, nei vasi”. Guizzi di vita si alternano ad una crescente tensione, ad una vena analitica nel verso spezzettato, in cui l’asse portante rimane la forza penetrativa dello sguardo che accentua l’adesione alla natura: densa, ampia, condotta di luogo in luogo, obbediente ad un contatto di superficie. La parola cerca luce, ammette Pusterla, mentre il silenzio cerca parola quando si rivolge al poeta britannico Wystan Hugh Auden, e il vento, idealmente, annulla la distanza tra i vivi e i morti. Continua l’illuminazione di zone d’ombre nel presente e nella cronaca dei giorni, nei controviali di progetti falliti come quello urbanistico di Zingonia, piccola frazione tra Milano e Bergamo. E ancora le tante smagliature del territorio, la fioritura di spazi storici, anacronistici, persuasivi nel regno vegetale, animale e minerale: “Lungo questo sentiero di silenzio: // pietre nere, pettirossi quasi immobili / su balze di muro o ringhiere, / lunghi gatti che guardano altrove”. La consapevolezza della precarietà umana e della finitudine si avverte osservando case diroccate e vecchie torri militari di guardia, le immagini antiche, affrescate degli angeli, il sole dietro la roccia che sparisce, il tronco deforme della civetta, le nebulose scure (è il titolo di una poesia), le zone inquiete dell’essere ricordando il padre Elius, il sussulto del fiato nel sogno, in un rigurgito malinconico (ma non lascivo o nichilista). Il verso fa uso di vocaboli netti, precisi. La poesia è priva per lo più di un certo soggettivismo che riscontriamo nella maggior parte della produzione contemporanea e si riempie della specificità di oggetti impersonali, nominati in un lungo catalogo che non produce mai effetti di straniamento.
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Fabio Pusterla fa delle sue stelle un’occasione per indagare la cosmicità dell’universo, immaginando costellazioni, il filo conduttore tra mondi sconosciuti, supremi, e una percezione terrena, lucida ma parziale, limitata. La rotta acquisisce una visionarietà disinibita, affidata al destino, in una crocevia di ombre mortali (“Temi di riconoscerti? Ti accosti / con brivido alle conche? Le turbolenze, / i movimenti misteriosi delle onde: forse è qui lo spavento. // Come una vita che esplode”). L’acqua sembra conferire una rinascita ineguagliabile specie quando il verso si fa più disteso e Pusterla narra vicende nella felicità descrittiva dell’elemento liquido. L’acqua che sgorga, che saltella, “acqua stupefacente”, che dilaga, che sale e scende, che si fa rivolo, goccia.
L’epilogo, però, crivella temi esistenziali, assoluti. La voce, allora, è meno pacata, seppure sempre limpida, ma con un peso specifico. I “monti selvaggi” e i “boschi scoscesi” vengono assaliti dal dubbio, da un senso sfuggente e provvisorio nell’unità del tutto, nel solito sguardo che stavolta “vede e non vede” in “tempi collegati” e in “passaggi precari”. “E poi: soltanto dal mare / si capisce qualcosa”; “Cenere, o terra? Luce, semplicemente / trama di luce che si arresta per un attimo / nell’onda dei capelli traversati dal vento”. Pusterla abbandona l’orizzontale manifestarsi degli accadimenti, dei fotogrammi, delle sequenze quasi filmiche. Il quesito diventa lancinante tra la cenere e la terra. L’ordine del mondo, richiamato in uno dei testi, è un disegno, un’ipotesi, un riflesso? Una morsa o un’apertura della madre terra, in un dominio umano e divino? Un nuovo corso che segue alla distruzione dei secoli? Un sogno, un progetto? Ad un certo punto il fiume e il suo flutto non bastano più nel canto del vissuto e nella necessità della pronuncia, tanto che anche l’acqua sembra intorbidire il presentimento del poeta nella sua lingua echeggiante. Dove stiamo andando di volta in volta? “Sul confine della nostra solitudine / si guarda all’altra riva / con paura e sgomento. Inflessibili”. Ecco un’altra affermazione incerta, che traduce il significante estremo, disilluso: “Ritornare all’origine fuggendo. // Spazzare, anche facendosi / del male. No, non è breve / il corso delle cose. Né indolore”.
In fondo Fabio Pusterla scandisce il crescere e il sedimentarsi della realtà immanente nelle forme e nell’invisibile. La sua poesia ha un’eco armonica, sia quando vede e registra, sia quando percepisce nella coscienza un sentore inconoscibile. Il suo sguardo d’insieme ha qualcosa di iniziatico, di allargato in una ricerca oggettiva, non solo materica, ma diramata ai confini della vita umana (in un “impuro moto”), distillata nell’agguato immaginifico di un dopo. Il grumo della verità sta nel rapporto tra la terra e il cielo, tra il qui e un possibile altrove, in tempi e luoghi non a portata di mano. “Andare verso la rosa / sfinita all’orizzonte, / sotto quel cielo spoglio / di mare, abisso e ponte”. E’ questa la cenere, la terra, ma anche il mantra di una prospezione smorzata.
