23 Gennaio 2020

Dostoevskij tra i topi. Ecco perché i romanzi di Fëdor sono insopportabili

Fëdor Dostoevskij è insostenibile, inaccettabile. Per arpionare il bene – dice lo scrittore – dobbiamo sfinire nel male. Meglio: è nel malvagio che s’incunea la possibilità autentica del bene. Il resto è benevolenza, benessere, i benestanti della vita – il regno degli ipocriti e dei passanti. Per questo, il sottosuolo è il luogo dove, tra la tortura della miseria, balugina il bene. Altrimenti, il bene non esiste, è lo sfogatoio degli ignavi.

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L’ossessione di Dostoevskij – cioè, l’autenticità indiscreta, irritante, dei suoi romanzi – si esprime in personaggi laterali, autenticamente odiosi. In Delitto e castigo, ad esempio, il protagonista è Raskol’nikov, ma il personaggio potente è Svidrigajlov. Raskol’nikov uccide in previsione di un bene più grande, credendosi grande (“Un giorno mi domandai: se al mio posto, ad esempio, si fosse trovato Napoleone, e per cominciare la sua carriera non avesse avuto né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, ma invece di tutte queste cose belle e monumentali gli fosse capitata semplicemente una ridicola vecchietta, vedova di un impiegato del registro, da uccidere per poterle rubare i soldi dal forziere, per la carriera, capisci?,  ebbene, si sarebbe deciso a farlo, se non avesse avuto via d’uscita?”). Infine, in prigione – il sottosuolo della società – scopre il Bene, il Vangelo. La parabola di Raskol’nikov – come la figura di Sof’ja, la pura costretti ad atti abietti, bonificando il male – è compiuta in forma artefatta. Svidrigajlov, invece, compie gesti efferati e infine afferra il bene, dona tutto ciò che ha – e si ammazza, consapevole dell’impossibilità della conversione. L’uomo è chi cade, concupito dagli estremi.

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Mi faccio aiutare da Lev Šestov per capire meglio. “Dostoevskij comprendeva e sapeva rappresentare solo le anime ribelli e avventurose, perennemente alla ricerca. Quando tentava di rappresentare l’uomo conciliato, colui che aveva trovato e compreso, egli scadeva in una deludente banalità”; “I romanzi di Dostoevskij, i libri di Nietzsche non parlano altro che degli ‘uomini più brutti’ e i loro problemi… Si sforzavano di trovare ciò di cui avevano bisogno, là dove nessuno aveva mai cercato, là dove, secondo l’opinione generale, non vi è e non può esservi nulla se non l’eterna tenebra e il caos” (in: Lev Šestov, La filosofia della tragedia, Aragno, 2017).

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Dostoevskij, per caratterizzare gli assoluti dissoluti, usa perpetui cliché, ci invoglia al vomito. Svidrigajlov pratica il male – a differenza di Raskol’nikov – non per esplicitare il potere, ma per noia (“mi annoio molto”), pronuncia concetti di callida ferocia (“in genere l’uomo ama moltissimo essere offeso”), gode nell’essere riconosciuto e ricondotto al male (“io sono un uomo depravato e ozioso”). Tra gli atti più schifosi di cui si è macchiato Svidrigajlov – così trama la società del pettegolezzo – c’è quello di aver “oltraggiato” “una nipote sordomuta, una ragazza di una quindicina d’anni”, la quale, dopo l’evento violento, si è uccisa, “un giorno la trovarono impiccata in soffitta”. Lo stesso schema è usato da Dostoevskij per descrivere Stavrogin, nei Demoni. Nel capitolo – poi abolito e riabilitato – “La confessione di Stavrogin” (oppure “Da Tichon”), il malvagio confessa di aver violato una minorenne, Matrëša, che poi, ferita dalla sua indifferenza, si impicca. Anche Stavrogin è orientato al basso, all’orrido, che si esprime in forme di estatica crudeltà – il desiderio di sposarsi “con l’ultimo degli esseri”, la zoppa e pazza Mar’ja Lebjadkina, perché “non si poteva immaginare nulla di più scandaloso”. Anche Stavrogin vuole essere applaudito per la sua crudeltà (“li obbligherò a odiarmi ancora di più – per me sarà un sollievo”): la ragione per cui si confessa dal monaco Tichon è per aizzarlo, per essere sfasciato dalle ingiurie. Invece, Tichon, stimolato da Stavrogin, esprime la verità sostanziale che agita Dostoevskij (“Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato individuale. Io sono un grande peccatore, forse più di voi”, così il santo spiazza l’indemoniato). Infine, la fine di Stavrogin è speculare a quella di Svidrigajlov: si ammazza.

