26 Novembre 2020

Il dolore e l’estasi, il lutto e la gioia: vita fenomenale di Dino Campana, poeta assoluto

D’accordo, non si potrebbe uscire, ma appena fuori del cancello comincia il bosco. Solo una ripida discesa asfaltata si frappone al primo intrico di piante sotto il quale affiora una striscia di terra battuta e scrofolosa di buche su cui inoltrarsi. Da lì in poi è un infilarsi per muraglie di tronchi giovani e meno giovani che si contendono il molto cielo riguadagnato alle chiome rade del primo autunno; ora in grado di albeggiare o crepuscolare, questo cielo, tra le rovine dei rametti più esterni, quelli che imitano il merletto, disegni neri fini su pallidi celesti che l’occhio inquadra e lascia scorrer via. È un bosco molto caduto e rivoltato questo, rimasto così dal ciclone che un mese fa ha divelto decine e decine di alberi. Qui le ribaltate di terra e radici che i tronchi cadendo hanno innalzato come barricate lasciano indovinare buchi di bomba alla base. E i fusti coricati a terra o più spesso adagiati su altri rami e tronchi traversi sembrano disegnare verso ovest linee di fuga impossibili per un popolo radicato di antichi abitatori, che è stato decimato dalle manifestazioni furiose del nuovo clima, di una nuova Storia. Caduti arborei qui. Caduti umani dappertutto, appena fuori.

Camminare qui in mezzo è come assistere a un funerale incompiuto. Immagine che rimanda a funerali incompiuti più grandi e tragici. Nessuno infatti è venuto a piangere queste salme vegetali. Nessun umano intendo, almeno credo. Scavalcare per passare o tagliare per liberare i passaggi infatti non è propriamente un compatire, un con-dolere. È il volto della natura che sta cambiando espressione e noi non possiamo far altro che osservare spaventati il fenomeno, e quando è impossibile farlo dal vivo è dallo schermo dei computer che ci affliggiamo. Camminare è un esercizio di presenza. Leggere è esser presenti all’esercizio del pensiero. Alle sue giravolte, tuffi, stop, svolte, peripezie. Allora non resta che immergersi nella lettura. Altro camminare. Altri alberi. Orizzontali. Tra questi un nuovo getto su un vecchio tronco. Il vecchio tronco è la tragica storia di Dino Campana, che come i temi delle Chansons de geste o le leggende della tradizione popolare è rimasta nell’aria, e si replica ormai da cent’anni. Epica che sarebbe davvero adatta a un cantastorie robusto dalle gambe traversamonti e dalla voce stentorea, che indicando con la sua bacchetta le immagini sul tabellone illustrato attaccasse: “signori mei, pari alle gesta del brigante Musolino, ecco a voi la tragica historia del poeta Campana Dino”, tanto gli elementi della biografia campaniana sono così intessuti di avventura, scontri, fughe, ritorni, arresti, ricoveri e infine da una Storia d’Amore che lo eleva fino alle altezze del trasporto, della passione più folle e insieme lo prostra fino alla morte civile del manicomio di Castel Pulci. Tronco robusto e invitto, questa storia, su cui si sono innestati rami fogliosi e fior di studi, narrazioni, film e spettacoli. Ma fuor di leggenda e anzi cercando di riportare verso terra i molti voli intorno a Campana si colloca quest’ultimo studio in ordine di tempo, Vita luminosa e oscura di Dino Campana, poeta, di Gianni Turchetta. Il quale dell’albero Campana è stato giardinier curante fin dalla più giovane età, dal momento che la tesi di laurea prima e i volumi usciti nel corso di più di un trentennio poi, si sono occupati sia della vicenda biografica del poeta di Marradi sia della sua opera: nel 1985, poi nel 1990, per Marcos y Marcos, con il titolo di Dino Campana, biografia di un poeta; nel 2003 in una nuova edizione “robustamente riveduta e aggiornata” per Feltrinelli; fino a quest’ultima riscrittura, integrata da ulteriori aggiunte, tanto da raddoppiare nel numero di pagine (ben 453), pubblicata a inizio lockdown, nel marzo 2020, per Bompiani, e a settembre già alla prima ristampa.

Turchetta, che insegna Letteratura italiana contemporanea  all’Università di Milano, intesse una biografia a partire dalla necessità di sgombrare il campo dall’incrostazione mitizzante nata già al tempo in cui il poeta era ancora vivo, e rinchiuso  (l’immagine tassiana, e falsa, del poeta pazzo che recluso scrive e scrive vergata da Bino Binazzi è forse la prima della serie); dalla confusione indotta dalla congerie spesso contraddittoria di testimonianze orali o scritte di chi ha avuto modo di entrare in contatto o conoscere Campana. Si era cristallizzata così l’immagine poi finita nella vulgata; quella cioè del poeta pazzo, disperato, perseguitato dal mondo che per estremo gesto di riscatto e ribellione lascia l’opera e sparisce nell’oblìo del manicomio. Ma la realtà è ovviamente più complessa. Si tende sempre a caricare la figura del poeta, è quasi un riflesso condizionato, di qualcosa che riguarda meno la sua opera che un’immagine di comodo legata alla rappresentazione romantico-decadente del fuori legge, del borderline, del matto, dell’irregolare, al limite del criminale, e innamorandosi di quell’immagine si carica l’opera di qualcosa che non le pertiene. Ci si potrebbe addirittura domandare, paradossalmente, se non sia la poesia a fare la vita del poeta, e non viceversa, come modellandola a ritroso, a partire dalla propria necessità di evolversi da una materia caotica com’è quella di una biografia. Come se la poesia esistesse già, e la vita fosse il travaglio della materia involuta che la poesia lavora per poter emergere alla luce del mondo. Strano punto di vista forse, ma, assunto omeopaticamente, potrebbe contribuire a rompere qualche automatismo, a rovesciare qualche punto di vista, specie oggi con il culto del “personaggio” che ci perseguita. Restituire alla biografia e togliere alla mitizzazione significa alla fine questo: suggerire che la vita del poeta, per quanto esemplare, come in questo caso, è interessante in quanto sta in relazione con l’opera che ha lasciato e non il contrario. La riprova è che non “staremmo a occuparci del signor Dino Campana se non ci fossero i Canti Orfici, qui a chiedercelo, a imporcelo quasi come un dovere”. Questo è un po’ l’assunto e l’impegno che caratterizza il libro di Turchetta, il quale cerca programmaticamente di fare chiarezza sull’intricata materia.

