23 Settembre 2019

“Il politicamente corretto è il grande ordine mentale che giustifica la società classista planetaria del capitalismo globale”: Diego Fusaro dialoga con Matteo Fais sul suo ultimo libro

Credo che a Diego Fusaro vada riconosciuto un grande merito, a prescindere dalle astiose considerazioni degli hater. È riuscito a portare all’attenzione del grande pubblico tutta una serie di tematiche che, altrimenti, non avrebbero trovato spazio nell’informazione mainstream. Lui, con il suo linguaggio indiscutibilmente di rottura, ha saputo veicolarle. Se poi lo si debba considerare la Chiara Ferragni della filosofia è veramente una questione oziosa – tra un’influencer come la ragazza in questione e uno che, nel bene o nel male, per usare un eufemismo, qualche libro l’ha aperto, oltre ad aver per esempio ritradotto Marx, a mio avviso non sussistono neppure gli estremi per un vago paragone. Al netto di tutte le possibili critiche, secondo cui accademismo e mediaticità non sarebbero coniugabili, le questioni da lui portate sul tavolo non sono irrilevanti. E, infatti, non è che siano a milioni, in Italia, i filosofi che le trattano – neppure a decine, a voler essere onesti. Per tutta questa serie di motivi, siamo ben felici di averlo nuovamente come nostro ospite su Pangea, questa volta per parlarci del suo ultimo libro, Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo (Rizzoli, 2019).

Il nuovo ordine mentale impone una certa prassi discorsiva, il politicamente corretto. A questo si contrappone quella che tu chiami una lotta di classe culturale, in cui i dominati vorrebbero invece chiamare le cose con il loro nome. Ce la potresti descrivere in breve?

Oggi la lotta di classe è tra un’élite finanziaria apolide da una parte e le masse nazionali delle classi lavoratrici e dei ceti medi dall’altra. Questa non è soltanto materiale, cioè indirizzata verso la gestione dell’economia e della società, ma è anche culturale – Gramsci docet. L’obiettivo della classe dominante, per mezzo dei suoi intellettuali e degli architetti delle superstrutture, è fare in modo che i dominati non siano tali solo a livello strutturale, ma subiscano il dominio anche nell’ambito culturale, accettando le proprie catene ed essendo disposti a battersi in loro difesa. Essenzialmente il politicamente corretto è il grande ordine mentale che giustifica la società classista planetaria del capitalismo globale. I dominati hanno dunque tutto l’interesse a tornare a chiamare le cose con il loro nome: “sfruttamento” anziché “competitività”, “appropriazione rapace delle risorse pubbliche” in luogo di “privatizzazione”, “distruzione programmata delle democrazie” al posto di “cessione di sovranità”. In ultimo, lo sguardo dal basso è quello che svela la verità del rapporto di classe. Nel libro, parto proprio da una citazione di Pasolini in cui si dice: “dovremmo smetterla di parlare il linguaggio dei nostri nemici”. Questo è il punto fondamentale, riappropriarsi delle grammatiche di classe.

Tu parli di una mondializzazione della disuguaglianza e coni a tal proposito il neologismo glebalizzazione. In cosa consiste questa?

La globalizzazione è un progetto fantastico dal punto di vista della classe dominante, startupper e delocalizzatori, agenti della finanza e ammiragli del sistema bancario. Osservata dal punto di vista della classe dominata, invece, è quanto di peggio possa esserci. Essa consiste in una glebalizzazione, cioè un massacro di classe che, mediante la leva della competitività globale, rende sempre più poveri, subalterni e senza diritti, i ceti popolari. Accade così che il piccolo imprenditore borghese di Vicenza viene spazzato via dai grandi colossi dell’e-commerce, dalla competitività sleale condotta a mezzo di prodotti infimi a basso costo. Parallelamente, anche il lavoratore di Fiat-Mirafiori perde i suoi diritti sociali, le sue conquiste, per essere competitivo con chi in Bangladesh o in India fabbrica gli stessi articoli a prezzi più bassi e senza diritti. La glebalizzazione è la legge della competitività globale che determina la distruzione dei ceti medi e delle classi lavoratrici che vengono abbassate a una condizione neoservile.

