09 Maggio 2018

“…e comunque leggere è più bello di scrivere”: dialogo con Eliana Bouchard

Gli scrittori sono stelle alpine. Squillano. Bisogna solo avventurarsi nei luoghi remoti. Quelli contrari alla norma letteraria. Per scovarli. A me accade così. Qualche anno fa, qualche volta, vado a trovare Giuseppina Bagnato, che è pastora presso la Chiesa Evangelica Valdese di Rimini. Parliamo di Bibbia, lei mi spiega alcune cose, io le espongo le mie perplessità. Quando, dopo un po’, sa che mi occupo di letteratura, mi passa un libro. Si chiama Louise. Il libro, pubblicato da Bollati Boringhieri, è un romanzo storico particolare, lirico, centrato sulla figura di Louise de Coligny, che perde marito e padre durante la Notte di San Bartolomeo, e diventa la quarta moglie del principe Guglielmo I d’Orange. Questo è il libro d’esordio – di svolta, piuttosto – di Eliana Bouchard, che entra nella cinquina del Campiello, sono passati dieci anni. Quando parlo con la mia amica pastora, la Bouchard ha da poco pubblicato La mia unica amica (2013). Quest’anno, sempre con Bollati Boringhieri, esce La boutique (pp.296, euro 16,50), che è una raffinata storia di ‘integrazione’, senza pappe morali: “Una donna in carriera, una solida casalinga, un musicista, un padre frustrato, un ex operaio, un omosessuale fedifrago e una fioraia pentita si scambiano affetti e gelosie, amori e tradimenti, aspettative e delusioni. Per ciascuno a suo modo la boutique rappresenta un punto fermo da cui ripartire per darsi ancora una chance”. Così dice la ‘quarta’. La Bouchard ha un passo narrativo prezioso: ama la sua storia e l’intrico delle sue vie, non ha bisogno di farci vedere quanto è brava né di accelerare, di dare fuoco alla materia linguistica. Ha pazienza – dote rarissima nella scrittura – e maturità. Conosce i luoghi dove crescono le stelle alpine, e gli sguardi che si accalcano sulle rocce. A me continua a stordire il modo in cui Eliana descrive una morte per suicidio. “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavora- va, non aveva posto domande, semplicemente si era alzata dalla poltrona dalla quale dirigeva un’importante catena di alberghi, aveva indossato il breve soprabito e si era stretta al manico rigido della borsetta con entrambe le mani. Aveva camminato con piglio spedito per diversi chilometri per raggiungere l’appartamento scelto con Kurt e, arrivata a casa, aveva scritto una lettera in cui rassegnava le dimissioni. Spinta da un bisogno urgente di casualità aveva chiuso l’abitazione priva di divisori, era andata a dormire in un albergo scelto a caso, si era comperata degli abiti comodi eppure eleganti in un negozio qualsiasi, aveva abbandonato nello stanzino di prova quel che indossava all’ingresso e aveva concluso i preliminari del percorso iniziatico in un hammam dove si era asserragliata nella sauna. Infine si era accomodata nella poltrona di un parrucchiere dove aveva ridotto i ricci a una corona di virgole e punti interrogativi”. Non ci sono parole a detergere il dolore – sarebbero tutte retoriche e fasulle – e a squalificarlo come una vicenda domestica. Non c’è compiacimento. C’è un gesto, nudo: stringere la borsetta; ci sono i ricci, esemplari, a forma di punti interrogativo. Ci vuole sapienza per far parlare la vita dalla maceria del dolore, per limitarsi a decretare una immagine, senza didascalie etiche o commenti. Così, ho bloccato Eliana in una trincea di domande.

Partiamo dalle origini. Come è nato in te l’impulso alla scrittura? Da una necessità infantile, da una lettura particolare, da un avvenimento preciso, dal caso?

Avrei sempre desiderato scrivere, ma mi pareva che tutto fosse già stato detto, spesso in modo ineccepibile. C’era sempre qualcosa di urgente da leggere, era appagante. Fino alla mezza età ero convinta di non aver nulla di così importante da dire da voler misurare me stessa con la scrittura. Poi, grazie all’insistenza di Louise che mi aveva eletta a sua interprete, mi è stato chiaro che avevo in mente qualcosa di inedito e prezioso, unicamente mio, singolare. Nessuno, che io sapessi, era stato interpellato da una donna del Cinquecento in maniera così empatica. Nessuno di mia conoscenza. Valeva la pena provare, legarsi alla sedia, cercare il proprio modo di lavorare: scrivere, buttare, rifare, scrivere, buttare e rifare finché tutte le parole andavano al posto giusto. Una fatica irresistibile. È cominciato così. Sono stata chiamata.

louiseSi scrive da soli, ma non si è mai soli, penso. Qual è l’incontro che ti ha formato? E la lettura, quella decisiva, c’è? Qual è?