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Fabio Pusterla ha pubblicato, quasi contemporaneamente a Cenere, o terra, Una luce che non spegne, con il sottotitolo Luoghi, maestri e compagni di vita (Casagrande 2018): un libro corposo che raccoglie testi editi in rivista e in volume nel corso di decenni. Contro un generale appiattimento e la dimenticanza comune di ciò che le figure letterarie di riferimento hanno profuso, la responsabilità assunta è tutta nel repechage di chi fa parte della catena che non si spezza (esattamente come nei versi, seppure con un intento diversamente proporzionale), che è strumento di scavo nella grazia del presente e dell’interrelazione tra uomo e uomo, tra episodi di superficie, amicizia, passeggiate, e profondità di analisi, di letture. La luce della poesia in proprio si trasferisce in quella di chi, come atto di speranza ricambiato in gratitudine, ha insegnato e orientato il cammino. Persone, dunque, ma anche luoghi centrali: reali, interiori e culturali, su cui “le opere letterarie si sviluppano, si intrecciano, dialogano nel loro divenire”. Pusterla pone una domanda che lo stesso anconetano Franco Scataglini aveva messo al bando con il suo kantiano “che senso ha vivere qui e non altrove?”. “Da dove viene il lieve senso di spaesamento e inappartenenza che mi agita di fronte all’interrogativo? E come riesco ad accordare questa sensazione con la vita quotidiana, nella quale devo pur riconoscere di sentirmi a mio agio in tutti questi luoghi e di trovare in esso e nelle persone e nei paesaggi che posso incontrare qualcosa di importante, che senz’altro mi definisce?”. La Svizzera e l’Italia: da dove guardare? Da una zona di frontiera, da un limite, da una città, da una marginalità estesa da Chiasso a Lugano? Sarebbe la stessa cosa, in fondo? Un luogo selvaggio e un luogo urbano costituiscono il confine che obbliga a “non essere né qui né lì”. Afferma Fabio Pusterla: “La casa dove vivo è una vecchia casa di famiglia, costruita da un mio antenato all’inizio del secolo scorso e appollaiata a mezza costa sul lago di Lugano, ramo valsoldese”. L’acqua torna prepotentemente a riaffacciarsi, specie in Lombardia, terra di fiumi e laghi. Acqua corrente, di torrente, di canale, rivoli, acquitrini, acqua che occupa uno spazio del paesaggio spesso inabitabile.
Una luce femminile che non si spegne è quella, carissima, di Maria Corti. “Ogni tanto incrocio il suo sguardo, che mi fissa ironico da una fotografia appesa in cucina, e so bene cosa mi sta dicendo; mentre se squilla il telefono di domenica avverto ancora la vaga sensazione che provavo un tempo, quando intuivo che alzando la cornetta avrei potuto udire la sua voce che mi interrogava: cosa stavo facendo, studiando o scrivendo?”. Maria Corti: uno stimolo, una donna grande nella sua attività filologica, critica e letteraria. Un’insegnante particolare, curiosa, generosa, rigorosa, “sorprendente e affascinante”. Una maestra documentatissima, precisa, che sapeva mettere a nudo qualcosa di imprevedibile, l’incedere delle memorie, dei fantasmi che ne facevano una figura complessa, senz’altro creativa, con il seme narrativo che germogliò seppure tardivamente. Fabio Pusterla ritrae i luoghi di Maria Corti per la quale la città era innanzitutto un luogo mentale. La Valle Intelvi sul lago di Como, “con l’aria fresca quasi di montagna” e un’osteria dove si mangiava la polenta facevano parte di un itinerario ideale dove potevano rientrare anche Ulisse e Dante.
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Vittorio Sereni “memorabile e centrale”, i cui versi splendono come “aghi di tante piccole bussole”, dimostrano che Pusterla rielabora il Novecento partendo da scelte che gli stanno a cuore, annodando il secolo alla poesia che lo seduce di più, tanto che con Sereni parla di “insistente erotismo annodato a un annuncio di catastrofe”, trasformando l’identità dell’uomo in una paura ancestrale. L’attenta lettura lo porta a stabilire similitudini, mescolanze di alto e basso del linguaggio, lo scomponimento di elementi mobili, la precisione e la dissoluzione dell’immagine, la complessità culturale che ha pochi termini di paragone. Lo stesso avviene con Fernando Bandini, celebrato per il compimento dei suoi ottant’anni, che “da mezzo secolo rallegra un panorama talvolta plumbeo e serioso, con quella che Goffredo Fofi ha potuto definire mozartiana allegria”. Giorgio Orelli è considerato “una delle voci più alte e più riconoscibili della poesia italiana novecentesca”. Nei pochi titoli pubblicati Pusterla intravede una rara coerenza, così come nelle acute pagine critiche su Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pascoli, Montale. Suono e significato erompono in uno “scavo vertiginoso e impietoso”. Tra gli altri poeti ineguagliabili il francese Ives Bonnefoy (tra i maggiori dell’epoca contemporanea), del quale Pusterla si è sempre stupito delle annotazioni a matita, delle sottolineature, dei commenti e degli appunti sui fogli. L’interrogazione della parola congloba la poesia con la meditazione sulla poesia e l’ammissione che non è affatto facile distinguere l’uno e l’altro aspetto. Il flusso simbolico del linguaggio, le figure primordiali, i “calibratissimi strumenti di precisione” dell’uomo, come il fuoco e la pietra (“lampi stellari”), formulano una coscienza critica distillata nel valore semantico, ma soprattutto nella perfezione e nell’imperfezione di un oggetto (“la materia senza ritorno”). La lingua è allusiva, rarefatta, sospesa in un moto universale, nell’onirica interpretazione della fine di un’epoca e dell’inizio di un tempo dell’immaginazione. Il cronotipo dell’incedere visivo di Bonnefoy stabilisce la cadenza in un viaggio di stazioni, in un effetto di echi che si sente appena e si perde nel nulla, nel magma delle azioni meccaniche. Il ritmo prescelto è dentro un luogo, in un evento ritagliato nell’apparizione di una veglia.