A proposito di cosmopolitismo liberista, tu paventi un’unione sacra tra la destra del denaro e la sinistra del costume. Ma, dunque, queste sono due facce della stessa medaglia?

Assolutamente. La destra finanziaria del denaro è quella che vuole distruggere gli Stati nazionali per eliminare i diritti sociali e le democrazie; deportare schiavi dall’Africa per sfruttarli senza pietà e abbassare i costi della forza lavoro; e che ambisce a eliminare la famiglia intesa come l’ultimo baluardo di una microsocietà non a forma di merce. La sinistra fucsia e liberale del costume, anziché opporsi a questo progetto di classe, lo giustifica sul piano teorico dicendo che chi difende lo Stato nazionale è un fascista regressivo; chi supporta la famiglia tradizionale un omofobo patriarcale e, ancora, che chi si oppone alle pratiche della deportazione di massa, dette dell’immigrazione di massa, è uno xenofobo. Tutto ciò che la destra del denaro fa la sinistra fucsia del costume giustifica. Sono le due ali del medesimo sistema liberista e cosmopolita.

Com’è che la Sinistra è potuta passare dall’internazionalismo socialista al globalismo?

Ciò ha richiesto un lungo processo, la cui genesi situerei nel ’68 e il cui spirito è ben incarnato dalla canzone di John Lennon, Imagine: “And the world will be as one”. Questo brano è il sogno del globalismo. Il mondo diventa uno perché trionfa un solo mercato senza confini. Le sinistre che sono passate dal rosso al fucsia, dalla falce e martello all’arcobaleno, hanno abbandonato l’internazionalismo proletario del lavoro e sono passate – anzi si sono vendute, senza neppure saperlo fino in fondo, in molti casi – al cosmopolitismo liberista del capitale. Per cui continuano a chiamare internazionalismo quello che in realtà è, essenzialmente, il globalismo capitalista. Questo è il dramma che le porta a confondere le due realtà, senza capire che il cosmopolitismo capitalistico combatte gli Stati nazionali per imporre il mercato unico. Invece, l’internazionalismo socialista presuppone gli Stati nazionali e implica un rapporto tra questi, non la loro distruzione.

Qual è il senso della sovranità nazionale e perché, a tuo avviso, la si vuole mettere in crisi per disgregare le democrazie?

Dopo il 1989, il capitalismo ha di fronte a sé un unico ostacolo, quello degli Stati nazionali sovrani. Questi sono gli ultimi fortini della democrazia, dei diritti sociali, del welfare, e della lotta di classe. Se si toglie lo Stato sovrano nazionale, si toglie di fatto la politica – che da sempre è suo appannaggio –, lasciando solo il bellum omnium contra omnes del mercato globale. Si elimina così la possibilità della lotta di classe, cioè il guardarsi in faccia tra servi e signori e il lottare per ottenere dei diritti. Resta solo un massacro di classe delocalizzato. Non c’è democrazia nella modernità che non sia nello Stato nazionale. La classe dominante afferma di volerlo superare per evitare il ritorno dei fascismi. In realtà, lo fa per eliminare la democrazia e i diritti sociali. Da questo punto di vista, occorrerebbe combattere il cosmopolitismo e il liberismo riproponendo un internazionalismo sovranista e socialista che lotti contro tali tendenze.

Chi è questa figura che tu definisci “l’anima bella globalista”?

