03 Gennaio 2020

“Stringo negli artigli la ghianda del tuo cuore”. In onore di Derek Walcott

Pubblicato in origine nel 1990, in Italia accadde nel 2003, per Adelphi, per merito di Andrea Molesini. Per me, cresciuto alla periferia di ogni canone, fu uno shock. Epica moderna, Omero nei Caraibi, terzine dantesche fragranti come scodinzolare di palme, poesia salmastra, abilissima, nenia narrativa che imita lo sciabordio oceanico, paziente, letale. Omeros è una delle opere poetiche più ambiziose degli ultimi decenni antipoetici, avrebbe potuto scriverla soltanto uno smaliziato poeta di Santa Lucia, Caraibi, crocevia di geologico sangue – un poco english, un poco dutch, un poco africano. Si chiamava Derek Walcott, questo omerico inciso nel bronzo, questo Whitman brunito dal talento inesorabile: nel 1992 gli diedero il Nobel per la letteratura, pigliò a cazzotti Saint-John Perse – riconoscendo un magistero indimenticabile, tuttavia, alle “poesie fragranti e privilegiate” di Perse – disse cose importanti – “La poesia, che è il sudore della perfezione ma che deve sembrare fresca come gocce di pioggia sulla fronte di una statua, combina il naturale e il marmoreo; coniuga simultaneamente entrambi i tempi: il passato e il presente, dove il passato è la scultura e il presente le gocce di rugiada o di pioggia sulla fronte” – compie gli anni il 23 gennaio, sia lode a lui, e non lo pubblicano più, mannaggia a noi, inattuali alla grandezza.

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Per me fu una rivelazione quell’epica raffinata e primordiale, sfinge di sabbia nel palmeto all’altro capo del mondo, incrocio strano tra il supremo di Elizabeth Bishop, la cultura di Robert Graves – entrambi, per altro, adorarono il genio di Walcott – e i canti schietti dei pescatori. Lavoravo al “Domenicale”, sorseggiai le prime terzine, in redazione, sognando paurosi esotismi:

“Così al sorgere del sole, abbiamo tagliato quelle canoe”.
Filottete sorride per i turisti, che cercano di rubargli
l’anima con le loro canon. “Il vento portò la notizia

ai laurier-cannelles, le loro foglie tremavano
quando la scure del sole colpì i cedri
che vedevano le lame riflesse nei nostri occhi.

Il vento scosse le felci. Suonavano come il mare che nutre
noi pescatori per tutta la vita, e le felci annuirono: “Sì,
gli alberi devono morire”…

Abbozzai un articolo. Inacidito di retorica. Iniziava così: “Verrà un giorno un uomo più scuro dell’ebano e più lucido del diamante a cantare queste terre e questi dolori, mi disse quella donna ingobbita da troppi stracci che profetizzava al porto raschiando con un pettine le scaglie dei pesci che le gettavano i pescatori e che nemmeno i gatti venivano a stracciare, rivoltando le viscere infami e confrontandole con le nuvole che s’ammucchiavano come esseri preistorici o altri pesci che combattono per il cibo anche loro. Dio bruno, dio scolpito nel marmo, io ti vidi e tu venisti a noi come un rovo ardente perché udibili sono le tue parole ma invisibile ciò che sta dietro ad esse, quella gemma che ce le marchiò sulla pelle”.

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Due anni prima, 2001, avevo comprato Prima luce – titolo originale: “The Bounty”, 1997 – che forse è la canoa migliore per penetrare nell’amazzonia verbale di Walcott. La copia è lacerata di sottolineature.

Caute creature escono dalla terra, narici mordicchiano l’aria,
abbondano scoiattoli che si ripetono come domande,
i vermi non smettono d’indagare finché le foglie non dicono chi sono,
ma qui c’è solo un’uniformità senza stagioni,
e niente storia, che è noia ininterrotta dalla guerra.
Civiltà è impazienza, frenesia di termiti
intorno ai formicai di Babele, da cui si levano messaggi
e antenne; ma qui il granchio eremita si rannicchia
quando incrocia un’ombra e pietrifica persino la propria.

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Apri Walcott ed è un precipizio di luci, lo sfoggio della meraviglia. Le Egloghe italiane dedicate a Iosif Brodskij – per anni, Walcott, Brodskij e Seamus Heaney costituirono un trio di poeti eccezionali che scrivevano nel mondo inglese con sguardo eremita, apolide, poliedrico e polemico – commuovono. “Sono un’aquila che ti riconduce verso la Russia,/ stringo negli artigli la ghianda del tuo cuore/ che ti consegna, oltre il Mar Nero di Ovidio, alle radici/ di un faggio; vengo innalzato dal dolore e dalla lode, e tu/ sei un granello che ingigantisce nell’euforia, un punto che ascende”.

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Una tale felicità ‘tropicale’ nel dire di Walcott che funge da galvanizzante, da turbo all’ispirazione – perché la poesia non è un appartamento milanese arso nel grigiore, ma oceano e cielo, bestia che morde e umano che s’ingegna. La copia di Omeros è segnata ovunque. Leggevo Walcott e sorgeva un’immagine, un viso, una pozza di chiarore. Oggi rileggo – tutto è scritto a matita, dunque tra qualche tempo sparirà – con un misto di imbarazzo e tenerezza: “forse è più fedele il volatile che torna a salarsi le piume sul mare prima di bucarlo e ricucire lo strappo risalendo – delle mie mani che sembrano granchi – gli dissi – la luce entra nella testa e la allarga prefigurando il suo volto da vecchio – da morto”.

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Mi sono comprato l’edizione di Omeros della Faber.  “In a language as brown and leisurely as the river,/ they muttered about a future Achille already know/ but wich he could not reveal even to hi breath-giver// or in the council of lders”. Tutto è antico e al contempo nuovo, sorgivo, è marmo e foglia. Nel luglio del 2003 Walcott cascò a Rimini. Mi pareva incredibile. All’epoca lavoravo a Milano. Non m’importa la firma, mi attengo all’opera – non m’importa neanche di quel libro griffato da Borges, m’importa Borges. Eppure, chiesi di farmi firmare quella copia di Omeros – c’è pasta sciamanica nella poesia di Walcott.

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Il levriero di Tiepolo uscì per Adelphi nel 2005. Però io ho la versione, fuori commercio, stampata l’anno prima dal Consorzio Venezia Nuova, con gli acquerelli di Walcott. “Mentre squame di pesce al mercato gli soppesavano l’anima,/ bilanciando i due mondi. In quale sarebbe rimasto?”.

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Era marzo, poco prima di primavera, sera quasi calda, cadde la telefonata. Era il 2017. È morto Derek Walcott. Ne scrissi e mi sembrò un onore, un privilegio dato ai cavalieri. Walcott aveva infiammato la mia giovinezza, ne avevo scritto, continuamente. Ricordai la sua gita in Italia. “Derek Walcott, questo titano di granito dagli occhi blu, era a suo agio tra le spoglie mute dell’Impero romano. Elegante, severo, dall’intelligenza vivacissima, pareva più europeo – più ‘romano’ – di tutti quelli che erano capitati ad ascoltarlo. Un uomo venuto dall’aldilà dell’Occidente sapeva dare i nomi alle pietre morte e convogliare la Storia in un poema”. In un secondo ‘coccodrillo’, censisco una cosa che mi irrita assai, ancora. “Accendo la tivù. Chissà cosa dice Mamma Rai di Derek Walcott, il più grande poeta in lingua inglese del millennio, autore di un testo pazzesco e muscolare come Omeros (ottomila versi suddivisi in abbacinanti terzine dantesche), pubblicato in lungo e in largo dall’editore più figo d’Italia, Adelphi, per altro Premio Nobel per la letteratura nel 1992. Niente. Non dice niente. Discettano di voucher aboliti (pensate solo ai soldi e allo stomaco, gente, così non date problemi a chi vi governa con il frustino…), dell’incontro rugginoso tra Donald Trump e Angela Merkel, della Juventus che ai quarti ha incocciato il Barcellona. Insomma, quisquiglie. Detto senza nobiltà, cazzate. Continuiamo a occuparci del particolare senza fare i conti con gli assoluti”.

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L’ultimo libro di Walcott pubblicato in Italia è del 2015, Egrette bianche. Un lustro fa. Potrebbero ridurre Omeros in ‘economica’ – costa 38 euro. C’è moltissimo altro da tradurre e pubblicare. Poesie. Testi teatrali – molti: Walcott ha avuto vasta attività da drammaturgo –, i saggi (What the Twilight Says), la raccolta di Conversations. Un tempo, dico, non si poteva fare a meno di citare Walcott – ora mi pare nelle retrovie, tra i titani pericolosi, quelli che frantumano il nostro narcisismo per eccesso. Troppo vasta la sua ricerca poetica, troppo raffinata la sua lingua, concreta e orfica. Ma senza il poeta, come riconosci il bene? (d.b.)

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Dopo la peste, le mura incrostate di mosche, l’amnesia del fumo,
impara, vagabondo, a non andare altrove come le pietre
ché il tuo naso e i tuoi occhi sono ora la mano di tua figlia;
va’ dove la scansione dei frangenti si fa più facile
da sopportare dove non c’è padre da uccidere,
o cittadini da convincere, e non forzare più la memoria
per capire se i morti eleggono il proprio governo
sotto la giurisdizione dei mandorli di mare;
certe disposizioni di legge li sigillano in un silenzio
che nessuno osa rompere, e un solo sostantivo li fece trasparenti
là dove vivono, oltre la coniugazione dei tempi
nella loro città bianca. Senza pena ci rinnegano,
e rinnegano ogni altra cosa che qui scalzi la nostra fatica.
Siedi sul tuo plinto nell’ultima luce di Colonus,
lascia che i tuoi alluci nodosi mettano radici nella loro terra.
Lenta una farfalla si posa sul ginocchio di un tiranno;
siediti tra gli scogli mangiati dal mare e lascia
che il vento della notte spezzi le terrazze del mare.
Questa è la luce giusta, questo peltro lustro sull’acqua,
non la carneficina di nubi, non lo scontato stupore
della verità infiammata e delle piogge oracolari,
ma queste secche gentili quanto la voce di tua figlia, mentre
gli dèi stingono come tuoni tra le montagne crepitanti.

Derek Walcott

*da “Prima luce”, Adelphi 2001, traduzione italiana di Andrea Molesini

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