23 Marzo 2020

“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Con Dario Bellezza nel “caos miserabile” della vita

La distruzione è l’unico movimento dell’eterno.
Prendere lucciole per lanterne non serve a niente,
s’inganna solo se stessi. Meglio, molto
meglio inghiottire i bocconi amari, ascoltare
le folli sirene decadute nel mare grondante
del sangue stinto di feroci umani,
cantare la trista canzone dei posseduti
dalle maternità senza parto possibile,
che coltivano l’angoscia come prezzemolo
nel loro privato vaso privilegiato,
dove l’orina monta le scale della pigrizia,
travasa, scivola piano verso il letto
profanato come un sudario
dalla sporcizia dei corpi, dal seme
seccamente sprecato nel desolato amore,

ricovero degli animosi non cresciuti,
rimasti eternamente bambini,
ostilmente amici delle loro madri
senza incesto, a piangere la loro
equivoca sterilità, il loro coraggio
degradato a passare per diversi,
nel caos miserabile dell’ingiusta totalità.

Dario Bellezza

da Invettive e licenze, Garzanti, 1971

*

Bisogna pensare all’impatto che ebbe un poeta come Dario Bellezza al suo esordio. Non soltanto perché quel suo primo libro, Invettive e licenze, fu battezzato da Pier Paolo Pasolini, che già lo annunciava (con una lungimirante intuizione critica) come il miglior poeta della nuova generazione, quella dei nati negli anni Quaranta. La questione è un’altra e più rilevante. Era il principio degli anni Settanta, e l’egemonia culturale era quella della neoavanguardia. Lo stesso Pasolini si era opposto a quel gruppo, scrivendo feroci articoli e saggi. In Empirismo eretico sentenzierà: «le avanguardie di oggi conducono la loro azione antilinguistica da una base non più letteraria, ma linguistica: non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori. La loro non è una protesta contro la tradizione ma contro il Significato». Il contesto, anche culturale, in cui appariva Bellezza era evidentemente ideologizzato. Per questa ragione Invettive e licenze rappresentò prima di tutto una possibilità nuova per la poesia italiana, una poesia che rischiava di restare impigliata nel suo canto funebre. Quella possibilità era soprattutto la riscoperta di una lingua avulsa da qualsiasi legame con un impegno politico, e meno che mai costruita nell’asettico laboratorio del significante. La lingua di Bellezza si presentava come un corpo nudo – la carne sporca per una notte di sesso o più spesso di masturbazione –; Bellezza stesso era la sua lingua: un «Amleto» che smaschera la morta coscienza della borghesia. Ma non era, Bellezza, un nuovo Pasolini, con il suo “corpo gettato nella ressa” per il sogno di ritorno a un mondo contadino e arcaico e libero dal “consumo” e quindi con una sottesa volontà pedagogica, che poi significa una volontà a voler essere padre, anche padre di una Nazione. Bellezza fu invece eternamente figlio e cosciente di non poter essere altro, per questo parente, ma un parente profondamente italiano, di Baudelaire e Rimbaud (fuori però da ogni banale maledettismo – e si legga l’importante monografia che ha scritto di recente Colasanti, Dario il grande, per comprendere il valore reale di questo poeta). Bellezza aveva già accettato la distruzione, e nell’accettazione giocava col suo narcisismo sfrontato e ribelle. Ma è in quella consapevolezza della distruzione che cerca il suo canto – un canto sempre disincantato, perché già conscio che sia inutile illudersi, «prendere lucciole per lanterne». Eppure, in quella distruzione, Bellezza sente che è possibile vivere; vivere eternamente in quello spazio di immaginazione e distruzione che è la lingua della poesia. Che in quella distruzione esistono e appunto vivono creature che non possono crescere, dannate alla loro sterilità, in cui il seme è pura e stanca dissipazione. Creature che sono figli orfani e madri «senza parto possibile» – e madri impossibili, a cui chiedeva ferocemente e disperatamente amore, Bellezza ha cercato per tutta la vita (basti immaginare il rapporto esasperato che ebbe con Elsa Morante, e quello poi successivo, meno impetuoso, con Anna Maria Ortese). Poi giunse la malattia, l’AIDS, con la quale convisse per nove anni, fino alla morte nel 1996. Nella raccolta del ’94, L’avversario, in una poesia scriveva: «Autobiografia solenne  […] non morire, rispetta/ il mio gioco d’infinito». Questo per dire quanto per Bellezza la poesia sia stata, nella consapevolezza della distruzione, una vita possibile – la sola possibilità di salvare la vita.

