03 Settembre 2020

“Come odio tutti questi rimatori con le loro rime, le loro glorie, le loro vittorie, i loro usignoli, i loro prati! Ma se parla Dante, è puro come la natura…”. Pensieri danteschi: da Étienne Gilson a Delacroix

I nove saggi di Étienne Gilson su Dante e Beatrice, pubblicati per la maggior parte nel 1965, in vista del centenario della nascita di Dante, confermano la ottima qualifica del loro autore come interprete del Medioevo. Non fu un caso che Paolo VI, in una lettera a lui destinata e datata 8 agosto 1975, volle tessere una lode intorno al suo «sguardo di filosofo e storico». Le questioni sollevate da Gilson nel complesso di questi saggi danteschi sono le seguenti: innanzitutto, c’è il problema dell’incompiutezza del Convivio; poi, del come sia possibile che nell’aldilà i morti si palesino con una qualche sorta di corpo, acciocché siano ammessi alla beatitudine dei sensi o condannati alla pena di questi; ci si chiede se il pensiero dantesco risenta di alcuni influssi platonici; altra questione è la prudenza del poeta nell’uso della parola “empireo”, riferita al “non-luogo” del cielo di Dio, laddove siedono i beati; si prende in esame Dante come mediatore tra le due culture antagoniste del Medioevo, quella dei grammatici e quella degli scolastici; viene posta in discussione l’autenticità dell’Epistola a Cangrande; il sesto saggio riguarda l’ultimo capitolo della Vita Nova; nel settimo si onora Dante come tipo d’uomo del Medioevo e non già dell’Umanesimo; viene affermata la natura autentica del suo amore per Beatrice, di contro a quanti lo riducono a mera finzione letteraria; in chiusura abbiamo uno spazio dedicato alle riflessioni di Eugène Delacroix sulla Divina Commedia.

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Beatrice

«L’amore cortese si distingue già dall’amore volgare per una importante differenza. Non è subito, è cercato, voluto e sfruttato come fonte di valore. Non si potrà confondere l’esperienza comune della sazietà che segue il soddisfacimento del desiderio con la risoluzione di vietare al desiderio qualsiasi soddisfazione per mantenere l’amante al sommo di un’esaltazione da cui trae il suo valore e la sua forza. Come il cavaliere serve una dama per meglio battersi, il poeta ne ama una per meglio cantare, cosicché invece di essere un semplice accidente, l’idealizzazione dell’amato da parte dell’amante diviene qui il mezzo coscientemente voluto di un fine superiore a quello del desiderio» (Étienne Gilson, La scuola delle muse, Medusa, 2007). Stabilite queste premesse, si deduce che la morte di Beatrice abbia fatto di lei una musa perfetta, in quanto avrebbe permesso a Dante di eliminare lo scarto, sempre imbarazzante, tra la persona della propria immaginazione e la persona reale. Più “fortunato” in questo di Petrarca, anche per essersi risparmiato il dispiacere di vedere la sua diletta deperire nel corso degli anni, Dante non abbisognava di altro che di un femminile ispiratore, di un’Afrodite celeste cui rivolgersi. C’è da dire tuttavia che già in vita la nostra “beatificante” si prestava egregiamente al ruolo di musa, sigillata com’era nella campana di vetro della sua purezza. Del resto l’inaccessibilità è conditio prima di un amore longevo e, nella fattispecie, di quella “comunione spirituale trascendente” che, in senso più che platonico (Dante e Petrarca sono pur sempre riconosciuti, in poesia, come i traduttori cristiani dell’eros platonicamente inteso) si instaura nel caso dell’amore cortese.

