02 Marzo 2019

“Dimenarsi per abbindolare il pubblico suonando sempre le stesse cose è deleterio: la musica è studio, compostezza, dedizione”. Francesco Consiglio dialoga con Paolo Restani, il virtuoso del pianoforte

La serietà non gode di buona stampa, essendo spesso confusa con la seriosità. Sono due diversi atteggiamenti: una persona seria affronta i propri impegni con dedizione e, nel rapporto con gli altri, sa attenersi a regole di educazione e onestà, mentre un tipo serioso è sopraffatto dal troppo rigore, non sa ridere di sé e non sa stare agli scherzi. Il serioso si sforza d’essere serio, ma grossolanamente, senza riuscirci, e risulta perciò antipatico. Per questo, i seri di successo sono ammirati, mentre i seriosi solamente invidiati. Paolo Restani è, per me, il prototipo del musicista serio. Alcune sue risposte vi sembreranno date con l’accetta, ma non è per eccesso di serietà o desiderio di sbandierare una conoscenza superiore a quella del vostro umile scrivano. Semplicemente: egli sa. Che splendida asciuttezza in quel verbo! Due lettere che invitano il lettore ad apprezzare la visione estetica e artistica di uno dei maggiori interpreti mondiali dell’opera di Franz Liszt.

In trentacinque anni di carriera, Paolo Restani ha dato concerti in molti dei più importanti centri musicali del mondo: Carnegie Hall di New York, Grosser Musikvereinsaal di Vienna, Konzerthaus di Berlino, Prinzregententheater di Monaco di Baviera, Rheingoldhalle di Mainz, New Congress-Hall di Innsbruck, International Performing Arts Centre di Mosca, Sala Grande della Filarmonica di San Pietroburgo, Teatro Colon e Teatro Coliseo di Buenos Aires, e tanti altri che non cito per ragioni di spazio. Nel Giugno 2004 il debutto con l’Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti (Concerto nr. 2 di Liszt) ha suscitato unanimi ed entusiastici consensi. Ancora con la direzione di Muti, nel 2008, è stato solista nella produzione sinfonica di Lélio ou Le Retour à la vie op. 14b di Berlioz. Con Chiara Muti dal 2006 al 2008 ha realizzato tre opere originali di teatro-musica su Rachmaninov e Gogol’, sulla vita di Mozart e sul rapporto tra Wagner e il re Ludwig II di Baviera.

Franz Liszt era un virtuoso sovrumano che durante i suoi recital per pianoforte non disdegnava l’uso di accattivanti artifici attoriali: fingeva svenimenti, si faceva portare dietro le quinte per poi ricomparire barcollando, assumeva pose da istrionico entertainer allo scopo di suscitare plateali emozioni in un pubblico di ammiratrici che lo veneravano come una moderna rockstar. Tutto questo, se riproposto oggi, appare cialtronesco ai puristi della classica, quelli che odiano le minigonne e i tacchi a spillo di Yuja Wang e hanno definito Lang Lang “la Jennifer Lopez del piano”, accusandolo di essere banale, teatrale e scandaloso. Certo, si obietterà: costoro non sono Liszt! Eppure, al di là di ogni giudizio estetico-musicale, è indubbio che all’apparire di un musicista capace di costruire una narrazione attorno a sé, le grandi masse si avvicinano alla musica colta e tornano a riempire gli auditorium. C’è qualcosa di male in questo? Sembra quasi che il mondo della critica musicale, per molti versi raffinato cultore del passato, abbia in orrore i discendenti di quel pubblico che amava il Paganini degli eccessi, osannava Liszt o asciugava con i fazzoletti il sangue lasciato sulla tastiera dalle dita straordinariamente veloci e violente di Alberto Savinio, fratello del pittore De Chirico e pianista nella Parigi d’inizio ’900.

