01 Gennaio 2018

Chi è David Bentley Hart, l’anarco-monarchico – devoto a Tolkien – che ha tradotto i Vangeli negli Usa? Un pazzo o un ispirato? Con appello agli scrittori nostrani: riprendiamoci la Bibbia

Nel 2010 un tipo dalla barba lunga di nome David Bentley Hart scrive su First Things, seriosa rivista newyorkese, d’impianto ecumenico e di fede neoconservativa, un articolo dall’incipit scoppiettante. “Che io sappia, l’unica cosa che avevano in comune J.R.R. Tolkien e Salvador Dalí – dovrei dire, l’unica cosa significativa e inattesa, oltre a condividere altre cose, più comuni: erano maschi, bipedi, umani, famosi e così via – era che entrambi, almeno in un’occasione, hanno detto di essere attratti simultaneamente dall’anarchia e dalla monarchia. Nel caso di Dalí, probabilmente, si trattava di una sentenza senza senso: al di là di frasi di circostanza del tipo ‘Passami il burro’ oppure ‘Questo ti costa un sacco di soldi’, il pittore preferiva rinunciare alla comunicazione con gli altri. Ma Tolkien, in un suo modo irrequieto, dava voce alle sue più profonde convinzioni riguardo a una forma ideale di società umana”. L’articolo s’intitola Anarcho-Monarchism, cioè ‘anarcomonarchia’, giostra le sue effervescenti ipotesi intorno a una lettera inviata da Tolkien al figlio Christopher, nel 1943 (“Le mie opinioni politiche si fanno sempre più prossime all’Anarchia – filosoficamente intesa, cioè l’abolizione del controllo operato da uomini armati di bombe – o alla Monarchia ‘incostituzionale’. Arresterei chiunque usi la parola Stato…”), proponendo “la libertà dell’illusione” come sale per un mondo politicamente migliore. L’articolo incuriosì molti: nel 2010 eravamo all’alba dell’‘era Obama’ e un tizio che aveva appena fatto fortuna con un saggio, Atheist Delusions (2009), in cui dichiarava che l’origine dei mali del mondo inizia con la separazione della Chiesa dallo Stato, diceva una cosa anticonformista. Più che un Presidente degli Stati Uniti con il pollice premuto sulla bomba atomica e con il sorriso buonista sparato in telecamera, gli esseri umani hanno bisogno di un re. Un re che permetta agli uomini di fare ciò che vogliono, per realizzare i propri talenti. Insomma, un re illuminato. Lasciamo perdere gli esiti teorici – siamo sul red carpet dell’astratto – ciò che c’interessa, ora, è ammirare la ‘carriera’ del barbuto David Bentley Hart. Insegnante alla University of Notre Dame, David si professa cristiano ortodosso e teologo, ha studiato Massimo il Confessore, il massimo pensatore bizantino vissuto nel VII secolo, per, dice lui, “correggere la storia dell’Essere compilata da Martin Heidegger”. Insomma, David è un tipo dalle ambizioni celestiali. Dopo un cursus honorum costellato da saggi di divulgazione religiosa – ha funzionato bene The Experience of God, 2013, un assalto al nichilismo contemporaneo e al liberalismo capitalista – David porta a termine, sul finire del 2017, l’opera somma. La traduzione del Nuovo Testamento. Ammantato da una marmellatina di umiltà – “redigere una nuova traduzione del Nuovo Testamento è probabilmente una avventura folle” – del tomo, The New Testament. A Translation, edito dalla Yale University Press (pp.616, $ 35.00), a suo modo epocale, hanno parlato in molti, e con facile gioco: c’è chi dice che mastro David sia un genio e chi che sia ispirato soltanto dal proprio ego, un volumetrico saccente. new testamentIntenzione del “Vangelo secondo David Bentley” – così un articolo suggestivo e favorevole, qui – è quello di svecchiare la lingua biblica, incrostata da “troppi magisteri, scuole critiche, fazioni teologiche e singoli individui colti da idiosincrasia spirituale” e di far risuonare “l’urgenza, la violenza del detto evangelico”, un dettato che non è frutto “di intellettuali o di storici, ma di uomini comuni”. Insomma, mastro David vuol farci percepire il suono ‘croccante’ e rustico della parola di Dio, la spoglia della glassa retorica per ridurla all’essenza, necessaria – direbbe Harold Bloom – perché superbamente narrativa, bella prima che buona&giusta. Gli esempi divertenti sono un mare. Nel capitolo 4 del Vangelo di Matteo, quello della tentazione nel deserto, il diavolo (diábolo alla latina) è reso come Slanderer che sta per il ‘calunniatore’, il ‘diffamatore’, colui che vuole scandalizzarti davanti al tribunale divino. Chi ha voglia faccia il proprio gioco. A me importa un punto. Pur ospitando il Papa in terra nostra, italica, nel recinto Vaticano, ci siamo fatti fottere i Vangeli. Negli States c’è ancora chi, con acume multiplo, riesce a impossessarsi ancora del verbo evangelico, slacciato da ogni intento di mera performance propagandistica. Mettiamoci sotto anche noi. L’esempio, per altro, c’è. Settant’anni fa, era il 1947, l’editore Neri Pozza stampa una delle imprese letterarie più sconvolgenti – e dimenticate – dello stinto panorama letterario italico. Pubblica Il Vangelo assegnando la prosa degli evangelisti a quattro scrittori: Nicola Lisi (Matteo), Corrado Alvaro (Marco), Diego Valeri (Luca), Massimo Bontempelli (Giovanni). Già che c’è, Bontempelli completa il cerchio giovanneo traducendo l’Apocalisse. Il testo è introdotto da don Giuseppe De Luca, fondatore delle Edizioni di Storia e Letteratura, fine letterato e ottiene, nel 1958, l’imprimatur di Giuseppe Angelo Roncalli, allora patriarca a Venezia, tre settimane prima di diventare papa Giovanni XXIII. Perché non ricostituire una ‘squadra’ simile, senza abbandonare la Bibbia agli sbuffi gnostici – per quanto fascinosi – di Guido Ceronetti o alle moine rusticane di Erri De Luca, troppo parziali per essere davvero appetitose? Appello per il nuovo anno agli scrittori e ai poeti di buona volontà: ci mettiamo a ri-tradurre la Bibbia da par nostro, con la violenza dei senzadio, con l’umiltà dei benedetti dal linguaggio? Fate un fischio.

Federico Scardanelli

Gruppo MAGOG