Un esempio potrebbe essere rappresentato dalla Boldrini. In generale direi chi pensa che, per essere democratici e per realizzare le libertà di tutti, si debbano superare gli Stati nazionali, creare la democrazia e il popolo globale, per porre in essere una forma di cosmopolitismo delle libertà. In realtà, non può esistere una democrazia globale. La democrazia implica sempre l’esistenza del demos e questo non è mai globale, ma sempre territoriale, radicato nel suo territorio, nella sua storia. Allo stesso modo, la politica non può mai essere globale. Questa è sempre collocata in spazi e territori precisi. Se togli gli Stati nazionali e i territori, togli per ciò stesso la possibilità di un controllo democratico. L’anima bella globalista è dunque quella che dice, almeno a parole, di voler realizzare la democrazia, ma in realtà favorisce sempre e solo la classe dominante. In una parola, la sua caratteristica fondamentale è la mancanza di concretezza. Come in Hegel, questa figura si muove su un piano totalmente astratto.

La dialettica servo-signore di Hegel viene da te ripresa e riadattata al nostro tempo. Per tal motivo tu parli di un servo populista e sovranista e di un signore demofobo e globalista. Ti chiederei di chiarire ulteriormente questi concetti per i lettori.

Il polo dominante ha tutto l’interesse a distruggere gli Stati sovrani nazionali, per imporre il cosmopolitismo liberista. Il signore è quindi sicuramente nemico del populismo e del sovranismo, cioè dell’idea che il popolo si autodetermini nel suo spazio territoriale – non perdiamo mai di vista che la nostra Carta Costituzionale definisce la democrazia come sovranità popolare, nell’articolo primo. È chiaro che il signore globalista non è né sovranista né populista, ma contro il popolo. La parte dominata ha a questo punto da essere sovranista e populista, deve cioè difendere la sovranità come base della democrazia e della riconquista dei diritti sociali. Perciò c’è tanta demonizzazione del populismo e del sovranismo, perché sono i due nemici principali della parte dominante. Dal suo punto di vista non dovrebbe essere il Parlamento a decidere, ma i consigli di amministrazione delle aziende.

Tu sostieni che l’internazionalismo socialista sia coniugabile con l’indipendenza di ogni nazione. Come è possibile questo?

Nel libro vi sono frequenti richiami al tema marxista della questione nazionale. Già Engels, nelle sue lettere, afferma che l’internazionalismo presuppone nazioni forti che si rapportino tra loro in maniera pacifica e solidale. L’internazionalismo socialista, a differenza del cosmopolitismo e del nazionalismo regressivo, presuppone che lo Stato nazionale non sia vettore di aggressione verso gli altri Stati nazionali, ma stia con essi in rapporto solidale. Il nazionalismo è l’individualismo pensato al livello dello Stato, proprio come l’internazionalismo è il comunitarismo pensato al livello degli Stati. In Europa noi abbiamo avuto solo nazionalismi regressivi nel Novecento e, al momento, abbiamo un cosmopolitismo liberista dell’Unione Europea. Manca un internazionalismo socialista.

Se non possiamo dirci globalisti, al contempo respingiamo anche il nazionalismo. In qual senso questi sono entrambi fenomeni da combattere e che direzione prendere per superarli?

Io parto da un punto molto bello dei Quaderni dal carcere di Gramsci, in cui si dice che Goethe e Stendhal erano nazionali ma non nazionalisti. La Nazione non è necessariamente il nazionalismo – che di questa è una patologia. Esso è da evitare in ogni modo, ma non per questo bisogna abbandonare la Nazione come invece recita l’assioma dei cosmopoliti dominanti. Occorre semmai valorizzarla nel suo rapporto di riconoscimento con le altre, in una forma di internazionalismo di tipo relazionale. Per fare ciò occorre a mio giudizio creare un blocco antagonista di Stati sovrani socialisti che si confederino fra loro, senza cedere la propria sovranità, riconoscendosi parte di una costellazione che si oppone fermamente al globalismo americano – nel libro, io sostengo che il globalismo sia sostanzialmente un americanismo, un’americanizzazione del mondo.

Non so se tu abbia letto l’ultimo pamphlet di Christian Raimo, Contro l’identità italiana. In estrema sintesi, lui sostiene la non sussistenza dell’identità nazionale sulla base del fatto che questa sarebbe fondamentalmente una costruzione ex post.