Incrociando testimonianze, lettere, interviste, anche rapporti di polizia, certificati medici, i moduli di ricovero in manicomio, ricostruendo le tracce dei suoi viaggi, addirittura delle sue letture nelle biblioteche pubbliche attraverso le schede di prestito, e facendo interagire tutto questo poi con la documentazione più nota, si chiariscono meglio certi passaggi della tormentata biografia del poeta e vengono meglio in luce gli equivoci che il modello del personaggio ha sovrapposto alla realtà della persona. Uno su tutti: l’immagine del Campana vagabondo che viene controbilanciata da quella del Campana assiduo frequentatore di biblioteche pubbliche, non solo italiane; e persino lettore in lingua originale di opere in Italia non ancora note. Tanto da dover ritenere che “l’immagine stereotipata di un Campana nomade sempre in giro per il mondo e per i boschi sia meno corrispondente al vero di quella di un Campana studioso, che passa la maggior parte del suo tempo curvo sui libri”.

Se la patologia psichica di Campana non è comunque un fatto su cui si possa discutere, o meglio quella che nel tempo si manifesta gradualmente come tale e che ha avuto però diversi stadi e contro la quale Campana mostra anche di aver strenuamente combattuto, cercando nell’opera quell’equilibrio che la follia incipiente sembrava volergli sottrarre, è altrettanto certo che l’ambiente o meglio gli ambienti (famiglia, scuola, società civile e letteraria) nei quali egli si muove non dimostrano certo quella normalità la cui mancanza viene a Dino rimproverata; o forse si potrebbe dire che al loro interno si osserva una non troppo diversa disposizione allo squilibrio. Un esempio fra tutti è dato da Giovanni Papini, assieme ad Ardengo Soffici una delle star letterarie dell’epoca, “fra i più assidui nell’affibbiare a Campana la patente di pazzo”, che poteva arrivare a dire, fin dallo scoppio della guerra, “esaltato dalla possibilità di poter sfogare pubblicamente e con tanto di legittimazione politica, tutto il suo provatissimo, inveterato, feroce odio per l’umanità” che “ci voleva un caldo bagno di sangue dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne”, e, di più, poteva scandire: “amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai finché dura”. Così che, continua Turchetta, “una volta di più viene da chiedersi dove sia il confine tra i sani (come era ritenuto Papini) e i malati di mente”. D’altro canto, “Campana invece non condivide per nulla questa esaltazione e mostra ancora una volta proprio nei giorni dell’interventismo più bieco e spudorato, una lucidità che pochi all’epoca potevano vantare”.

Ma ci sono due temi, tra i tanti che attraversano il libro, che vogliamo citare. Il primo lo si può riassumere nella considerazione per nulla ovvia che la poesia degli Orfici è “un mondo dove l’angoscia o meglio la lacerazione, la perdita, il lutto, convivono sempre con l’estasi, con la gioia, con un’ambigua felicità che a sua volta di nuovo si fa tragedia e così via”. La poesia di Campana esprime insomma un’ambivalenza, della quale è stato quasi sempre evidenziato il solo lato tragico, forse perché più funzionale alla costruzione del personaggio del “poeta maledetto”.  

Il secondo è che i CO nella loro “costante tensione verso un limite sempre oltrepassato e sempre irraggiungibile, sono in profonda sintonia con le dinamiche dell’esperienza e della coscienza della modernità. […] Proprio perché nei suoi testi tutto è instabile e dinamico, egli riesce a dare forma poetica, come pochi altri, allo sradicamento e persino alla fluidificazione dell’identità dell’uomo moderno […]”.

E concludiamo con una nota che fa balzare la figura di Campana direttamente nel nostro tempo, come nel fotogramma finale di un film in cui il personaggio guardi di colpo in macchina, ci corra incontro e salti verso di noi, bloccato all’ultimo dal fermo immagine: “davvero non si è insistito abbastanza sul fatto che il Campana vagabondo, sempre alla ricerca di lavoretti per sopravvivere, è anche un emigrante, emarginato, qualche volta clandestino, sempre precario, come tanti, come troppi, sempre di più, e in sempre più luoghi”.

Franco Acquaviva

Gruppo MAGOG