Il termine ‘Virtuoso’ e il termine ‘tecnica’ sono abbastanza ‘ridotti ai minimi termini’ oggi, e lo dico proprio perché leggevo, tempo fa, alcuni estratti da una corrispondenza tra Robert Craft e Igor Stravinskij nei quali Craft chiedeva a Stravinskij proprio ‘cosa sia’ la tecnica. Ebbene, prima di dire la mia, vorrei citare la risposta di Stravinskij: “la tecnica è l’uomo in toto. Impariamo a usarla ma non possiamo acquisirla dall’inizio; o forse dovrei dire che si nasce con la capacità di acquisirla”. A questo proposito c’è una citazione di Stendhal che vale la pena di riportare da Le passeggiate romane, Stendhal scriveva che “lo stile è il modo che ciascuno ha di dire la stessa cosa”. Il problema di oggi è che viviamo in un’epoca dominata dal concetto video ergo sum. La maggior parte dei concertisti e direttori d’orchestra tendono a volersi creare un’immagine fatta, per così dire ‘su misura’, per colpire, incantare, abbindolare o comunque per focalizzare l’attenzione del pubblico prescindendo da qualsiasi altra considerazione artistica. Secondo me è un orientamento sbagliato, dannoso e, se vogliamo, anche ‘noioso’. Arturo Benedetti Michelangeli è stato un musicista che, in qualche modo ‘usava’ una sorta di ‘gioco dell’immagine’ nei suoi concerti. La sua immobilità leggendaria, la sua espressione da sfinge… si può dire che non abbia usato neppure una goccia di sudore per passare alla storia. Eppure lui soffriva molto il contatto con il pubblico per il timore – risaputo – di non essere mai perfetto quanto desiderava essere. Questo atteggiamento assolutamente privo di orpelli e scevro da qualsiasi esibizionismo gratuito era, altresì, un monumento vero e proprio al concetto (esercitato qui in maniera opposta) di video ergo sum. Assolutamente non esibizionisti in questo senso sono stati nomi titanici del pianoforte quali Claudio Arrau e Sviatoslav Richter, ma andando indietro nel tempo, grandi del passato come Hoffman, Paderewski e Sofronitzky non disdegnarono certo espedienti d’immagine per attirare e galvanizzare il loro pubblico. Secondo me, però, il riferimento a Liszt è fuori luogo: Liszt, in primo luogo fu uno ‘scopritore’ di possibilità espressive e tecniche del pianoforte nuove per il suo tempo e probabilmente addirittura impensabili all’epoca; fu un grandissimo compositore e non solo nel campo pianistico (i suoi 13 Poemi Sinfonici sono alla base dell’evoluzione della musica orchestrale nel Romanticismo). Fu ‘il divo’ Liszt sino all’età di 32 anni, poi divenne ‘solamente’ un grandissimo compositore, uno dei colossi della storia della musica, un uomo di cultura impegnato su molti fronti, frequentatore di quei salotti importanti non (solo) borghesi e aristocratici dove nascevano e si sviluppavano le tendenze dell’evoluzione culturale all’epoca. Il suo processo creativo si intensificò sempre di più al punto da portarlo a concentrarsi solo ed unicamente su questo e arrivò a rifugiarsi nel Monastero di Monte Mario a Roma (con a disposizione solo un pianoforte verticale al quale pare mancassero anche dei tasti) in una vita frugale quanto riservata nella quale spesso chi lo andava a trovare era proprio il Papa che ascoltava i suoi capolavori estremi come, per esempio le due Leggende (S. Francesco predica agli uccelli e S. Francesco di Paola cammina sulle onde). Paragonare tutto questo a quello che moltissimi interpreti fanno oggi per accreditare la loro immagine indipendentemente dalle qualità tecniche ed artistiche è sbagliato. Io, personalmente, ho sempre cercato di non concedere nulla a questo tipo d’istrionismo; nonostante la classica ritualità del concerto fatta di abbigliamento consono, inchini e via dicendo. Ciò che si dovrebbe fare, in realtà, è un lavoro di ricerca ed approfondimento proprio sui contenuti della musica che si suona in pubblico e si incide in disco; un lavoro di valorizzazione di tutto quel repertorio che sino ad oggi o è stato ingiustamente trascurato oppure è stato ‘accantonato’ volutamente sulla base di considerazioni sbagliate o pretestuose. Sto pensando, per esempio, al cosiddetto periodo “Biedermaier” della storia della musica e al Novecento Storico italiano che tutte queste ‘superstar dell’apparenza’ si guardano bene dall’affrontare. Credo che il vero divertimento del pubblico potrebbe essere ascoltare la grande massa di splendida musica ingiustamente dimenticata piuttosto che vedere un qualsiasi personaggio che si dimena (inutilmente) suonando per la centesima volta il Primo Concerto di Tchiaikovskij o altri capolavori simili strasuonati e straincisi ovunque e da chiunque. Czerny, Clementi, Field; questi sono solo tre nomi tra tantissimi di un Ottocento sepolto ingiustamente nel dimenticatoio; meglio ascoltare cose ‘nuove’ o ‘ritrovate’ piuttosto che riascoltare sempre le stesse ma suonate da pagliacci. Aggiungo ancora una cosa: Horowitz era sicuramente uno ‘showman’ – come anche Rubinstein – giocava molto sulla gestualità delle mani ma non dimentichiamoci che il lavoro che Horowitz fece sulla riscoperta di autori come Domenico Scarlatti e Muzio Clementi oggi nessun pianista sarebbe in grado di farlo. Il problema, in sintesi è proprio questo. Tutti fanno le stesse cose (spesso nello stesso modo) ma solo vestendosi in modo diverso.

