12 Maggio 2019

“…e tutti, sconvolti per ciò che avevo scritto, in risarcimento, vennero a prendersi un pezzo del mio corpo, chi un ginocchio, chi un’arteria, chi una costola…”: Diario di Davide

“Senza gestire l’ignoto” significa, appunto, farsi azzannare dall’ignoto. Il carteggio tra Vera e Nathan si interrompe e cambia la ‘quinta’, la scenografia – e quindi la sceneggiatura. Qui si comincia a raccontare ciò che ha portato alla scrittura di quel carteggio, quale malia o malattia. Il ‘Diario di Davide’, ambientato tra il 2018 e i nostri giorni, ovviamente, è una finzione: una nube di pensieri scritti da un personaggio fittizio che si chiama così, Davide. Perché due persone, altrimenti sconosciute, scelgono di amarsi attraverso lo spettro della letteratura, indossando prodigiose maschere? Anche questa è una delle domande. Ringrazio, va da sé, Veronica Tomassini, complice in questa nostra conversione narrativa. Questa l’ultima puntata. 

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Giugno 2019

Uno strabiliante San Sebastiano – la freccia, una, unica, attraversa il mento e sbuca dalla fronte, gli deforma il bel viso. Non c’è sangue – la freccia è come un raggio di luce, uno di quelli che fiocinano il corpo santificato di Teresa d’Avila. Il martirio è una rivelazione: sulla punta della freccia, protesa al vento, sembra riprodotto, in miniatura, il volto di Dio – il cristianesimo non è altro che morire per Lui, il cannibale. Ricordo il San Sebastiano del Perugino: gli occhi verso l’alto, concentrato e candido, incurante della freccia che gli trapassa il collo, sull’asta è inciso il nome del pittore, Perusinus Pinxit, che genio, l’arte è questa serena dissacrazione: un pacifico martirio, ti uccido per uncinare il mio genio.

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Da Verbania a Reggio Emilia a piedi – dormo nascondendomi nelle chiese – zolle di zanzare in faccia e la necessità di percorrere strade inusuali all’uomo – “anche tu cerchi qualcuno che ti uccida, come tutti”, dice il frate, mentre guardo la grande pala di un allievo del Procaccini – che il padre scompaia è necessario alla crescita più sana dei figli, mi ripeto, giustificando una latitanza tra le paludi dell’era e l’aria soffocante – il solito puzzo di aglio dalla gola del frate, forse per tenere a distanza femmine e demoni – “anche lei chiama conversione il tradimento”, dice, riferendosi forse a San Sebastiano, guardia personale di Diocleziano, che con stratagemma evitava di suppliziare i cristiani invisi all’imperatore, e tradusse molti alla religione di Cristo. C’è sempre un merito nella pena, penso, mentre il frate ripete, “ogni parte del suo corpo fu ricoperta da frecce, sembrava un istrice, ma non morì e quando ribadì il nome di Gesù di Nazareth, l’imperatore Diocleziano, che officiava nel tempio di Eliogabalo, ordinò che lo flagellassero, che lo gettassero nella Cloaca Maxima”. Si glorifica il corpo lasciando che altri lo sconfiggano – si accerta la carne dando a loro l’abuso – dico – e penso a Veronica, sottile come un velo, come quella che può abitarmi, bucando il corpo, perché dalla punta dei piedi al cranio sono più vasto di Patmo, più sano di Corinto.