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La tentazione della morte – come fuga e sigillo – è ovunque in Dostoevskij. In Delitto e castigo tutti vogliono uccidersi, Raskol’nikov, Sonja, diversi personaggi, anche passeggeri, tentano il suicido. Se si vive in modo inautentico, meglio ammazzarsi. Le fasi finali della vicenda di Svidrigajlov – la “pioggia torrenziale”, l’atmosfera di lascivo nichilismo, di istanti ultimi, perfino la “bambina di cinque o sei anni, con indosso un vestitino inzuppato come uno straccio per pavimenti che tremava e piangeva”, saranno riprodotti in un racconto centrale di Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo. Anche in quel caso, un uomo che sperimenta l’inesistenza del senso (“tutto mi era indifferente”), consapevole che “io voglio la sofferenza, per amare”, durante una sera di “pioggia persino sinistra”, scansa una bambina che gli chiede aiuto (“avrà avuto otto anni, aveva… soltanto abituccio indosso, era tutta bagnata”), si decide a uccidersi. Se ne solleverà, convinto di convertirsi. La scenografia che accerchia Svidrigajlov è squallida. Lo squallore è amplificato dalla presenza continua di topi. Nella stanza dove S. consuma i suoi ultimi istanti “raspava un topo, ovunque c’era un odore come di topi e di cuoio”. Un topo, poi, si avventa su di lui: “qualcosa di sgradevole gli strisciò di nuovo lungo la gamba… un topo saltò sul lenzuolo… avvertì qualcosa saltargli sul petto, sotto la camicia, strisciare e poi salire lungo la schiena”. Tra i topi – come se lo schifo fosse misura della gloria: e poi, che colpa ne hanno i topi? – San Francesco scrive, ha evidenza di grazia. Secondo la leggenda Francesco compila il Cantico in San Damiano, in una cella prossima al monastero della prediletta Chiara; ha dolori agli occhi, è quasi cieco – “stava sempre nell’oscurità in casa e nella cella” – e la cella “è talmente infestata di topi, che saltellavano intorno e sopra di lui, che gli riusciva impossibile dormire; le bestie lo disturbavano anche quando pregava”.

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Così Vasilij Rozanov, grande esegeta di Dostoevskij, traccia una via nel groviglio impossibile: “L’umanità sta divinizzando se stessa, ora dà ascolto soltanto alle proprie sofferenze e si guarda intorno con occhi affaticati alla ricerca di chi potrebbe alleviarle o per lo meno lenirle. Timorosa e tremante, è disposta a lanciarsi dietro chiunque farà qualcosa per lei, è disposta a inchinarsi con venerazione a chi alleggerirà le sue fatiche con una macchina ben congegnata, troverà un nuovo concime per il suo campo, riuscirà a sopire il momentaneo dolore, foss’anche per mezzo dell’eterno veleno. E turbata, sofferente, essa ha letteralmente perduto il senso dell’insieme, come se non vedesse dietro gli elementi secondari della propria vita il male profondo e mostruoso che incombe su di lei da tutte le parti: che quanto più l’uomo si sforza di vincere la propria sofferenza, tanto più questa aumenta e diventa universale, e gli uomini periscono, non ad uno ad uno, non a migliaia, ma a milioni e a popolazioni intere, sempre più rapidamente e sempre più irrefrenabilmente, dimentichi di Dio e maledicendo se stessi” (in: V. Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, Marietti, 1989).

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L’estetica di Dostoevskij è profondamente biblica. Nella Bibbia Dio sceglie sempre lo ‘sbagliato’, il perduto, il mostruoso; elegge a re il più debole, chi, all’apparenza, agli occhi di tutti, è incapace, balbuziente, inadatto. Ma a Dio non importano gli ‘adatti’ al mondo. D’altronde, Gesù, incredibile a tutti, soprattutto a chi gli è prossimo – “nemmeno i suoi fratelli credevano in lui”, Gv 7, 5 – frequenta gli infrequentabili, i torbidi, quelli tenaci al male, secondo la norma che “non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 13). Che giustizia c’è in questa frase? Nessuna. Dio non è giusto secondo l’uomo – è tremendo. Giustizia è riconoscersi, come fa Tichon, più peccatori di tutti, esiliati nel torbido ma con un tormento di bene nella pupilla. Ciò che è inaccettabile, nel cristianesimo, è che non si ‘vince’ nulla, non si acquista potere; non sta vicino a Gesù chi è buono, giusto, sapiente, eccelso, perfetto, secondo gli uomini – per quello, bastano i pitagorici, il neoplatonismo, la gnosi in genere. “Il Potente plasmò l’uomo dalla polvere della terra” (Gn 2, 7): l’uomo va recuperato lì, nella polvere, nella terra, nel fango.