Di un pianista capace di usare con assoluta padronanza il suo strumento, si dice che sia un virtuoso. Lo erano certamente Chopin e Liszt, Rachmaninov, Rubinstein, Horowitz. Credo però che questo termine andrebbe usato con più parsimonia, poiché spesso si corre il rischio di definire virtuoso un musicista che pecca di eccessivo tecnicismo. In fondo, un brano musicale dovrebbe essere ciò che per Benedetto Croce era la poesia: trasposizione di un sentimento. È giusto dire che con la sola tecnica non si può fare della buona musica?

Citerei ancora Stravinskij a questo proposito ma la domanda di base è semplice: chi è un virtuoso? Una persona piena di virtù? Cosa è il virtuosismo? Il problema è definire il virtuosismo in relazione a chi o a cosa. Io so che Zacharias è un grandissimo virtuoso in Mozart, e Arrau lo è nell’integrale dei Notturni di Chopin o Volodos in Tchaikovskij. Ma secondo me il ‘virtuoso’ è chi riesce ad applicare un tipo di tecnica perfettamente adeguata a quello che lo spartito richiede, ovvero: il virtuosismo strumentale è la perfetta aderenza tecnica alle esigenze di ciò che si suona; non più e non meno. Non è quindi possibile parlare di tecnicismo ‘eccessivo’, la tecnica è una base imprescindibile che apre le porte all’interpretazione di qualsiasi pagina. Pensiamo a Glenn Gould che fu grandissimo in Bach e altri autori sino alla Seconda Scuola di Vienna passando per alcune opere del Classismo e del Tardo Romanticismo tedesco, il tutto ad esclusione di tantissime opere del Romanticismo, della musica russa etc. Questo perché lui era sicuramente consapevole che il suo modo di suonare non era adatto a ‘quei’ particolari autori o a ‘quelle’ particolari opere che, di fatto, sono rimaste quindi per sempre fuori dalla sua sfera di interessi.

Nel 1984, a sedici anni, lei ha debuttato con successo all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Paese Sera scrisse: “Paolo Restani è addirittura scioccante”. Il Corriere della Sera: “È nata una stella”. Il Messaggero: “È destinato a inserirsi fin d’ora nella grande tradizione pianistica del nostro paese”. Mi chiedo cosa passa per la testa di un adolescente che riceve elogi così grandiosi, e se questo non costituisca un peso psicologico per una carriera ancora informe.

Sono in carriera da quasi 38 anni. Quello che è importante sono le idee che un musicista, un artista, un creativo si porta dentro, non le impressioni, i ricordi dei debutti, dei successi e di quant’altro. Tutto questo passa, ma l’importante è quello a cui vogliamo arrivare, quello che ci cresce dentro come esigenza di evoluzione interiore, le idee che mi portano a volere andare da qualche parte. A me piace essere un curioso della musica e quindi guardare anche alla comprensione dei contesti storici delle musiche che studio. Un punto di vista forse un po’ complicato per rapportarsi con alcune direzioni artistiche (e questa per me è una spina nel fianco) ma ciascuno deve seguire il proprio percorso con coerenza e io mi sforzo di farlo costantemente. Tornando a 38 anni fa e agli elogi che al tempo ricevetti, posso ricordare che nella testa di quell’adolescente che ero, successe molto, poiché a 16 anni andai di fronte a un pubblico come quello dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e di lì a sei mesi debuttai in tutti i grandi teatri italiani, e sapevo così di mantenere una promessa, un impegno che avevo con la mia famiglia e in generale con tutti coloro che mi avevano consentito di arrivare a quel traguardo e anche se avevo la perfetta consapevolezza di stare entrando in una sorta di ‘terra incognita’ qual è il mondo del concertismo, pieno di alti e bassi come nessun altro, sapevo che almeno a quel punto ero arrivato e che la paura che provavo in quel momento avrebbe ceduto il posto ad altro, e così è stato. Oggi, all’età di 51 anni, per così dire, ‘me la godo di più’ o per meglio dire mi godo la parte migliore di tutto questo, il piacere di ‘fare la musica’ amandola veramente e niente altro. Certo, le rinunce ci sono e quell’avvio di carriera così repentino ed altolocato influì non solo sul mio percorso di crescita artistica ma anche sul mio percorso di vita. Posso dire che rispetto ad allora, che mi sentivo ‘al’ centro e ‘il’ centro di un percorso basato sulla musica e sul repertorio sempre più impegnativo e difficile che affrontavo, oggi io mi sento semplicemente e con naturalità un ‘tramite’ tra la musica e il pubblico. Non so se questa possa essere definita una crescita personale ma certamente è il personale punto di arrivo di un percorso quasi quarantennale.