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Il corpo non è mio ma di chi se ne riveste, immaginandolo – la sua voce mi buca il cranio come una freccia – ha una storia di mentori, di meteore, di mentitori e di aborti, le dico, “sarò la tua mongolfiera”, lei mi invia una poesia di Nina Cassian, “Ti prometto di renderti talmente vivo che/ la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili” – mi ripeto che la mia latitanza è la salvezza degli altri – la chiesa è una immensa pleura, si muove – ambire al respiro ambivalente – ogni bisogno va esautorato d’attesa per resistere. “Dicono che il soldato che con una freccia perforò l’occhio di San Sebastiano, vide Dio, si convertì all’istante”, continua il frate – dico “Antonio”, lui, ha ottantasei anni, è semicieco, e le dita si muovono nel niente della navata come Ave Maria piantate nel costato del male e dell’orrore – dice il mio nome, lo sillaba con una tenerezza spregiudicata, non aliena alla malizia. “Devi confessarmi la tua assenza o le tue ostinazioni”, mi dice, qual è il suo ordine?, non lo ricordo, sono spretato dalla memoria, quasi mordendomi l’orecchio, non ci vediamo da dieci anni, e dico Veronica, come se ciò bastasse a proteggermi dalle nefandezze dei cristiani, da quella oltraggiosa castità – da fuori, immagino, la pioggia schernisce il campanile, che tuona, come una zanna di mammut nell’ambizione glaciale che fu, neanche troppo tempo fa se compariamo l’algoritmo del ronzio al sinodo equatoriale, la pianura Padana.

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Infine, l’unica confessione è il vomito – creatura di stanchezza, idiozia, ebete vanità. Dov’è Davide? Dov’è Davide?, urla il frate, raspando nel mio vomito, “devi vomitare il tuo io e diventare mio”, dice, galvanizzato, il frate. Il vomito è cardinalizio, sterzato da fiale di sangue, sul pavimento della chiesa – quindi, allampanato d’innocenza, mi siedo su una delle panche, il frate si muove arguendo Dio e dando seguito al caso, mi lecca il mento, il collo, lo spingo, scambia, come tutti, il servizio con la lussuria. Tra attico e sottosuolo, so, non c’è differenza.

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“Tuo padre è morto da trent’anni, quindi smettila, la sua vita non sigilla la tua, tu non puoi riscattare la sua”, dice Antonio – è stato eremita, tempo fa, si capisce da come fa lingua e spola con gli estremi. Mia cugina che piange sul corpo del marito a pendolo, e poi il precipizio di Simone e l’anatema al porto di Marco e la storia di allucinata lucidità di Linda – sono circondato da suicidi. Come se la morte di mio padre abbia spalancato le dighe dei suicidi – i suicidi, a decine, mi sommergono. Il capitolo 2281 del Catechismo della Chiesa Cattolica – l’ho scritto su un foglio – lo srotolo – ho le mani ancora sporche del pantano di Vercelli, del fango di Piacenza e un po’ mi piace essere un reperto geologico di questa fetta di vita – ne faccio una palla di suono da gettare ai piedi di San Sebastiano, del Potente – lo chiamo così, non Signore, come il vicino di casa – “Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente”. Voglio fare inghiottire questo codice al Papa, dico al frate, il suicida non è un sudicio, dico, poi inghiotto quel pezzo di carta come se potessi succhiare il cervello di Dio. Il cristianesimo, però, è aristocrazia della compassione, mi ricorda il frate, “Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida”, blatera, capitolo 2282. E se non c’è altro che togliersi di mezzo, se non c’è che il nulla, nulla di nulla, l’espressione della leggerezza, il niente, la gloria del niente, e se uno ha voglia di uccidersi per valutarne il brivido? Prima che mi risponda ricordo al frate l’etica dei confratelli, ne ho conosciuti tanti, antichi affiliati a Lotta Continua, già assessori in qualche piccolo comune emiliano, che poi, spiazzati dall’egemonia, con desiderio di soldi e di vita facile, hanno preso la tonaca, rifiutandosi di indossarla, però, pagandosi cuoca in chiesa e viaggi in Oriente – uno ha pure aperto un ashram cattolico in India, spietata contraddizione in termini – un altro si cingeva il saio con la bandiera della Palestina – quasi tutti impegnati a ordire ‘capitoli’ – a certi ho partecipato pure io – dove l’ingegno era riuscire a piazzare al miglior offerente gli appartamenti della palazzina di Pesaro oppure le case detenute a Vicenza – il ciarliero desiderio di soldi li corrodevano, correvano nei corridoi come ducetti, alcuni, a cui ancora gli tirava, ululavano i loro beati afrori davanti alle studentesse dei convitti – molte, letteralmente, si chiudevano in camera, minacciando di avvisare i carabinieri mentre il gaudente belava cosa vuoi che possano le forze dell’ordine contro il Signore degli Eserciti e minchiate simili. “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento”, sussurra il frate, capitolo 2283, dice, lo so, e tutto il mio cinismo si sfoga nel pianto, ed è lui, si chiama Antonio, ad abbracciarmi, mentre gli dico “vedi, è così che mi consumo”, è leggero, come una sentenza.