Quindi Pusterla cita Francesco Scarabicchi e Massimo Raffaeli, il loro scrivere come “gesto di conoscenza e di ricerca” in una vitalissima solitudine. Raffaeli prende in mano la bussola e segue la testimonianza del secolo breve e del terzo millennio lacerato e conflittuale, scrivendo in un modo perfino acustico, risonante tra aggettivazioni essenziali, perfette. La poesia del maestro Franco Scataglini, poeta isolato e tra i più significativi del Novecento, ha corroborato la crescita spirituale del marchigiano, determinando la visuale preferita: una viva autocoscienza, il privilegio e l’angoscia dello spazio-tempo, la denuncia del dolore e insieme il bisogno di sopravvivere, la marginalità sociale, una sorta di sussulto terrigeno e una tensione ansiogena di tipo esistenziale. Anche l’individualità di Scarabicchi orienta il passo di Pusterla, come è stato per gli scomparsi Remo Pagnanelli e Ferruccio Benzoni. Quest’ultimo in particolare, voleva scoprire un linguaggio suo e vantava, fortunatamente, dei padri letterari, una memoria storica con una luce e un’ombra aggettate da un’altra dimensione, dall’inverno allegorico, dallo stesso luogo dove stabilire un dialogo con gli assenti. Alla residenza anconetana di Scataglini, Scarabicchi e Raffaeli corrispondeva, negli anni Ottanta, “Sul Porto”, la rivista di Cesenatico, che dimostrava sapientemente come la periferia geografica potesse diventare centro poetico. Benzoni tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta ebbe rapporti continui e proficui con alcuni poeti di primo piano come Vittorio Sereni, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici e Giovanni Raboni.
Infine, Una luce che non si spegne, si sofferma sul critico Alfonso Berardinelli, sull’accusa diretta alla cultura di non conservare il respiro e il gusto della conversazione come “segno di realismo”, come necessaria mediazione. Il temperamento sulfureo mette in risalto le contraddizioni, gli errori, le miserie della società letteraria. Il critico e saggista romano provoca e Fabio Pusterla raccoglie questa provocazione. Commenta: “Si accolla il ruolo non facile e non simpatico della voce che canta fuori dal coro; anzi, che non canta affatto, e guarda agli altri cantare con una smorfia di fastidio e di disapprovazione”. Leggere i poeti italiani è davvero esasperante? La maggior parte della poesia di oggi è oscura, difficile? Non reggerebbe il confronto nemmeno con un buon articolo di giornale? Non si alimenta più con la vera tradizione? I giovani poeti sono così arroganti ed egocentrici? Berardinelli agisce con l’invettiva resa “provocazione attiva”, domanda di senso. Rimane l’iniziato che avvia un’azione democratica, che interroga l’altro per il piacere di far propria un’opinione attraverso la sfida. La lettura, in fondo, è un portale d’accesso, ci dice Pusterla, che chiosa: “Dopo un libro, dopo aver attraversato un vero libro, sai delle cose che prima non sapevi; la tua esperienza di vita si è in qualche modo potenziata, la tua conoscenza del mondo e degli altri è aumentata; ma insieme a queste cose si è fatta anche più nitida la tua coscienza di te”. Pusterla interpreta i minimi segni che si annidano tra le pagine, nei dialoghi, negli interrogativi dei letterati. Salda il mistero e la fede, la ragione della poesia. Si accorge che lo sguardo si posa dove vuole, così da rendersi conto che la vita ha un’originalità unica con la stessa conformazione dei paesi cari, del lago di Lugano “tortuoso come un fiordo e per questo ricco di straordinarie prospettive ed effetti di luce”. Una luce dolce e gentile, con i boschi dove fa irruzione, dall’alto, lo strepito dell’aquila.
Alessandro Moscè