No, non sono mai stata sola mentre scrivevo e non parlo della compagnia dei personaggi che muovi con le tue dita ma degli interlocutori fantasma cui presento le pagine che spuntano dal video. Si tratta di persone note, non necessariamente autorevoli sul piano della scrittura, ma che inconsciamente scelgo come supervisori dei contenuti, dell’interesse che questi possono esprimere. Sono spesso preoccupata di vivere fuori dal mondo, di non sapere che cosa importa agli altri e mi chiedo e chiedo al lettore immaginario se quel che faccio è buono. Sul piano dell’esempio ho avuto talmente tanti maestri che ho impiegato parecchio a buttarmi. L’incontro che mi ha formata è avvenuto intorno ai cinque anni, accanto al mio letto c’era una porta che vedevo io sola con su scritto Lettura. Se l’aprivi entravi nella realtà, tutto il resto era finzione. La persona della svolta potrebbe essere il prof. Cesare Cases, mio direttore quando lavoravo all’Indice dei libri del mese. Mi ha aperto il cervello, mi ha mostrato che cosa c’è dietro una parola, dietro una frase, mi ha insegnato a portare rispetto, a dissacrare e a portare nuovamente rispetto. A caldo, di letture decisive dico: L’isola del tesoro, Sussi e Biribissi, Il mastino dei Baskerville, Högni, Storie di cronopios e di famas, Orgoglio e pregiudizio, I racconti di Sebastopoli, Cattedrale, La guardia bianca, I balenieri di Quintay, Yossl Rakover si rivolge a Dio, La prima volta di Rachel, I sette giorni di Avraham Bogatir, I fratelli Karamazov. Queste sono letture del passato che rileggo ogni tanto. No, mi correggo, Sussi e Biribissi non l’ho più riletto ma me lo ricordo.

Ne “La boutique” racconti, in un contesto inusuale, una storia di ‘integrazione’ e di amore. Intanto: qual è l’idea fondamentale del libro? Poi: come ti è venuto in testa? Raccontaci la gestazione, la generazione. 

L’idea è che l’altro lo devi guardare negli occhi se vuoi conoscerlo. È una precondizione. L’ideale sarebbe anche toccarlo, sfiorarlo; per molti questo è chiedere troppo, sicuramente per me, ma guardare negli occhi, questo posso farlo. Può far star bene ma anche molto male. Dipende dagli occhi. Un giorno, distribuendo degli abiti ai profughi mi è capitato davanti un afghano di nome Ibrahim, diceva una sola parola, sempre la stessa e aveva delle idee precise su quel che gli serviva. Ho impiegato parecchi minuti a capire che voleva un abito tradizionale, giacca, pantaloni, camicia. Quando ha avuto quel che voleva ha accarezzato la stoffa come fosse una persona cara. Mi ha spezzato il cuore. Non riuscivo a togliermelo dalla mente, ne parlavo con tutti, era un’ossessione. Finché Lavinia, la mia maestra di canto, mi ha detto: secondo me questa è una storia che devi scrivere. È andata così. Ho scritto la storia di Ibrahim per sistemarlo, per dargli un contesto in cui vivere, per non abbandonarlo.

BouchardDal sorprendente “Louise” a “La boutique”, mi affascina il passo della tua scrittura. Lento, da miniatore, anomalo. Faccio un esempio, dalla descrizione di un ‘colpo di fulmine’: “Un raggio obliquo del sole puntava dritto su di lei, come una freccia indicatrice, mettendo in risalto l’armonia della piccola figura, e Ibrahim, a due anni dalla morte della moglie, nel vedere la donna aveva avuto un’allucinazione. Gli si era seccata la gola, si era appoggiato al muro per avere un sostegno di fronte al fatto straordinario di ritrovare l’amore perduto sulla soglia di un negozio fiabesco, vestita con un gusto semplice se pure occidentale, con i capelli ricci invece che lisci, ma per il resto si trattava di lei, della reincarnazione di Nur”. Ogni cosa ha il giusto ritmo ‘da camera’, la disposizione adatta, nitida. Come fai? Da dove viene il tuo modo, il tuo ‘stile’? Cosa ti piace leggere?

Secondo me la cosa bella è che “vedo” le situazioni fin nel dettaglio. A quel punto è facile descriverle, sono vive davanti a me. Si muovono. Corro loro dietro. Ma, c’è un ma, cerco di non dire stupidaggini. Nur, ad esempio, è il titolo di un voluminoso reportage di Monica Bulaj sulla luce nascosta dell’Afghanistan. Ho guardato le sue fotografie fino a cascarci dentro e il risultato è la reincarnazione di Nur, la moglie di Ibrahim. A Monica Bulaj credo di aver rubato, oltre alle visioni, qualche parola, così come al professor Gastone Breccia dal suo Le guerre afghane. Lo spirito di Ibrahim, invece, è tutto racchiuso nello splendido Il ritorno di un re di William Dalrymple nella bella traduzione di Svevo D’Onofrio. Ma non ho copiato, ho ruminato. Come vede, dietro una frase si può nascondere un metro lineare di volumi. Mi lasci dire, leggere è ancora più bello di scrivere. E poi mi sono nutrita dei racconti di Vauro, che ho la fortuna di avere per amico, quando tornava dai suoi giri in Panshir a cercare Massoud. È stato lui a svelarmi il significato della parola che Ibrahim ripete meccanicamente nel primo capitolo.

C’è un altro passo del tuo libro che mi ustiona. Eccolo: “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavorava, non aveva posto domande, semplicemente si era alzata dalla poltrona dalla quale dirigeva un’importante catena di alberghi, aveva indossato il breve soprabito e si era stretta al manico rigido della borsetta con entrambe le mani”. Qui racconti un suicidio. Con una fermezza invidiabile. Senza retorica, senza reflui patetici o gioco empatico. Dimmi. Mi viene da chiederti. Come si fa a dire il dolore? Che cosa significa ‘male’?  

Appunto, non si può dire il dolore, non ci sono le parole, io non le ho, e allora tanto vale descriverne la rappresentazione. Ai tempi delle torri gemelle, io che guardo pochissimo la tv, sono stata delle ore a osservare i corpi che cadevano, li accompagnavo uno per uno, decine, centinaia di volte, e poi l’esodo degli impiegati della Lehman Brothers con i loro cartoni in braccio. Che potenza in quei cartoni. A forza di guardare ho fuso le due immagini anche concettualmente fino a spingere Kurt, il marito di Nina, giù dal palazzo, ma nel nome c’è anche lo spasimo di Cobain. Avevo dedicato molte pagine a questa caduta, poi ho buttato via tutto, è rimasto soltanto: “Quando Nina era stata informata del fatto che Kurt si era lasciato cadere da una finestra del grattacielo in cui lavorava non aveva posto domande…”. Nina abbandona tutto, solo stringe il manico rigido della borsetta con entrambe le mani. Che cosa c’è di più doloroso di questo gesto? Tutto il dolore slitta nella rigidità del manico e si fissa in un oggetto. Rispondo alla domanda sul male con una rapida associazione mentale. Con le migliori intenzioni di Bille August. Il male più grande l’ho subito da chi aveva le migliori intenzioni e non riesco a immaginare che cosa sarebbe accaduto se queste fossero state le peggiori.

In che modo la tua visione del mondo traluce nei libri che scrivi? Intendo: etica ed estetica, in te, vanno a braccetto? E, in ogni modo, ami l’epoca in cui vivi?

Faccio rispondere a Ibrahim. “Non gli appartiene più neanche una pietra di quel mucchio di sassi che Allah ha sparso nel suo paese quando si è preso la pena di dare una forma al pianeta. Ora è inutile recriminare. Ibrahim professa a suo modo il culto del bello e non può tornare in un paese ridotto in macerie. Ringrazia Allah per non averlo abbandonato, per essere ancora lì, con lui, nella cavità del cuore dove è rimasto al sicuro per tutto il viaggio e dove albergherà nel tempo a venire”. Se amo l’epoca in cui vivo? Mah. Direi di sì, se fossi vissuta prima non avrei potuto leggere né Carver né Oz, e neppure Mishima e neanche Kader Abdolah, né la Woolf né la Laurence, che perdita.

Perché hai scritto “La boutique”? Con quale obbiettivo, pensando a quale lettore? E ora: cosa scrivi – o cosa vorresti scrivere?

L’obiettivo era davvero di liberarmi di Ibrahim, di dargli una sistemazione, di togliermi di dosso il dispiacere per la sorte che portava stampata nell’iride, poi, come capita scrivendo si va ad affrontare tante questioni irrisolte che premono e vogliono udienza. Il narcisismo, ad esempio, giusto per dire una banalità. Diversamente dalle altre due volte, però, questa è una vera invenzione destinata a tante persone. Ho scritto pensando che avrei voluto farmi capire meglio, rinunciare a qualche effetto speciale indotto dall’opulenza del lessico per appianare le forme e sistemare i contenuti dopo averli stirati e disposti in cassetti con qualche sacchetto di elicriso. Cosa scrivo? Lavoro da anni a un testo illeggibile, contorto, saccente, antipatico, ispido, a tratti noioso e ripetitivo. Più ci lavoro più si attorciglia. L’oggetto? L’inconscio. Cosa vorrei scrivere? Una storia senza aggettivi.

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