Guarda, sarò sincero, il tempo della vita è breve e le letture interessanti da fare tante. Io leggo Spinoza, Fichte. Sinceramente il signor Raimo lo leggerò, qualora dovesse avanzarmi del tempo, in una vita futura. Conosco, comunque, bene le posizioni dei soloni del cosmopolitismo liberista. Che le identità nazionali siano storicamente determinate e non naturalmente date è talmente ovvio che Christian Raimo avrebbe potuto risparmiare la carta su cui ha scritto. Partendo dal presupposto che le Nazioni hanno una loro valenza culturale e storica, gente come lui arriva ad asserire che devono essere superate e che bisognerebbe andare contro le varie identità. Assolutamente sbagliato. Peraltro, l’identità nazionale italiana è tale per cui non esclude chi ha un certo colore della pelle, o è nato altrove. Lo include a patto che questo si riconosca in essa, ne accetti i valori e diventi parte di una comunità, che non è una comunità di sangue e suolo, ma storica e sociale, fatta di persone che si riconoscono e vengono riconosciute. Il discorso di Raimo è una sorta di avatar di altri mille discorsi che si riproducono come l’agente Smith in Matrix. Sono le posizioni del cosmopolitismo liberista, degli armigeri del pensiero unico della classe dominante. Il solo merito che hanno costoro, grazie al quale occupano “il davanti della scena”, è che sono gli intellettuali giusti al momento giusto per difendere l’ordine dominante. Se fossimo nel ventennio fascista, questi sarebbero con la camicia nera a sostegno dell’ordine costituito. Invece oggi, nel mondo del cosmopolitismo fucsia liberista, indossano una camicia di diverso colore e divengono le brigate fucsia che giustificano il nuovo manganello invisibile dell’economia di mercato. Usano l’antifascismo come strumento per poter agire in maniera fascista, con uno squadrismo che fa esattamente quello che faceva il fascismo a suo tempo, ovvero impedire la libertà d’espressione. E, per loro, diviene fascista chiunque non accetti il pensiero unico. Purtroppo, il fascismo non è ancora morto, ma è passato dal nero al fucsia. Oggi è il fascismo del cosmopolitismo liberista e del mercato, di cui i personaggi che mi hai citato sono a tutti gli effetti un’espressione.

Tu menzioni come antitesi al cosmopolitismo anche Giacomo Leopardi. Questa tesi è stata avanzata anche da Adriano Scianca, in La Nazione Fatidica. Come motivi questa contrapposizione?

Ho letto con piacere il libro di Adriano Scianca e condivido appieno la tesi sul Leopardi non cosmopolita. Però, attenzione, perché l’autore di L’infinito era pur sempre un figlio critico del suo tempo. Sicuramente andava contro un cosmopolitismo astratto, ma non era nemmeno un nazionalista irredento. A ogni modo, certamente Leopardi riconosce che il cosmopolitismo produce una sorta di individualismo assoluto. Non crea una grande patria, ma spacca quelle esistenti e trasforma ogni individuo in un’isola.

Per quanto la questione esuli dal tuo libro, cosa ne pensi dell’avvenuta censura da parte di Facebook delle pagine di Casapound?

Penso che, il giorno successivo a quello in cui venivano censurate su Facebook le pagine di Casapound, la medesima sorte toccava su Twitter agli account dei comunisti cubani. Oggi viviamo in una sorta di totalitarismo che ti permette di essere liberamente tutto ciò che vuoi, a patto che tu sia liberale. Semplicemente, non ti è permesso di essere altro da ciò e questo l’aveva già ben compreso Pasolini. È vergognoso comunque come il potere vinca a mani basse: quando vengono censurate le pagine dei fascisti di Casapound, le sinistre giubilano; quando vengono censurate le pagine dei comunisti cubani, i fascisti fanno altrettanto. Questo è il grado ultimo dell’idiozia divisiva.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG