13 Agosto 2018

“Dentro la nostra anima ce ne sono, nascoste, centinaia”: in onore di Milos Crnjanski, lo scrittore d’acciaio e di cristallo

Il secondo volume fu pubblicato 20 anni fa, da Adelphi. Mi tramortì il titolo, fermo e pieno di attese, e la lirica sostanza dei capitoli. I capitoli avevano didascalie sgargianti, oniriche, come “Le partenze e le migrazioni li resero torbidi ed effimeri come il fumo dopo la battaglia”; “Il passato è un abisso fosco e spaventoso. Ciò che è entrato in quel crepuscolo non esiste più e non è nemmeno esistito”; “Un cerchio azzurro, immenso. Nel suo cuore, una stella”; “Si cammina fra i ricordi come sotto il chiaro di luna”. D’altronde, il libro, ampio quanto “Guerra e pace”, aveva ossessionato il suo autore, era stato pubblicato tra il 1929 e il 1962, vi si notano i sommovimenti dello stile, cioè della vita. Migrazioni 2La prima parte del romanzo, “Migrazioni”, è lirica (senti l’incipit, che forza: “Velati di nebbia, i salici vaporavano; sempre più basse, le nubi vorticano. L’abisso, che il fiume attraversa, è fosco e impenetrabile. La terra è cupa, invisibile, sommersa di pioggia”), l’altra è più narrativa, mossa, vibrante di dialoghi. Vi si narra, nel pieno Settecento, l’epopea dei serbi, che tra ottomani e asburgici, sognano una nuova patria in Russia. Il clangore delle spade ha un candore di luna. Il libro, capolavoro fuori tempo, un marziano nel Novecento, fu pubblicato da Adelphi in due volumi, nel 1992 e nel 1998, poi in un unico tomo, nel 2011. Riguardo al suo autore, Milos Crnjanski, trovate informazioni qui. Questo racconto, dal titolo originario “Dio preferisce gli imperfetti”, è stato raccolto in “Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro”. Lo si pubblica in omaggio allo “scrittore d’acciaio e di cristallo”, come ha scritto di lui il poeta Hugh MacDiarmid.

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«Una donna può eccellere suonando il violino, non il pianoforte. Questo strumento esige la forza di un uomo: è vasto come un deserto, ripido come una montagna», le scrisse così, Gustav Mahler, dopo aver scoperto che non era un uomo. Per lei, anzi, per Joseph Enan, il celebre pianista, Mahler aveva scritto l’“adagio” della sua Quinta. Enan suonò la sinfonia a Berlino, per la prima volta, sotto il dettato di Feuchtwanger. Ma il giovane pianista era noto per l’indisciplina e l’intuito, lucido, animalesco, «Enan non ascolta, non guarda, si isola, sembra fondarsi su un ghiacciaio, dà l’idea di non eseguire ma di comporre, lì per lì, con implacabile innocenza: perciò davanti a lui qualsiasi direttore d’orchestra sembra un ingombro, un soprammobile», aveva scritto l’inviato a Berlino del Sunday Evening. Mahler era raggelato leggendo quanto scriveva il Times: dopo l’esecuzione di un concerto di Brahms – non ricordava il brano, piagato dalla gelosia, perché lui e non me? – Joseph Enan, il prodigio, «il talento più travolgente del nuovo secolo», come lo etichettavano i giornalisti – con il morboso intento di ammorbidire il genio in un aggettivo, di ammorbare il gusto – aveva elevato le mani «belle come uccelli», si era issato sul pianoforte e «slegandosi la camicia, ha mostrato i seni, solidi, feriti». Era sparito dal palco e dallo sguardo del pubblico, Enan, spiritato; restò il sospetto di aver assistito a una rivelazione, a una violenza, alla nudità e alla morte di un dio.

Joseph Enan si chiamava Ingrid Blanco, nata da madre ebrea e da padre armeno, che sapeva addomesticare il ferro e insegnava Storia delle religioni all’Accademia Reale collaborando con il professor Freud, e da tempo tentava di segarsi i seni. «Rimasi nove mesi nella casa – durante la gestazione Ingrid diede alla luce Joseph», scrive Ingrid Blando in Identità dell’artista, la sua «confessione notturna», scoperta, secondo le strategie della donna, dopo la sua morte. «Fui educata dal pianoforte – e capii di odiarmi». Scoprirono Ingrid, nella casa vuota, dopo nove mesi; quel ragazzino stranamente pulito disse di chiamarsi Joseph, Joseph Enan. Ma lo disse dopo due anni. Per due anni, il pianista più talentuoso del proprio tempo, non parlò. La trovarono, quasi calva, al pianoforte, che suonava. Dopo averli tagliati con un rasoio, Ingrid aveva annodato i capelli in piccole sfere, nascondendole nel comodino della madre. Anni dopo, uomini diversi, avrebbero scoperto che quei capelli si erano trasformati in pietre. Suonava in modo impeccabile una musica mai udita e con una benda Ingrid si era stretta i piccoli seni, fino ad annullarli. «Mi sembrò di affogare, che l’acqua invadesse ogni spazio», ricordò chi aveva scoperto il pianista, in quella casa enorme, a Vienna. «Che invadesse, intendo, spudoratamente, tutta la mia vita», precisò l’uomo. Non si domandarono come il bambino prodigio fosse riuscito a vivere, da quanto tempo fosse lì, chi fossero i suoi genitori e che rapporti intercorressero tra quel bimbo e i coniugi Blanco, spirati in un incidente ferroviario. Severo, ambiguo, eretto sul pianoforte «quel bambino era una presenza aliena, disumana, indifferente», scrisse al superiore l’ufficiale di polizia che visitò la casa. Ingrid capì che «la musica terrorizza, istituisce distanze», perciò suonava. Il talento la portò in un collegio musicale, dove «il bambino, probabilmente un orfano o un profugo, incapace di ripetere i nomi dei genitori, potrà perfezionare il suo talento in favore dell’Impero», come scrisse il giudice al Segretario speciale dell’Imperatore Francesco Giuseppe per garantire al genio una borsa di studio. «Il pianoforte è come l’enorme bocca di un coccodrillo: divora tutto ciò che sei», scrive Ingrid nella sua confessione. Al collegio nessuno pensò di indagare la sessualità di Joseph Enan, perché egli non si staccava mai dal pianoforte. Il suo viso imperturbabile e il carattere, brutale, poi, gli impedirono di avere amici. La musica è più importante dell’uomo, pensava, senza dubbi, il fenomeno – il pianoforte è più vasto di un continente, di una galassia, della vita. “Dio predilige gli imperfetti, Cristo si fa rappresentare dagli inabili, dagli incapaci”: questa frase, tratta dalle lettere di San Paolo, era scavata nella cassa interna del pianoforte. L’aveva scritta, con un ago, la madre di Ingrid, per consolazione, forse, perché sapeva che non sarebbe stata in grado di adempiere una famiglia. Il marito era predisposto alla debolezza, la figlia alla crudeltà. Quando Ingrid scoprì quella frase, seppe di non voler vivere. Si convinse che poteva diventare un uomo, il più grande pianista di ogni tempo. «Joseph Enan ignora la differenza tra Brahms e Schubert, non sa nulla di storia della musica né della raffinata teologia che s’intreccia dietro un pentagramma – esegue come se quelle note fossero bramiti di cervo, razzie di lupi, cascate di falchi, le pazienti intercessioni che l’erba rivolge alla tigre. Ma è questa inappagata ferocia a renderlo un pianista eccezionale», scrisse Paul Schneider, il confidente di Schömberg, in una lettera a Thomas Mann. A vent’anni, Joseph Enan si era esibito con successo nei teatri più importanti del mondo. Il modo in cui suonava incuteva inquietudini, faceva supporre che dentro la nostra anima, come un vaso, ce ne siano, nascoste, centinaia, e che non siamo ciò che crediamo di essere. «Suonare significa mappare un ghiacciaio», diceva Enan a chi pretendeva di dirigerlo: intendeva, con quella frase, evidenziare la disciplina minuziosa dell’esecuzione, ma anche la fragilità di quel gesto – e la sua aleatorietà, «non appena descrivi un ghiacciaio, egli ha già cambiato forma», «d’altronde, non appena ami un uomo, ti accorgi che è odioso, diverso», aggiungeva, forse ricordando la madre.

Quel giorno, a Londra, poco prima del concerto, Joseph Enan spiò il violinista. Stava leggendo la Bibbia, «Dio predilige gli imperfetti…», sussurrava. Joseph chiese al violinista di rileggere il passo; «…tutti gli uomini sono imperfetti, incapaci», rispose il pianista più conosciuto del suo tempo. Dopo aver suonato Brahms – senza conoscere Brahms – quella sera, a Londra, Joseph Enan mostrò al mondo che era una donna. La rivelazione fu così straordinaria che atrofizzò il pianista: Joseph Enan tornò Ingrid Blanco, le mani appassirono, dimenticò il talento. Ingrid si ritirò in Alaska, presso una comunità di Vecchi Credenti russi, difesa, qualche decennio prima, da Lev Tolstoj in uno dei suoi articoli che offendevano la Chiesa ortodossa. Perché suonare quando è più affascinante ascoltare?, pensava Ingrid, aiutando a officiare i riti, prestando servizio dove era necessario, tra gli anziani o i neonati. Nessuno lì conosceva Joseph Enan, il gelo nascondeva la vita passata di Ingrid, la consumava. «Nella liturgica onnipotenza quotidiana delle foreste non penetra la storia: una sinfonia non cresce più facilmente di un acero?», scrisse.

Durante un viaggio a Montreal, Ingrid fu affascinata da una piscina. All’aperto, colpita dalla luce, l’acqua sembrava fuoco. Una rondine colpiva l’acqua con le ali triangolari, «vuole distruggere l’immagine riflessa – è quello che devo compiere», scrisse Ingrid. La piscina non era diversa dal cielo, la rondine significava un angelo. Tumefatta dal sole, l’acqua gialla sembrava ambra, capace di preservare per millenni, intatte, le forme che si dileguano. «Sarebbe bello morire nella piscina, ghiacciata», scrisse, pensando alla serenità delle bestie glassate nell’ambra. «Il ghiaccio conserva anche i sentimenti?», scrisse Ingrid, alla fine del diario. Le sembrava terribile che il corpo si potesse conservare mentre la sua anima volteggiava altrove. «Chi invaderà il mio corpo? Cosa diranno di me? Chi sarei, allora?». Da allora, di Ingrid Blanco è ignota la vita, l’episodio della morte.

Milos Crnjanski

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Milos Crnjanski (Csongrád 1893 – Belgrado 1977) è l’autore dell’immane epopea del popolo serbo, Migrazioni. Pubblicato tra il 1929 e il 1962 questo libro, «all’apparenza fuori tempo, come chi si ostini a frenare la chioma scarmigliata con un nastro, alla moda dei dandy settecenteschi nell’era astronautica delle tute lunari, ha un fascino particolare, pericoloso. Sembra mescolare l’artiglieria di Lev Tolstoj alle visioni apocalittiche di un Philip K. Dick, ha qualcosa della profezia, anzi, dell’urlo» (Giuseppe Pontiggia). Crnjanski studiò a Vienna e a Belgrado, diplomatico dal 1928, visse a Berlino, Lisbona e Roma e dalla Seconda guerra soggiornò a lungo a Londra. Fu ossessionato dal compito di redigere l’epica sgangherata del suo popolo «maciullato dalla Storia, poiché non abbiamo un Dante né un Virgilio e neppure un Omero» (da una lettera a Ivo Andric). In affetti, Crnjanski nasce come poeta, ed è con l’idea di «stilare miniature su corazze arrugginite» che realizza la propria epica. La sua vita è disseminata di libri, pressoché inediti in Italia. Dopo la perdita della moglie Ada, decise di uccidersi ingoiando un bicchiere di cristallo.

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