27 Novembre 2018

“È inaccettabile che in Italia si possa prendere la maturità senza conoscere Bach, Mozart, Beethoven”: Francesco Consiglio dialoga con Maurizio Baglini, virtuoso del pianoforte e direttore artistico dell’Amiata Piano Festival

Richard Wagner diceva che la musica comincia là dove si arresta il potere delle parole. Ne consegue una domanda: per capire l’essenza di quest’arte, è sufficiente tuffarsi nell’oceano di note che riverberano tra le mura delle sale da concerto? O è possibile averne una migliore comprensione ascoltando anche i principi e le opinioni dei suoi protagonisti? Esposto il dubbio, lascio a voi le conclusioni. Prima che vi inoltriate nella lettura, mi preme però precisare che questa intervista non è un lavoro accademico, ma un dialogo piuttosto sbilanciato e diseguale quale può intrecciarsi tra un semplice appassionato e un professionista. Il mio interlocutore, invero assai paziente, è Maurizio Baglini, solista in sedi prestigiose e in numerosi festival internazionali tra cui l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro San Carlo di Napoli la salle Gaveau di Parigi, il Kennedy Center di Washington, lo Yokohama Piano Festival, l’Australian Chamber Music Festival. È inoltre fondatore e direttore artistico dell’Amiata Piano Festival, che in uno scenario paesaggistico di grande bellezza ospita solisti, ensemble e orchestre, con un programma che spazia dalla cameristica alla sinfonica.

Quando una musica viene definita ‘commerciale’, questa parola assume una connotazione negativa e serve a designare un prodotto di consumo rivolto a un pubblico che ascolta con superficialità e partecipazione esclusivamente emotiva. Così accade che un artista apprezzato da un ristretto circolo di intenditori venga ripudiato dai suoi primi ammiratori nel momento in cui ottiene un più largo successo. Questo ragionamento porta gli appassionati di musica colta a ritenersi parte di un’élite unita da valori di carattere culturale che si presumono superiori a quelli di chi preferisce i Metallica a Beethoven e Chopin. Ma siamo proprio sicuri che minor pubblico equivale a miglior pubblico?

Sinceramente, penso che non si possa analizzare questo fenomeno pensando soltanto all’antitesi fra qualità e quantità: da artista e direttore artistico, sono alla continua ricerca – e sperimentazione – del cosiddetto indice di gradimento. Posso certificare che la musica cosiddetta più impegnata è molto gradita: basta spiegarla al neofita che vi si avvicina. Se tutti gli artisti diventassero divulgatori, non avremmo il problema di una ristretta élite di pubblico per la musica d’arte. Sta all’artista uscire dalla torre d’avorio. Dopodiché, è opportuno riflettere sul fatto che un pezzo celebre, spesso, è celebre perché è bello, perché se ne ricorda il tema principale anche dopo un solo ascolto. Questo vale per qualsiasi genere musicale. È un principio di educazione: finché la musica, come disciplina, non tornerà a far parte dell’educazione nazionale, avremo una maggioranza di pubblico musicalmente incolta. Un esempio lampante: in Italia, si può prendere un qualsiasi diploma di maturità senza dover necessariamente sapere chi siano stati Bach, Mozart o Beethoven. Inaccettabile.

Maurizio Baglini
Maurizio Baglini ‘maneggia’ il suo Schumann, di cui sta registrando per Decca tutte le composizioni

In un saggio intitolato L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Alessandro Baricco afferma dispiaciuto che “il consumatore di musica colta rema all’indietro con grande dignità, temendo le rapide del futuro e sognando la paradisiaca calma di sorgenti sempre più lontane”. Potrei definirmi in accordo logico ma disaccordo poetico: mi piace infatti immaginare la grande musica come metafora di un giardino segreto, un luogo dove andarsi a rifugiare ogni volta che la violenza del mondo si fa troppo dura da vedere e sopportare. Credo che questa estraneità al tempo e alle mode sia il segreto dell’immortalità del repertorio classico. Probabilmente la mia visione è troppo ingenua e romantica, ma non posso credere che la Quinta di Beethoven o la Cavalcata delle Valchirie di Wagner abbiano bisogno di essere attualizzate per avvicinarle alla sensibilità contemporanea.

