28 Aprile 2019

“Saper amare senza la nitidezza del grazie (dicono che abbondino lupi nell’altro mondo)”: Diario di Davide

…che poi ci vuole davvero poco ad addurre i cervi in angeli e a dare al corvo la dignità di un dio – la vecchia che ogni giorno viene al cimitero compie gli stessi gesti, tiene a balia i morti, le dico, non sente, cammina storta e riempie l’annaffiatoio nell’unico lavandino che c’è, quello in cui mi lavo, la mattina – poi, con ritmo caustico, gesto domestico, delicatezza casuale, bagna una tomba. Non bagna i fiori, la vecchia, con lo stesso vestito nero, le vene gonfie nel polpaccio destro, sinistre come le radici dei pini che smuovono l’asfalto, tra poco esploderanno, a mucchi, e lei volerà via come un palloncino – la vecchia bagna la terra della tomba o la lastra di marmo. Ignora i fiori. Le chiedo perché e mi sfida: tu neanche sai chi era tuo padre, neanche gli hai dato ascolto, neanche conosci la ragione per cui se ne è andato. La lascio dire finché mi dice, io abbevero i morti, i vivi, danno acqua ai fiori, non le sembra assurdo? Quando parla di mio padre mi sfida con il ‘tu’, altrimenti retrocede al ‘lei’ – penso, dall’arcata delle gambe – è bassa e decisamente brutta – che abbia lavorato nei campi, di certo ha munto. Un giorno – dei giorni so i rintocchi della luce sul cranio del cimitero e il ventaglio d’ombra del cancello – a volte è il prete a volermi dare una pace che non chiedo – la vecchia si slaccia il fazzoletto che ha in testa – e io pensavo che il rebus del suo viso fosse tenuto insieme da quel fazzoletto, che slacciandolo si snodasse in decine di pezzi, per terra – e raduna alcune pietre, bianche. La vecchia scuote le pietre nel fazzoletto, poi lo spalanca ed esercita questa malia all’ingresso del cimitero. Per quanto tu voglia rinchiuderti, qualcuno verrà sempre a elevarti, come si fa con le reliquie, e più dolore arrechi più otterrai amore, seguito, legame, mi dice. Sputa sui sassi, per sancire l’oracolo – lo minimizzo – se ti dicessi che questi sono i denti di Dio?, dice, e li sparge con il piede, beve attaccandosi all’annaffiatoio, poi sputa contro il muro, dove una lapide ricorda un ragazzo, Francesco, morto nel 1916, durante la prima guerra, a 18 anni.

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Dicono che il macellaio di Ramello, un posto qui vicino, abbia fatto, parecchi anni fa, un favore al Sindaco, eliminando l’amante della moglie, macellandolo, predisponendolo in costine e affettati, inviati come dono natalizio alla famiglia del tradito. Da lui non compro carne – mi faccio consigliare in merito ai coltelli – quando li maneggia sembra roteare le galassie, che s’inargentano nell’aria, e sono così luminose, così fatali. Intendo armarmi per pattugliare il cimitero – qui si entra solo le dico io e i ragazzi non lo lordano più con scritte cifrate e cretine, perché farò esercito dei morti e ci riprenderemo la vita, la vitalità, i comuni. Mi chiamerò Giosuè, dedicando il mio nome ad altro, come il condottiero della Bibbia, spietato, che disse al sole di fermarsi “e il sole si fermò e la luna fu immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici, sterminandoli”. Da sterminare, prima di tutto, c’è il nemico dentro di me – che la luce sia utile a un gesto di morte, che alla luce si compia l’assassinio, in un forsennato fiorire di raggi, abbaglia.

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Abiterò con Veronica il cimitero – ieri ho costruito una capanna davanti alla cappella dove è sepolto mio padre, i genitori di mia madre e quelli di mia nonna. Il cognome di mia madre è “Maddalena”, ed è quello che si erge, prismatico, sul fronte della cappella – non è l’eloquente segno della penitenza, del mio ingresso nella colpa per inaugurare il biancore? Non c’è sapienza che non preveda il perdono – ho costruito la capanna con un telo cerato e alcune aste di ferro, residuo di opere di manutenzione presso altre cappelle. Ho sprangato il cancello. A chi chiede di entrare dico, chi sei? chi vuoi salutare? Poi vado dal morto a cui corrisponde il nome e gli chiedo se vuole avere visite. A volte i morti vogliono essere presi per mano – altre volte vogliono riposare. Dicono che abbondino lupi, nell’altro mondo, che nessuno abbaia davanti al dolore, che soffrire è un desiderio spiantato, e gli occhi dei morti, laggiù, sono grandi come barche, vedono tutto e non dicono nulla, inghiottono la visione, hanno bocche minuscole, ridotte a un punto.

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Penso che con Veronica possiamo amarci solo qui, in un cimitero – perché siamo calcificati in un’altra vita, pure se siamo in questa. Qui, penso: amarla, nudi e disintegrati, mentre dalle grate del cancello il Sindaco, i carabinieri, la corte dei chiacchieroni, ci guarda con distinta voglia e volti pieni di funambolica morale.

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Da un anno e mezzo continuano le repliche del Malatesta di Henry de Montherlant e teatro – il merito del successo è mio. Ho ritradotto il testo, l’ho razziato, segato, calpestato, in vaste zone riscritto. Mi sono messo nella gola di Montherlant, scrittore granitico e oscuro, senza speranza di essere compreso in Italia, tradotto, nei Cinquanta, dal pavido Camillo Sbarbaro, in una lingua per eruditi, marmorizzata nella sfinge formale, pallida, impallinata di vizi lirici. Naturalmente, nella mia vecchia vita tra gli uomini, ho fatto in modo di portarmi a letto la madama attrice che interpretava Isotta – dialoghi improntati all’astratto e al platonico a cena si sono tradotti in fragore carnale, con la necessità, per entrambi, di fingere bene per non vederci mai più. Mi hanno cercato fin quassù – il lacchè del produttore, il fido cagnolino del regista di lusso – perché concedessi la mia sceneggiatura allo scopo di farne un film. Montherlant aveva la faccia di un lupo: sanguinaria e sgomenta. Penso che mi avrebbe ammazzato, a meno che non mi riducessi a un torello buono e sedare le sue voglie. Allora, ho scavalcato il cancello e ho cominciato a camminare lungo il muro che delimita il cimitero. Ho espresso le mie opinioni facendo il suono del cuculo e quello del gufo, mostrando il sedere – i servi mi hanno preso per pazzo e se ne sono andati, offesi, immagino, che neppure la cifra importante che mi hanno offerto bastasse a sanarmi, idioti.

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Essere attratti dalle bassezze significa elevarsi, scrivo a Veronica. Rivolgersi a ciò che è alto e aureo è il difetto degli gnostici, fiondarsi nel fango quello degli eretici, dei maghi che pensano, peccando, di poter redimere il male. “Ci siamo persi nel momento in cui abbiamo adempiuto alla scrittura – nella scrittura siamo aderenti uno all’altro in una intimità di parola irraggiungibile: se così non è, è sempre il solito affarismo della carne e degli sguardi. Non ci siamo mai guardati se non tramite il verbo, e penso sia un privilegio, un dono. Il resto, è la vita, l’uomo, gli uomini, da accogliere nella loro onestà”, scrivo a Veronica. Con quella finezza monastica per cui mi spaccherei la faccia con una pietra.

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Stacco le lettere di ferro che indicano il nome del morto, sulle tombe – dall’iride di vetro tolgo la fotografia. Combino altri nomi, scambio le fotografie – chi si chiamava Giorgio ora è Fabiana, chi era Leonardo ora è Stefano oppure Alessandra. Così i vivi non estenderanno più una complicità con i morti – per ciascuno di loro definisco un destino diverso, un destriero verso un’altra vita. Non è questo il compito dello scrittore? Decrittare una vita e inventarne un’altra, spaiata, dispari, impareggiabile. Di notte, sento che i morti ridono, sono felici di questa nuova possibilità, di questo gioco.

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Quando mio figlio verrà a cercarmi, non mi riconoscerà – chiederà a me, uno sconosciuto sulla soglia del cimitero, dove è andato suo padre. Io gli darò delle risposte evasive, senza farmi riconoscere. Perché è questo il vero riconoscimento, la vera unione – saper amare senza la nitidezza del grazie.

*In copertina: Giovanni Gerolamo Savoldo, “Pietà”, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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