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Veronica – se sapesse di amare un uomo che non si ama, che vuole eliminarsi, che vuole essere l’ombra di un altro, uno sfacciato alimento agli alienati, che cosa potrebbe amare di me? Le tracce di uno che passò, poi preferì l’andatura dei ghepardi.  

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Più tardi, in un giorno avverso alla cronaca, scrivo barlumi di una lettera mai inviata:

“Dalla maceria oscura, fuori dal finestrino, le luci di case, avvisi di città, lampioni laici, sembrano confini d’alba, reclami a nozze.

Su questo treno, destinato a Sud, gli uomini dormono. Non vedi la loro vita, ma i sogni, didattici sulle narici.

Se stiamo uniti, abitati, tu sai che saremo sempre giovani e io avrò il tempo adatto per ornare il tuo silenzio, per dire in fili e sequenze feline la tua voce.

Il nome di una città è una speranza di durata, per questo gli amanti si enumerano, di notte, dandosi una stabilità geografica.

Per paura di sognare te, che affolli le mie giornate, ho sognato tutti i tuoi affetti, gli amici, i parziali. Non conosco niente di te, ma anche così ti porto, immaginando le tue vite passate”.

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L’incubo è esemplare. Il mio difetto è avere fatto scempio di tutto. Saint-John Perse, il poeta, ha amato solo una donna, la ha trasfigurata come Étrangère, ed è rimasto fedele al suo mistero – soltanto molti anni dopo la sua morte, nell’anno in cui ne avrebbe compiuti 100, si è saputo che lei era la bellissima – e maritata – Rosalia ‘Lilita’ Abreu. Io non ho salvato nulla, ho ucciso tutto, scrivendo, alterando il ciclo delle innocenze, rovinando patti, legami, relazioni, senza mezzi, mi hanno maledetto tutti, prima o poi qualcuno, anche il più sano, mi rimprovera ciò che ho scritto, me ne chiede la ragione, non capisce che si incendia per bonificare la terra, che si distrugge perché il futuro sia più solido, che bisogna provare fino al martirio, fino alla profanazione, ogni amore. Ho sognato che ero legato a un tavolo di legno, polsi, caviglie, pancia. Intorno a me, tutti quelli di cui ho scritto nei miei libri, una milizia: ex amici, parenti, mogli, figli, cugini, zii, suocere, colleghi, studenti, preti. Venivano presso di me, incarogniti, e senza parlare, uno mi levava l’unghia, l’altro si pigliava il naso, una strappava una costola, qualcuno il ginocchio sinistro, certi facevano a botte per avere una mano o una arteria, che si muoveva, in aria, colorata, come un cavo elettrico. In risarcimento all’averli citati e sputtanati, si prendevano una parte di me – e io non morivo, assistevo alla lenta scomposizione del mio corpo, smembrato, dissezionato – anche quando qualcuno – forse mia madre – mi ha tirato via gli occhi, continuavo a vedere, abilità onirica. Qualcuno, poi, forse tu, Veronica, riassemblava il mio corpo con pezzi di corpi altrui, cadaveri, e lo legava, udivo, con una preghiera, e ne fui grato.

In copertina: il San Sebastiano secondo Andrea Mantegna, del 1456-57, al Kunsthistorisches Museum di Vienna

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