06 Luglio 2020

“La nostalgia per il fallo artificiale”. Stefano D’Arrigo e il romanzo – folle – sull’ermafrodito, “Cima delle nobildonne”. Introvabile

Nel 1984 Citati già in odore di santità vinse lo Strega con un libro dove spiegava come Tolstoj costruisce a blocchi le pagine di Guerra e pace. Per rifarsi, l’anno dopo il Ninfeo di villa Giulia premiò un libro più estroso, L’armata dei fiumi perduti di Sgorlon. La simpatica coincidenza è che sia Citati che Sgorlon erano scrittori di formazione letteraria. Ulteriore coincidenza, avevano entrambi la fedina sporca avendo studiato alla Normale di Pisa.

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In quel giro di boa anni Ottanta un altro scrittore di formazione accademica, Stefano D’Arrigo, stava precipitando in un piccolo capolavoro. Quando venne fuori nel 1985, Cima delle nobildonne fu accolto dal solito cinema di articoli su giornali e riviste. Ripubblicato da Rizzoli nel 2006, con un lungo saggio di Pedullà che lo precede, ultimo fuoco della legione critica, oggi il libro risulta “non disponibile”: perché? Stefano D’Arrigo, così, resta preda della fera, di Horcynus Orca.

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Cima delle nobildonne, contrariamente a quel che mi disse il direttore prestandomelo, non è il clitoride. Semmai, la placenta.

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Il romanzo breve si compone di tre parti, la prima di otto scene, la seconda di cinque e la terza, ancora, di otto, più distese e caotiche rispetto alla prima metà del romanzo. La storia fila perché è un collage di vicende. Quella principale dà il titolo al romanzo: un emiro visita una clinica con le sue tre mogli per farsene eccitare, sì che venga preso lo stampo del suo fallo e su questa misura si scavi un tunnel in un ermafrodito, Amira, creatura di limbo.

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Cito.

Nella rapida occhiata che Belardo gli aveva fatto dare, gli era parso sulle prime che la valigetta contenesse dei grossi sigari, stranissimi, di colore bianco. Poiché adagiati non offrivano interamente alla vista la caratteristica testa, ci aveva messo qualche momento a vedere che non si trattava di sigari ma di falli, di una mezza dozzina di falli in latex, disposti secondo una scala di misura, da -12 a +24, scientificamente studiata dalla Scuola di Zurigo, come diceva la didascalia sotto la confezione. (…) L’emiro girò gli occhi sulle mogli con l’aria di cercarne fra di esse una in particolare, e quando la ravvisò, si fece seguire da quella sola. (…) La prescelta dell’emiro doveva conoscere meglio delle altre il segreto di come mettere in confidenza un uccello rapace, tanto da tenerlo fra le mani e tubarci come fosse un piccione, allisciandogli le piume e dandogli bacetti sulla testa, arrivando a un punto in cui, a quella specie di regale uccello delle vette, dava l’illusione di volare, senza aprire penali, il suo volo più alto e più ebbro.

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La placenta da cui parte l’operazione per D’Arrigo è, lontana da ogni intenzione retorica, un monumento dell’intuizione umana, monumento all’imprinting. (…) Tentiamo di cancellare ogni traccia, persino ogni ricordo del suo passaggio, ogni traccia, ogni ricordo della parte da lei svolta, parte di premadre, nel creare una creatura.

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Ecco invece come scavano nell’ermafrodito per costruire la neovagina.

Noi potremmo persino andarcene e ritornare quando (fra un’ora? due? di più?) Belardo si tirerà fuori dal tunnel. Un tunnel di tanta delicatezza che non potrebbe mai usare un mezzo come la scavatrice per scavarlo ma, come ha detto, solo i dentuzzi di una talpa, lenti ma non catastrofici. Proprio così, noi potremmo andarcene dall’anfiteatro perché, tanto, l’intervento non subirebbe intoppi. (…) Noi potremo andarcene coi nostri pensieri e pensare, meditare, ricordare, specie se posiamo gli occhi su una persona che conosciamo e che è qui presente. Allora assieme agli occhi poniamo mente, la ricordiamo e ci ricordiamo di noi ricordandola, quando, dove e come il nostro comune ricordo ebbe inizio.

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In questo libro che è tante cose insieme permane il mito della mela di Platone, dell’umanità androgina non ancora spaccata a due, la visione della delusione che trasforma la personalità in torso. Se poi le gemme per così dire ‘filosofiche’ si trovano incurvate e incuneate in una prosa gratuita e splendente, il libro rimarrà infisso nella memoria di chi legge.

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“Di quei momenti lei solo, signor emiro, potrà dire se quello che Amira sente di più è il trasporto per il fallo vero e proprio, il fallo del suo partner, o la nostalgia per il fallo artificiale, per quell’intruso col quale ormai, più che con quello, avrà dimestichezza a stare in compagnia e a convivere. Malgrado questo però la forza del sentimento e la potenza dell’amore operano quasi sempre il miracolo. La neovagina e il suo partner intraprendono due volte su tre una vita matrimoniale molto normale e felice, senza nessun terzo incomodo, senza insomma nessun rischio di fare menage a trois, lei lui e l’intruso, come si potrebbe temere”.

Visto da poco distante l’emiro, incombente dall’alto della sua statura, ascoltava con un’espressione che nemmeno se le parole del piccolo medico plastico fossero stati granelli di sabbia che il vento del deserto sollevava contro i suoi occhi socchiusi facendoglieli lacrimare. 

Andrea Bianchi 

 

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