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I romanzi di Dostoevskij sono crudelmente evangelici. Nei Vangeli non c’è aristocrazia del pensiero: non conta se sei bravo, se sei intelligente. Soltanto chi s’impasta nel fango, chi sbaglia – senza credere di sbagliare, magari –, chi cede al male, è accolto per grazia. La pecora nera, il figliol prodigo, il pubblicano, il malizioso commerciante di uomini: da costoro, dagli ultimi per caduta – non dagli ultimi che saranno i primi, i puri di cuore – va Gesù. Questo sovverte la dinamica religiosa greca, classica. Perché preferisci l’imperfetto, il ripudiato, lo sputato, il vile, il vizioso?

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Mi faccio aiutare, qui, da Sergio Quinzio, che interpella il frammento evangelico che ho calcato, sopra. “Questo capovolgimento è lo sconcertante capovolgimento della Legge e dell’intero ordine sacro. La vita, la salute, la ricchezza, la potenza – che sono la benedizione di Dio discesa sopra il giusto – sono diventati l’ostacolo che impedisce al giusto di veramente volere la vita, la gioia e la potenza perfette promesse da Dio a Israele, che impedisce al giusto di avere disperatamente bisogno della salvezza e, perciò, di riconoscerla quando viene… L’osservanza della Legge impedisce la salvezza, la Legge dà la morte. La Legge è diventata il vestito vecchio che è inutile rappezzare, l’otre vecchio che non può contenere il vino nuovo. Ma questo è orribilmente assurdo, è la stessa morte di Dio nella sua opera; eppure questo dà la vita. Avvicinandosi ai peccatori il Messia si avvicina alla morte”. E anche: “Il ‘figlio dell’umo’ e quelli che lo seguono non hanno una pietra dove posare la testa; quelli che posano la testa la posano perché sono morti, tutti condannati a essere distrutti nel grande giorno che viene. Le folle seguono il Messia e il Messia con la sua parola le libera dal male e le schiaccia. Ma ecco che le folle sono invece masse di morte ai quali i figli non devono neppure la doverosa pietà” (in: S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, 1991).

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La necessità non è il male – convinzione che giustifica il crudele – ma il malvagio, l’uomo corrotto dal peccare, l’uomo che veglia nel nulla, che è cosciente del niente. Il niente, l’esperienza fondamentale del vivere, permette di scorgere il bene – in modo inavvertito, fugace, come una serpe che pizzica l’osso. La vita è questo, è brutale: sopraffatto dal niente, o ti ammazzi o ti converti. O prosperi tra i ratti.

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Puoi optare per il bene, cioè – cioè: per l’innaturale – soltanto se conosci la caduta, se ami l’uomo nel cadere, nel sovrano strazio.

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La chiave di volta per leggere Dostoevskij: “Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia, e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda… Non esiste altro mezzo. Solo così potremo ‘intravedere’ che Dio esige sempre l’impossibile; che il disgustoso anatroccolo può trasformarsi in un bellissimo cigno: che quaggiù tutto comincia, ma nulla finisce; che il capriccio ha diritto a garanzie; che il fantastico è più reale del naturale; che la vita è la morte e la morte è la vita – e altre verità dello stesso genere che dalle pagine delle opere di Dostoevskij ci guardano con i loro occhi strani e terribili…” (in: Lev Šestov, Sulla bilancia di Giobbe, Adelphi, 1991).

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Dopo averla vessata, riconoscendone, infine, la purezza, Svidrigajlov chiede a ‘Dunja’, la sorella di Raskol’nikov, “Tu non mi ami?”. E poi, “Dunque non mi amerai mai?”. Dunja, recisamente, dice no. Sembra di assistere, a contrario, alle pagine finali del Vangelo di Giovanni, dove Gesù, risorto, chiede per tre volte a Pietro, l’uomo che agisce d’impulso e che sa l’aceto del tradire, “Ma tu mi ami?”. Per vincere la morte, Gesù si cede al cuore di un uomo, al suo sentire. Svidrigajlov, con la “piccola rivoltella tascabile” con cui Dunja non è stato in grado di ucciderlo, a cui “era rimasta una sola pallottola buona”, più tardi, si uccide. Resta indelebile, nelle nostre ossa prima ancora che nella storia della letteratura, il suo “sorriso strano… penoso, triste malinconico, un sorriso disperato”. (d.b.)

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