Immagino che lei abbia precise idee politiche o filosofiche, una visione del mondo, un pensiero che invade tutti i territori umani. Ma non voglio sapere niente di tutto ciò. Ho un’immagine poetica del pianista come una sorta di eremita spirituale che attraversa la contemporaneità senza esserne toccato. So che non è così, ma una parte di me ha paura di sapere che si possano raggiungere le più alte vette dell’epos musicale senza condurre una vita fatta di intransigente purezza e umile grandezza. Le chiedo invece se, qualche volta, mentre si esibiva, nel silenzio della sala da concerto, con il solo riverbero delle note che si spandevano nell’aria, le è capitato di sentirsi non più uomo del suo tempo ma contemporaneo della musica che stava suonando.

Questa è una domanda terribile. Terribile nella sua spiritualità. Il silenzio della sala da concerto ha – oggi come cento o duecento anni fa – un suo significato profondo. Ne ha più di venti minuti di standing ovation al termine di una esibizione. Un silenzio assoluto, per esempio durante un Intermezzo di Brahms, può darti la misura di quanto il pubblico stia ‘respirando’ con te e quindi quanto la tua interpretazione sia entrata nei cuori e nelle menti di ciascuna persona seduta in sala. Questo è il più grande risultato che un musicista possa ottenere. Certo che ho le mie idee politiche, filosofiche, morali e quant’altro ma credo che la cosa essenziale sia guardarsi intorno senza pregiudizi, preconcetti e chiusure ideologiche che falsino la verità di ciò che sta e succede attorno a noi. Un ‘giro d’orizzonte’ in questo periodo storico, ad esempio, non può che farci constatare come le cose non vadano certo bene, a livello generale, ma non è questo il punto. La contemporaneità di un uomo di cultura è un’altra cosa: non è l’eremitismo culturale o l’adesione incondizionata ad una ideologia, ma è il contatto, il confronto con tutte quelle realtà e situazioni passate e presenti che ci possano aiutare a riflettere quotidianamente e quindi trovare la strada per un’espressione artistica autentica, coerente e indipendente.

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

Ho soprattutto progetti sul repertorio che sono più importanti da citare degli impegni e dei concerti.  Sto lavorando intensamente da alcuni mesi per creare una serie di progetti, percorsi e produzioni innanzi tutto discografiche che mi aiutino a dare vita ad un vero e proprio lavoro di testimonianza riguardante opere ed autori che, a mio giudizio, devono godere di una diversa e più profonda considerazione nel contesto della vita musicale odierna. E parlo soprattutto del grande repertorio del Novecento Italiano con un’attenzione particolare ad opere che sento a me particolarmente congeniali di Giancarlo Menotti, Franco Margola e Ferruccio Busoni. Accanto a questo, ho intenzione di approfondire ulteriormente il lavoro che ho già fatto su una parte del grande repertorio, quindi Liszt, Chopin, Rachmaninoff e soprattutto le 32 Sonate di Beethoven in vista del duecentocinquantenario della nascita. Tutto questo in CD a partire dai prossimi mesi e parallelamente o conseguentemente in concerto in Italia e all’estero, ma sempre secondo una logica di progettualità coerente e mirata a definire itinerari musicali e – per tornare alla bellissima domanda iniziale di questa intervista – non certamente di spettacolo circense fine a sé stesso.  

Francesco Consiglio

*In copertina: Paolo Restani fotografato da Federigo Salvadori

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