Aprendo la Vita Nova sul primo incontro con «la gloriosa donna» della sua mente, Dante vuole celebrare Beatrice come la fonte stessa della sua arte. Il maestro Gilson, analizzando il passaggio dalla Vita Nova al Convivio e dal Convivio alla Commedia, parla di una vera e propria “trilogia per Beatrice”. Ma come avrà fatto, l’uomo Dante, a far scaturire poesia dalla Fisica di Aristotele? «Non è forse una specie di miracolo? È come far scaturire acqua da una roccia». La risposta è a dir poco sorprendente: al fine di ritrovare la sua amata, il poeta si immerge per trenta mesi nello studio della filosofia e della teologia, insomma, la cerca lì dove è, nella struttura dell’altro mondo, tra gli angeli, i santi e i beati, e insieme cerca la felicità, «una felicità che il solo riso degli occhi (di lei) basta a dare». La dimensione dello sguardo occupa una posizione centrale nell’immaginario dello stil novo. Ogni qualvolta il poeta compia un’ascesa da un cielo all’altro, ecco che il suo sguardo si posa su quello dell’amata. E ancora: nel terzo giro della candida rosa, Beatrice condivide la grazia del ristoro con due personaggi veterotestamentari: la matriarca Rachele (moglie di Giacobbe) e sua sorella Lia. Nel canto XXVII del Purgatorio, Lia e Rachele vengono accolte dal sonno di Dante in una visione. C’è Lia che impegna le mani nell’inghirlandare trame fiorite con cui adornarsi, mentre Rachele osserva fissamente i suoi propri occhi allo specchio. «Per piacermi a lo specchio», dice Lia, «qui m’addorno; / ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto il giorno. / Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga / com’io de l’addornarmi con le mani; / lei lo vedere, a me l’ovrare appaga». Come si vede, l’una è tutta dedita alla vita pratica, l’altra alla vita contemplativa. La vicinanza di Rachele a Beatrice teologa e santa vuole essere, ebbene, proprio un accostamento di una delle fondatrici del popolo d’Israele a quella bambina di Firenze che Dante incontrò all’età di undici anni. Un’immagine ancor più suggestiva e divenuta celebre, è quella del sogno descritto nel primo sonetto della Vita Nova, un sogno avuto dopo che Beatrice si rivolse a lui in segno di saluto: dorme quasi nuda tra le braccia di Eros, Eros che pronuncia parole confuse (eccetto la frase “Ego dominus tuus”) e la costringe a mangiare il cuore infiammato del poeta. Trasportato dalla sua dolce ossessione, Dante procede dal sensibile all’intellegibile, dall’essere parziale all’essere totale, presentandosi né come «un santo, né un contemplativo, né un mistico elevato dalla grazia a esperienze straordinarie» bensì, senza falsa modestia, come un poeta religioso votato alla bontà e alla bellezza. «Ma il filosofo e il teologo non saranno contenti. A loro non interessa vedere la bellezza e gioire della bellezza, bensì vedere la verità e gioirne. Ciechi che non sanno cosa sia la poesia! […] Andiamo, filosofi! Andiamo, teologi!, dice il poeta, rilassatevi un po’, lasciatevi andare un momento, lasciate fare. Capite la verità, certo, ma per una volta, invece di comprenderla per saperla, cercate di comprenderla per goderne».

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L’Impero, la grammatica, la Scolastica

È risaputo che al tempo di Dante la città di Firenze e la stessa Italia vedevano opporsi le diverse fazioni dei guelfi bianchi, coloro che avrebbero affidato all’Imperatore l’incarico di promuovere l’unità del popolo, e dei guelfi neri che, con la medesima richiesta, facevano appello all’autorità del Papa. Come esponente di una piccola famiglia nobile decaduta o dell’alta borghesia, Dante era tenuto a prendere le parti per l’una o per l’altra frangia. Optò per i bianchi e la scelta gli valse la condanna all’esilio, poiché la maggioranza dei cittadini e la classe dirigente accusavano di tradimento chiunque osasse schierarsi in favore dell’Imperatore Enrico VII. «Non chiese la grazia, perché la volontà di Dante era inflessibile quanto la legge cittadina. Non accettò mai nessuna delle condizioni delle offerte di amnistia che gli vennero fatte». Piuttosto «vagò di corte in corte, ottenendo dai principi vari incarichi provvisori». Non cadiamo nell’equivoco di ritenere che Dante non amasse Firenze. Il punto è che una «lettera fulminante» da lui dedicata agli avversari fiorentini servì a farsi mandare definitivamente fuori gioco. Fu così che il poeta dovette rinunciare alla realizzazione del sogno di una Firenze collocata nel disegno di una «società universale di un impero mondiale dove tutti gli uomini si uniscono sotto l’autorità di un solo imperatore come, d’altra parte, tutte le anime dovevano unirsi sotto la guida spirituale di uno stesso papa». Da questa spiacevole esperienza deriva l’impulso alla stesura della Monarchia, un capolavoro di filosofia politica, e l’incontro con il sapere della Scolastica presso l’Università di Parigi.

Prima ancora ci sono stati gli studi alla scuola di grammatica “di vecchio stampo”. La grammatica di Quintiliano gli rivelò Virgilio e l’Eneide, cui Dante deve il suo “bello stilo” e il colmamento di una lacuna immaginativa nella progettazione della Commedia, per quanto, dice l’autore del saggio, egli fosse molto più vicino a Omero, pur senza aver mai letto l’Iliade o l’Odissea in vita sua. Enea che porta sulle spalle il padre Anchise simboleggia la fatica impiegata per la fondazione di Roma, e Gilson si chiede se la vocazione del popolo romano fosse proprio l’Impero. Il nostro poeta ne era certamente convinto. «Tu, romano, ricordati d’imporre ai popoli il tuo impero; la tua arte sarà di far regnare la pace tra le nazioni, risparmiando i vinti e abbattendo i superbi (parcere subiectis et debellare superbos)» (Eneide, VI, 851-853). Quanto al Cigno di Mantova: «Dante fu conquistato, una volta per tutte, dall’ideale di un vasto componimento letterario e di uno stile epico, ampio e flessibile come la vita, capace dei voli più arditi come delle andature più familiari, ma soprattutto diretto, fermo e tale da rifuggire le convenzioni affettate del sentimentalismo. Dante non resiste mai al richiamo della grandezza nella semplicità». La formazione basata sulla cultura umanistica, sulla grammatica e sull’eloquenza gli venne impartita da Convenevole da Prato; allora le scuole italiane di grammatica offrivano una formazione intellettuale completa, al contrario di quanto avveniva in Francia – si pensi alla decadenza delle scuole di Chartres (Giovanni di Salisbury riferisce che per una crisi dell’insegnamento senza precedenti le aule dei migliori maestri erano ormai vuote). Gilson definisce questa crisi «un conflitto simile a uno di quei ricorsi di cui parlava Vico che periodicamente oppongono i sostenitori dell’insegnamento classico e quelli dell’insegnamento moderno, o, come si dice anche, degli studi umanistici e di quelli scientifici. Per capire cosa sia avvenuto bisognerebbe abituarsi a pensare che allora era considerato “moderno” il tipo di cultura intellettuale da cui sarebbe nata la Scolastica».

Per una scelta personale, Dante decise di alimentarsi criticamente della cultura che proliferava nello Studium di Parigi. Siamo nella fase dei famosi “trenta mesi” che lo resero un esperto di filosofia e teologia. Theologus Dantes nullius dogmatis expers. Nell’epistola a Cangrande, autentica o meno che sia, il giovane avrebbe fatto intervenire alcune nozioni di esegesi biblica che gli sarebbero servite per la stesura della Commedia. Fa riferimento alla varietà dei sensi con cui è possibile interpretare la Scrittura, da quello allegorico a quello anagogico, morale e letterale. Per i posteri si pone dunque il seguente problema: «Una volta abbandonata dal padrone, divenuta orfana, l’opera si trova consegnata senza difesa alla folla dei lettori anonimi, non molto pericolosi, ma anche all’élite dei commentatori, che lo sono ben più. Comincia allora una vita postuma, cambia aspetto, spesso anche senso, insomma, come si dice, evolve, senza che l’autore abbia il potere di intervenire a ristabilirne il senso. Forse è meglio per lui, perché oggi non mancano storici e critici in grado di rivendicare in nome della scienza il privilegio di detenere, più dello scrittore stesso, il vero senso di un’opera. Più l’artista è grande, più è esposto a sventure postume».

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Dante e Delacroix

In una riflessione che Eugène Delacroix affida al suo Diario, il pittore non nasconde di sentirsi in profonda comunione con il poeta Dante. L’elemento comune che sussiste fra i due è rintracciabile soprattutto nel disprezzo per “le cose di moda”, giudicate da entrambi volgari e velleitarie. Possiamo dire, per una serie di motivi, che Dante fu per Delacroix ciò che Virgilio era stato per Dante. «Una certa idea alta dell’arte e della sua nobiltà seduceva Delacroix nella Commedia un po’ come aveva sedotto Dante stesso nell’Eneide. […] lo si vede il più delle volte in cerca di qualche aneddoto che serva da pretesto alla pittura. Dante poteva servirgliene all’infinito, ma Delacroix gliene ha presi in prestito solo un piccolo numero e non è principalmente questo che cercava nella Divina Commedia. Il pittore chiedeva al poeta non tanto dei soggetti pittorici quanto una certa grandezza di tono e di stile che lo elevava dall’aneddoto all’arte. […] il fatto è tanto più interessante perché implica una trasposizione dell’arte della scrittura all’arte della pittura». Nel diario del 9 maggio 1824 un insoddisfatto Delacroix se la prende con i poeti in generale, tranne uno: «Come odio tutti questi rimatori con le loro rime, le loro glorie, le loro vittorie, i loro usignoli, i loro prati! Quanti ce ne sono che hanno veramente dipinto ciò che un usignolo fa provare? E tuttavia i loro versi sono pieni solo di quello. Ma se ne parla Dante, è puro come la natura, e si è sentito solo quello». Altro che «“cip cip”, frullò, trillò la capinera» (Luciano Folgore, Poeti controluce, parodia di Giovanni Pascoli). Delacroix rende omaggio a Dante come fosse il primo tra i poeti: «Quanti hanno dipinto l’amore? Il Dante è veramente il primo dei poeti. Si rabbrividisce con lui come davanti alla cosa. Superiore in questo a Michelangelo, o piuttosto diverso: perché quest’ultimo è sublime, ma non grazie alla verità. Come colombe adunate alle pasture ecc. Come si sta a gracidar la rana ecc. Come il villanello ecc., ed è quello che ho sempre sognato senza riuscire a definirlo». Non si tratta del “sublime trascendente” di Michelangelo, sostiene Gilson, ma del sublime «sul modello della natura, quello della realtà». Non vi sono usignoli nel contenuto della Commedia, ma il pittore potrebbe fare riferimento all’uccel che a cantar più si diletta del canto XVII Purgatorio. In un altro passo del diario Delacroix racconta di essersi fatto leggere un canto in italiano mentre dipingeva La barca di Dante, ammettendo che la lingua francese «si presta difficilmente alla traduzione di poeti completamente naturali come Dante» (egli sapeva bene che la musicalità del poema è altrettanto importante quanto il senso). Ulteriori lavori ispirati all’opera dell’Alighiero sono La giustizia di Traiano, l’Ugolino e la decorazione della cupola della biblioteca nel Palazzo del Lussemburgo.

Lucrezia Giulia Nicotera

*In copertina: Eugène Delacroix, “La barca di Dante”, 1822 

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