L’attualizzazione dipende dalla funzione dell’interprete: la musica colta è sublime, ma è altrettanto datata. Riattualizzarla vuol dire semplicemente avere un forte senso di responsabilità: se ogni esecuzione dal vivo è simile a ciò che il pubblico, a livello di scelte di tempo, fraseggio, ritmo, conosce già, ecco che decade l’interesse per scoprire una nuova interpretazione. Di conseguenza, anche la musica più visceralmente diretta (ad esempio la Quinta Sinfonia di Beethoven), se suonata secondo le abitudini e senza uno spirito di rinnovamento (non si cambiano le note, ma si può agire sulla dinamica, sulla timbrica, sulle percezioni acustiche ed emotive), risulterà presto stantia e sempre meno utile. Questo senso di responsabilità deve essere sentito da parte dell’interprete, certo, ma deve trovare nel pubblico una linfa di curiosità che spesso, per i motivi che dicevo prima, viene a mancare.

Poiché la musica, per essere fruita, ha bisogno di un’esecuzione, essa corre sempre il rischio di trascendere le intenzioni del compositore, e non mi è chiaro fino a che punto questo andare oltre sia una risorsa oppure un limite. Leonard Bernstein, nel suo libro Giocare con la musica scrive che la musica classica è una musica “esatta”, cioè scritta esattamente per come deve essere eseguita, a differenza del folk, che è stato a lungo tramandato oralmente, del pop, continuamente coverizzato, e del jazz, che vive di improvvisazioni e sfocia in risultati che troviamo solo in parte nella partitura scritta. E allora mi domando: è necessario porre un limite all’interpretazione come atto artistico? Oppure ogni ricreazione è lecita, e possiamo essere lieti di affermare che non esiste un Mozart ma tanti Mozart quanti sono i suoi interpreti, anche chi lo suona in modo da farci esclamare: “Questo non sembra il vero Mozart!”. Anche se poi, a ben pensarci… chi ha mai sentito il vero Mozart?

Concordo. Lo stesso Bernstein, da immenso direttore d’orchestra quale era, ha fornito interpretazioni in continua evoluzione: se si ascoltano alcune sue registrazioni, effettuate in epoche diverse, della Nona Sinfonia di Beethoven, ad esempio, si percepisce immediatamente questo sentimento di ossessione continua per creare qualcosa di nuovo, eppure le note sono sempre le stesse!

La musica classica ha un repertorio così vasto che è impossibile sperimentare tutto. Cosa guida un pianista nella scelta di un autore piuttosto che un altro? La sua predilezione per Schumann, di cui sta incidendo l’integrale delle musiche pianistiche, è una suggestione antica che origina dai primi studi e dal suggerimento di qualche insegnante, o si tratta di un innamoramento adulto, più consapevole, legato a una passione biografica e non solo musicale?

Cerco sempre di trasmettere alle giovani generazioni questo concetto: o si suonano pezzi ordinari (ovvero celebri) in modo straordinario (ovvero in maniera talmente originale da farne una creazione), o si deve cercare un repertorio straordinario, ovvero poco consueto. Le due tesi non sono necessariamente in contrasto: nella mia vita ho infatti cercato di coprire sia repertori molto popolari che repertori assolutamente innovativi. Ad esempio, ho vissuto sei mesi in Giappone suonando soltanto due programmi di recital: uno popolarissimo, con Per Elisa di Beethoven e la cosiddetta Marcia turca di Mozart – che dovremmo definire Rondò alla Turca – e uno dedicato allo Chopin più famoso, ovvero lo Chopin le cui musiche erano state utilizzate come indicativi di pubblicità televisive varie. Allo stesso tempo, però, sono dedicatario di molta musica nuova (come il Concerto per pianoforte e orchestra di Azio Corghi, il decano dei compositori contemporanei italiani) e ho cercato di riportare alla luce repertori caduti nell’oblio, quali i concerti di Hummel e la suite intitolata Tombeau de Debussy, composta da omaggi postumi al genio francese scritti da autori quali Malipiero, Goossens, Roussel, Dukas, Bartòk, Stravinsky, Falla, Schmitt. A un certo punto, poi, grazie al rapporto esclusivo con una major discografica quale Decca, ho individuato Schumann come autore a me particolarmente congeniale: è stato un sognatore, un visionario, sempre alla ricerca dello sradicamento della tradizione e dell’affermazione della novità, di linguaggi musicali da abbinare ad altre forme d’arte. Anche nell’ambito dell’integrale delle opere per pianoforte di questo compositore, ci sono pezzi molto più suonati di altri, visto che il 70% della sua produzione non è conosciuta neppure dagli addetti ai lavori. Un modo perfetto, per me, in qualità di interprete, per porre l’accento su tutti questi concetti di attualizzazione di cui la musica classica ha fortemente bisogno.