Andrea Caterini

*

La poesia di Dario Bellezza è figlia di Leopardi e di Rimbaud, ma anche di Catullo e di Saffo. I due poli tematici entro cui si muove sono l’erotismo e la morte. È una poesia ontologicamente “giovane”, romantica, di grande energia vitale, ma anche di angoscia e di terrore per l’ineluttabile. Immagini sublimi s’intrecciano a immagini “basse”, da “ragazzi di vita”. Raffinatezze icastiche si amalgamano a cronachismi diretti, maledetti. Dario Bellezza è l’espressione massima, insieme a Sandro Penna, della “flânerie” romana. Ma mentre Penna scriveva per sottrazioni e limature, Bellezza scriveva per accumulo, non disdegnando moti “impoetici” come lo sfogo, l’invettiva, il lamento, la confessione immediata, il diarismo. Questo scarso controllo sui versi ha reso la sua figura massimamente amabile, poiché scoperta, contaminata, fraterna in quanto discontinua e claudicante. Bellezza non superò mai l’assedio di eros e thanatos, e fino alla fine fu agito da queste due nevrosi, che danno una sostanziale unità tematica e stilistica alla sua opera. L’aspetto più dirompente della poesia di Bellezza, che si diffuse rapidamente a partire dai primissimi anni ’70 del secolo scorso, fu l’esibizionismo, talvolta provocatorio, dell’io, uno scrivere confessionale a partire dalle proprie vicende private che fu una salvifica boccata d’ossigeno per una poesia che in quegli anni tendeva a rimuovere l’io e a trovare forme di poesia più oggettive, scientifiche, ideologiche. Fu la parola “io” la rivoluzione di Bellezza. Nel mentre in ogni dove infuriavano lotte e terrorismi politici, Bellezza coltivava l’ossessione per la morte e il movimento interiore della distruzione, ed esibiva – con stati d’animo alterni: rabbia, dolore, estasi, delusione, ecc. – un desiderio erotico totalizzante, ora in direzione sublime, ora in direzione “bassa”, da suburra. Si faccia caso proprio ad alcune immagini di questa poesia:«l’orina monta le scale della pigrizia»; «dalla sporcizia dei corpi, dal seme / seccamente sprecato nel desolato amore». In fondo Bellezza smascherò l’ipocrisia della Neoavanguardia, perché attraverso l’esibizione di sé – e richiamando in servizio permanente, sia pure con impeto a volte adolescenziale eros e thanatos – mostrò tutti i limiti di una poesia che nel mentre demoliva il sentimentalismo della poesia ermetica si autocensurava sentimentalmente, condannandosi all’aridità o, nella migliore delle ipotesi, a una durezza dissacrante e demolitoria, censoria e autocensoria. Con Bellezza siamo nel “caos miserabile” della vita, in un vitalismo bastonato, ferito, frustrato, pornografico e mistico, pieno di desideri e cadute, di estasi erotiche e di angosce devastanti. Ma siamo anche in una poesia romantica, finanche “puerile”, ma sempre coraggiosamente risucchiata nel tragico, che espresse con versi tra i più commoventi e solenni della sua generazione. È vero sì che fu anche poeta di moine e di umoralità mal governate, ma la sua poesia rimase coerentemente fedele a una vocazione poetica confessionale e diretta, e a un’idea di ispirazione tutta ottocentesca, di poeta rapito da sentimenti tumultuosi per eccesso di disponibilità verso la “vita bassa”, i corpi, l’amore, a cui si esponeva senza difese. Un poeta eternamente giovane, Bellezza, che avrebbe trovato indecente invecchiare, e che morì guardando fino in fondo negli occhi i due miti (le due nevrosi) che segnarono interamente la sua leggendaria e indifesa esistenza: la morte e l’erotismo.

Andrea Di Consoli

*In copertina: Dario Bellezza (1944-1996) in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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