Il Poeta contro lo Stato. Ovvero: l’arte è sempre eversiva e custodisce la nostra individualità
Politica culturale
Alessio Magaddino
Un’idea di giustizia distributiva, equa; l’idea che tutto tornasse, come in un circuito chiuso, e ne marcasse il senso attraverso un significato, coerente, preciso, congruo. Che, addirittura la sostanza del mondo fosse immanente, nessun principio o Dio esterno, nessuna trascendenza, tutto rimane e torna a sé: come del resto il tempo. Non una linea retta, da A a B, con inizio, progressivo sviluppo e fine. Ma un cerchio, dove la fine coincide con l’inizio e dove tutto torna, se non identicamente, in forme molto simili, tali per cui il presente e il futuro non differiscono dal passato.
Non dovrebbe stupire – e infatti non lo fa – la vittoria del Movimento 5 Stelle alle politiche. E, che non venga frainteso, non perché il Partito Democratico abbia seppellito troppo spesso la polvere sotto il tappeto o perché, come dicono molti detrattori ha aiutato le banche, oppure perché ha portato avanti una legislatura con annessa rivoluzione Costituzionale a colpi di fiducia e gattopardismo, violando nelle forma la democrazia. Sarebbe bene ricordare che, essendo la democrazia espressione di pura forma, come lo è la poesia, qualora questa venga calpestata ci si ritrova in mano con un arnese inutile e obsoleto. Proprio quello che speravano gli arditi grillini: un becchino che accompagnasse all’ingresso del cimitero quello che rimane della forma della democrazia. In questo ricordano i Giacobini francesi, ma ancor più i bolscevichi russi del ’17, anche se erano meno in proporzione sulla popolazione, ma più tranchant, in opinione dello scrivente. Ai più preoccupati, potrebbero pure ricordare i 30 tiranni che per poco detennero il potere ad Atene dopo la illuminata democrazia di Pericle. Giova ricordare a costoro, che la loro vita fu breve assai, e poco proficua.
Ma se la Storia porta in dote una maggioranza a 5 Stelle, particolarmente in uno European Swing State come l’Italia, occorre aprire bene occhi e orecchie e farsi qualche domanda. Un esercizio pratico? Forse più una ginnastica catartica, di quelle che servono a comprendere, a contemplare. Che, come dice Aristotele, è la forma più alta della vita. Superiore, addirittura a quella dell’azione politica.
È inutile, se non disonesto, definire in termini patologici l’avvento del populismo in Italia. Non aiuta la comprensione, infonde veleno, crea ectoplasmi e sovrastrutture fuorvianti e false. E poi, che cosa è populismo, semanticamente? Nulla, una stronzata di natura radical chicchista. Una parola appartenente al linguaggio politico: ovvero, una parola vuota grazie alle quale è possibile additare il nemico – figura nata dal crollo mitologico e insieme decadente della figura dell’avversario – di tutto ciò che fa, o non fa. E’ un nulla perché non ha topos, non ha identità, non ha un contrario, dunque non ha neppure un significato.
Il populismo è un movimento senza reti di connessione coerenti, è una massa informe senza capo, una categoria senza riferimenti politici, uno sciame senza classe dirigente, o peggio, senza idea di futuro. Questo può essere il principio di una definizione, ma potrebbe essere un nulla al pari della parola stessa, se includessimo, per intenderci May e Berlusconi. Ma non facciamo nomi, qui, in Pangea. Qui parliamo di idee. Il populismo ha radici ben evidenti nella sociologia e nella Storia, al netto di tutte le possibili elucubrazioni filosofiche. Inizia, ed è meno di un feto, con l’atomizzazione della società, cavalcata dal capitalismo imperante e dalla finanza cieca e brutale, che per anni abbiamo creduto essere lo specchio della brutalità della natura, sublimata in strumenti finanziari incomprensibili e feroci e numeri che viaggiano a velocità scattanti. Una finanza cieca e irrazionale, come la Volontà di Schopenhauer, nella sua cruda geometria calcolante, differentemente. Una finanza elevata a dogma, prima, e religione, poi, in nome di un darwinismo sociale che ha soppiantato prima valori cristiani, come la fratellanza, poi principi illuministici, come la solidarietà ed infine, sentimenti umani, come la generosità. Fino a diventare la maschera di sé stesso e il simbolo di un perversione istituzionalizzata. Una perversione che si è fatta sociale prima e culturale poi, e infine totalizzante: tale per cui chi non ne fosse pervaso venisse respinto ed emarginato. Finanche deriso. Ricardo e Adam Smith, padri nobili (e in buona fede) del liberismo lo sapevano benissimo. L’economia, che non è un semplice concetto inerente al denaro, ma un concetto di derivazione greca che significa grossomodo allocazione di risorse per perseguire un fine, crea sempre – sempre, impossibile escluderlo – vincitori e sconfitti: in termini usi all’establishment, winners and losers.
All’interno di una buona politica, dunque una politica che riesca a governare l’economia, sarebbe buona conduzione cercare sempre un buon equilibrio tra chi in società e un winner o un loser. E se i winner – perdonino la tautologia – vincono da sé, i loser vanno tutelati. La nascita del ils-disant populismo è inversamente proporzionale alla ricerca di tutele sociali per i loser: il decadimento dello stato sociale, a destra o sinistra che sia. E non è un caso. Il periodo è quello tra l’insensata crociata vietnamita e il primo picco di inflazione a inizio anni ’70. Il privato dovrà prendere e guidare l’iniziativa, sganciato dalla sua funzione sociale – percepita nella patria regia del capitalismo, gli States come un rigurgito della disciplina di quel nemico dello Stato che è Marx.
E poi lo dice Piketty, non me ne vogliano i puristi fighetti dell’economia per l’utilizzo di una fonte così pop, i salari, ovunque nell’Occidente e particolarmente negli Stati Uniti, rimangono stagnanti. Bassi, fermi. A differenza del Capitale e delle sue rendite, che divengono prima prevalenti, poi fameliche. Ora cannibali. Ma questo era tutto in Hyman Minsky, alle contraddizione interne del capitalismo: ma le campane dell’avvertimento anche se suonavano, non suonavano per tutti – e forse non erano abbastanza rumorose. Le contraddizioni interne del capitalismo, unite al rigetto della funzione sociale, hanno prodotto nel corso di 40 anni una dimensione sempre più ampia di loser. Loser accomunanti dal solo fatto individui isolati, dunque inermi.
E mentre nei palazzi, nelle università, nei corridoi del potere si faceva sempre più forte (e totalizzante) una istruzione dogmatica basata sul libero commercio (che di libero non ha nulla), sulle economie di mercato e la democrazia, una istruzione completamente avulsa dalla realtà, questa realtà diventava sempre più fragile. Quella stessa istruzione che pone il PIL come mantra e il surplus commerciale come paradiso; la stessa che fomenta la competitività pungolando, forse, gli istinti più bassi del genere umano. E intanto Nietzsche e il suo Ubermensch, fatto di gloriosa prodigalità e abbondanza, si facciano fottere.
Lo delinea in maniera chiara Vittorio Emanuele Parsi su queste pagine e sul suo ultimo libro, Titanic: il naufragio dell’ordine liberale (Il Mulino, 2018): una spaccatura verticale, da una parte, tra alta tecnocrazia, la classe politica dei winner, che sostiene i winner, li legittima e che si fonda su nozioni scientifiche, che non possono essere errate, a sostegno della competitività e della crescita circoscritta e autoreferenziale; dall’altra tra il basso populismo, la voce degli esclusi, che ha poca attinenza alle realtà dell’establishment e con i numeri del neoliberismo. Il diabolico perseverare, dopo l’umano errare, è stato coprire con un velo di cartapesta il sobbollire della rabbia sociale, tacciandola come una manifestazione sparuta e avvelenata di qualche riflesso contingente, di errori comprensibili interni a un quadro glorioso, a volte come stupidità o incompetenza (come se la fame e altri bisogni primari avessero razionalità).
E dopo il diabolico perseverare, dopo la cecità vi è solo l’affronto: affronto agli Dei, per tracotanza. Sfida per eccesso e boria, un ratto contro un leone, un uomo contro l’ordine incontrovertibile delle cose, poiché tutto torna a sé stesso. La Hybris. Tagliagole alle porte dionisiache di Troia.
La sinistra, il movimento del popolo, dell’ultimo, la cultura politica che crede nel progresso individuale e in quello sociale, nello sviluppo della personalità e della libertà, si è fatta animale domestico. La sinistra, ed è difficile spiegare come e quando, è diventata la stanza del conservatorismo. Questo è lo schiaffo agli Dei, la decapitazione delle statue di Dioniso.
L’eccesso. E dopo, come da copione e come solo un antico potrebbe capire intuitivamente, non può che arrivare la giustizia divina, che non è provvidenza Cristiana, ma equilibrio, compensazione di un circuito chiuso: Nemesi. A mettere tutto a posto.
È tutto lì, a dimostrazione che non ci possono essere sorprese: i progressisti diventano conservatori e i rivoluzionari diventano progressisti. E tutto si riequilibra come in una scossa di terremoto. Ma non c’è bisogno di prendere paura, quando le faglie si saranno assestate, tutto tornerà come prima. Esattamente come prima, poiché tutto deve cambiare perché nulla cambi.
Jonathan Grassi