Nella home page del suo sito (mauriziobaglini.com) risalta una scritta che mi ha molto incuriosito: “L’anticonformista visionario”. Nella storia dell’arte, grandi visionari come Rimbaud, Van Gogh o William Blake erano considerati alla stregua di eccentrici ribelli di talento sganciati del tutto dalla realtà e in contrasto con la società nella quale vivevano. Lo stesso Schumann fu ricoverato in manicomio dopo un attacco di delirium tremens (e qui il pensiero va a un altro visionario, lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe, maestro della letteratura horror). Eppure, visionari sono stati anche Leonardo da Vinci, Gandhi, Mandela, Steve Jobs e tanti altri sognatori che, integrandosi nel mondo, sono riusciti a rinnovarne regole e convinzioni, migliorandolo. In che senso un pianista può oggi definirsi un visionario?

Nel senso di non pretendere di alzarsi al mattino con il solo obiettivo di studiare musica al pianoforte: oggi, l’interprete deve assolutamente porsi la domanda del perché possa servire la sua opera alla società odierna. Senza diventare affetti da patologica mania di superiorità, il pianista deve avere dei sogni nel cassetto che vanno al di là della ricerca qualitativa nell’esecuzione o del successo da ottenere in una sala da concerto tradizionale. Nella mia personale esperienza, ad esempio, aver creato da zero l’Amiata Piano Festival, un festival che in pochi anni ha sviluppato una crescita esponenziale, è stata una dimostrazione di come la visionarietà potesse rappresentare il primo stimolo di creazione di qualcosa di nuovo. Cominciai a organizzare concerti domestici, portati poi in una cantina vinicola grossetana, la Collemassari, per poi arrivare alla costruzione di un auditorium che è oggi ai vertici dell’ingegneria acustica a livello europeo. L’unicità del festival, però, è stata la sua stessa creazione in un luogo incontaminato, in mezzo a vigneti e oliveti, quando ancora nessuno aveva pensato all’associazione fra musica e vino. Questa visionarietà si può anche perseguire, come status emotivo, nel concepire progetti di nuova diffusione della musica stessa: ad esempio, la sinestesia che si viene a creare associando immagini alla musica. Io, da anni, lo faccio attraverso il progetto multimediale webpiano.it. Un modo, anche questo, per portare la musica classica in frangenti dove non è ancora presente, ad esempio le pinacoteche e le gallerie d’arte, oltre alle facoltà di informatica, i cui studenti si appassionano all’algoritmo digitale per scoprire poi la bellezza di Mussorgsky, Schumann, Liszt o Debussy.

Nonostante il crescente interesse della scienza medica per le patologie causate dall’esercizio ripetitivo sullo strumento, nei Conservatori non si impara a prendersi cura del proprio corpo né si educano i futuri musicisti a svolgere attività fisiche, avere una buona qualità del sonno e curare l’alimentazione. Tuttavia, il solo premere con le dita i tasti del pianoforte richiede una complessa attività muscolo-scheletrica e neuromuscolare, per non parlare del dispendio di energie durante lo studio o una performance. Lei è un appassionato podista che ha preso parte a numerose maratone in tutte il mondo. Si tratta di una mera passione o di una forma di allenamento utile alla sua professione?

Il podismo nasce in me come necessità di canalizzare le energie in qualcosa che mi aiuti ad isolarmi e a non farmi fagocitare dalle quotidianità che il mio lavoro comporta. È ovvio che lo sport fa bene e che bisognerebbe aiutare i giovani musicisti ad appassionarsi al ritmo del corpo associabile a quello della musica stessa. Ad esempio, io imparo tanta musica a memoria proprio correndo, in mezzo alla natura, magari.

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

Sta per debuttare un nuovo progetto che porta il mio nome dal 13 al 16 dicembre al Teatro di Villa Torlonia, Roma. Poi mi aspettano un tour americano, che mi vedrà impegnato a Chicago sia come docente che come solista con orchestra, e un ritorno dopo alcuni anni di assenza in un Paese che amo molto: il Giappone. E si va avanti con l’integrale Schumann…

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG