Ogni libro di poesia è oracolo, responso, sillaba appena balbettata di cui non si conosce – per eccesso d’esattezza – l’esito, si ha nebuloso barlume dell’origine. I versi, dico, se è poesia – e non una delle tante false profezie –, dovrebbero invogliare un destino, far muovere dei passi, sciogliere una mano in fonte. Per lo meno, costringerti a sedere, a ritenere la finestra un oceano. È strano: l’ultima raccolta di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021), quella meno oracolare, si rifà, fin nel titolo, all’I Ching, l’arcano oracolo cinese. L’I Ching è costituito da otto trigrammi, la combinazione dei quali produce 64 esagrammi, dal massimo dell’apertura – Kun, la Terra, lo Spazio, la Madre, con tutte le linee aperte – all’estrema chiusura – Qian, il Cielo, la Forza, il Padre, che ha le linee chiuse. Sollecitando il caos, combinando fatalità e filosofia, l’I Ching è un punteruolo nel gorgo del divenire: di una situazione non dice lo stato, statuario, né l’avvenire, ma l’evoluzione, il movimento e le sue varianti. Allo stesso modo, credo, De Angelis, nel suo buio repertorio di miracoli quotidiani, tra agnizioni e sonnambuli (“Hai invocato il sonno, ma il sonno/ era acqua che si spezza,/ un’alba sottoterra”),  mostra ogni evento come inscritto su una lamina, in attesa di una esecuzione lontana, posposta, di lacrime che sono motivazione e moto. Anche quando attraversa la palude dei suicidi (la sezione “Aurora con rasoio”), il poeta guarda, ragguaglia, enumera – “La vita continuerà altrove”, è scritto in L’ora improtetta; “Non sarà una morte qualsiasi. Inghiottirò l’ostia/ della vendetta, morirò in un fuoco prodigioso”, dice una Meteora infuocata nella notte –, fa la conta dei “corpi concretissimi sparsi nelle strade/ di questa terra” e ce ne dona il resto, l’oracolo, boccheggiante e purificato dall’uso, dal sinistro. Libro nitido, prosastico, di passaggi, di passaggio, questo (d’altronde, l’oracolo ha il carisma dello specchio: è tanto semplice che lo tradisci), aggrovigliato, purtroppo, da una ‘quarta’ particolarmente infelice (“Un percorso, quello di questo libro, articolato e insieme unitario, che si impone nella sobrietà cupamente orizzontale delle emozionanti parti che precedono – spesso anticipandola nei toni – quella verticalità vibrante e tagliente in profondo che si delinea nel decisivo capitolo finale”: cosa vuol dire?, possibile non ci sia un lettore, un editor, un passante in Mondadori a rileggere?). L’oracolo continua a roteare: lo si interpreta sapendo di cadere; De Angelis torna a temi originari – che provengono dalla rivista “Niebo”, che sono sviluppati in Poesia e destino – con una cautela lirica scelta, forse, per espiare le presenze in fatti (“Vedi, giungono da un’altra mente/ le parole, una mente lontana che abitava/ nel miele delle arnie”). D’altronde, nel giardino pascola l’angelo, Enoch è arroccato sul sambuco, le sezioni del libro sono quattro, e a quella cifra l’I Ching dice Meng, “Sotto la montagna scaturisce il fiume. Il coperto”. La parola Meng significa coperto, occulto, nascosto: qualcosa cresce con pazienza letale, oltre le evidenze. Così fa la poesia, quando rivela, magari dopo anni, il suo oracolo. (d.b.)

Che senso ha, ancora, la poesia? Cos’è: un esercizio di narcisismo, una benedizione, un’agnizione, nient’altro che polvere? E a chi è destinata?

Che senso ha la poesia? Cosa è la poesia? Mille risposte, nessuna risposta. Ma certamente l’agnizione e la polvere sono le parole più giuste: fanno pensare a un gesto carico di vita e di morte, come l’abbraccio di Elettra e Oreste dopo il prodigioso riconoscimento. A chi è destinata la poesia? A una razza in estinzione, a poche creature capaci di fermarsi sulla parola, sulla singola parola, e capaci di consegnarsi alla sua bellezza, che può essere l’ultima, e al suo interrogatorio – che può essere di terzo grado – e infine al suo giudizio, che può essere definitivo.

Quest’anno compirà 70 anni; è nato alla poesia, con Somiglianze, 45 anni fa. Come è possibile non diventare un esteta del sé, non essere uno stiloso stilista, uno che scrive sempre le stesse cose? Come si riesce, intendo, a sconfiggersi?

È semplice: per non diventare un esteta o uno “stiloso stilista”, basta non esserlo mai stati. Mai, nemmeno per un attimo. Se qualcuno diventa uno stilista – uno scrittore che fa dello stile la propria rendita bancaria – significa che lo era già in partenza e merita di tacere a tempo indeterminato, avendo costui la presunzione di coniugare la verità con la propria maniera e la poesia con la propria bravura, ossia di vincere su tutti i tavoli.

“Morire giovane, questo l’ho sempre voluto”, attacca una sua poesia, Exodus (II). Non è morto giovane. Cosa resta del resto della vita, allora: la palude della nostalgia, il mestruo malinconico, una qualche gloria?

“Morire giovane, questo l’ho sempre voluto”. Devo precisare che io sono l’autore della poesia ma non il personaggio parlante, il quale si è ucciso a diciannove anni, come aveva annunciato. Quanto a me, ho conosciuto a più riprese la morte e la sparizione di me stesso e ne posso parlare a ragion veduta. Ciò che resta dopo la fine della giovinezza non è né palude né nostalgia né tanto meno una miserabile traccia di gloria. Ciò che resta dopo è ciò che esisteva anche prima, vale a dire la poesia, la quale raccoglie in se stessa entrambe le stagioni: è il luogo integrale in cui le immagini storiche del tempo trascorso e quelle profetiche del tempo futuro si bagnano nel fiume attuale dell’infinito presente. Tutta la sezione a cui appartengono questi versi è dedicata a coloro che hanno deciso di togliersi la vita. Si intitola “Aurora con rasoio” ed è una pallida giostra di creature finali, che hanno abbreviato la loro esistenza, hanno spezzato la linea per mille ragioni: angoscia, vendetta, coerenza, rito, dovere, fallimento, entusiasmo, disperazione, estasi, mania, conoscenza, insegnamento, sarcasmo, vergogna, dimostrazione, rimprovero, condanna, liberazione. Il filosofo latino Seneca – che su questo tema la sapeva lunga – ha sempre celebrato la nobiltà del suicidio e l’ha descritto come una grandiosa via libertatis: “All’uomo è stato concesso un solo ingresso nella vita, ma innumerevoli vie d’uscita. Tu mi chiedi qual è la via per la libertà? Guarda quel precipizio: la via scende da lì. Ma qualunque vena del tuo corpo può diventare questa via” (Lettere a Lucilio 70, 14-19).

Torna, anche in questa raccolta, l’etica atletica, lo sport e il suo dogma: perché? Che cosa rappresenta?

Nel gesto atletico si realizza la perfezione dell’uomo, come avevano capito benissimo i greci, un lampo di eternità che oggi vediamo sfolgorare nel salto di Valery Brumel, nel rovescio incrociato di Simona Halep o nel dribbling sconcertante di Dejan Savićević. Le odi scritte da Pindaro per i vincitori dei Giochi sono tra i versi più alti del mondo antico e celebrano le nozze tra la bellezza umana e quella divina, tra il gesto contingente di un atleta e la permanenza gloriosa di una civiltà.

Come giudica il poeta il tempo del contagio, la clausura imposta, la carcerazione dei corpi, impediti all’abbraccio?

Per quanto mi riguarda, a dire il vero, ho sempre fatto a meno degli abbracci. Per il resto è come hai detto tu: si tratta di una clausura imposta e non di una nobile clausura tesa alla scoperta di sé, alla discesa agli inferi. Si tratta del solito pollaio televisivo dove ogni giorno viene gettato nell’arena un predicatore che invoca il dio Vaccino per riaprire il paradiso sbarrato da una moltitudine di saracinesche chiuse. Brutta gente, brutti attori, una commedia magniloquente e noiosa.

Come mai quel titolo, Linea intera, linea spezzata?

L’espressione viene dal Libro cinese dei Mutamenti, “I Ching”, ma qui diventa metafora dell’esistenza umana, della sua frattura o del suo compimento.

Si può dire di essere poeti? Chi è poeta?

Si può dire, ma è meglio non dirlo. Poeta è chi scrive una bella poesia.

Lei ha fede? Crede in Dio? Che cos’è la fede?

Una volta, nel vecchio dizionario latino Calonghi-Georghes, tutti noi leggevamo che “fides” significa “fiducia”, “lealtà”, “parola data”. Ecco, ho dato la mia parola alla poesia, che è sempre stata leale con me: in lei confido, di lei mi fido e non ho altro dio fuori di lei. “Questa è la musica ora: / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’angeli, è la mia / sola musica e mi basta” (Vittorio Sereni).

*In copertina: Milo De Angelis in una fotografia di Viviana Nicodemo

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