Quello che davvero ossessionò Fëdor M. Dostoevskij per tutta la vita non fu esattamente l’esistenza o meno di Dio, come scrisse egli stesso in più di un’occasione. Piuttosto: fin dove può spingersi la libertà dell’uomo? Ed era una domanda strettamente connessa all’esistenza di Dio, se il suo personaggio più tormentato e più discusso dalla critica e dalla filosofia, Ivan Karamazov, il vero protagonista dell’ultimo grande romanzo, I fratelli Karamazov, pubblicato pochi mesi prima della morte, avvenuta nel gennaio del 1881, può affermare che se Dio non c’è, allora «tutto è permesso». L’idea di un uomo che poteva sostituirsi a Dio, cominciò a martellare la mente di Dostoevskij molti anni prima. La difesa di un cristianesimo ortodosso contro quello cattolico, quest’ultimo accusato a più riprese (si leggano le pagine del Diario di uno scrittore) di aver tradito, nella sua secolarizzazione, il messaggio di Cristo e dei Vangeli, rappresentava per Dostoevskij non soltanto la pur folle convinzione che la Russia fosse la nuova terra santa. C’era in lui una forte vena antieuropeista (anche se ne ammirava la tradizione artistica) che coincideva con una lotta contro l’idea di progresso. In uno dei suoi viaggi in Europa, si trovò a visitare a Londra la prima esposizione universale nel 1851. Da quel viaggio nacque un deluso resoconto che possiamo leggere oggi sotto il titolo di Note invernali su impressioni estive (recentemente tornato in libreria per Feltrinelli). Nel palazzo di cristallo che a Londra era stato eretto per l’evento, il russo intuì che la società moderna, industriale (una sorta di preludio alla società dei consumi) aveva reso l’uomo schiavo dell’ideologia del progresso. Un uomo profondamente segnato dai suoi dubbi e dai suoi tormenti come lo era Dostoevskij, non poteva accettare che il significato dell’esistenza umana potesse imbalsamarsi alle leggi della logica. Perché per l’autore di Delitto e castigo, la vita nascondeva un significato irrazionale e imponderabile che era necessario tenere vivo. Ne valeva la sopravvivenza dell’umanità intera. Nel palazzo di cristallo, che torna anche nelle Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij vi scorge una moderna Babele nella quale gli uomini, pure riconoscendosi in diritti e possibilità di progresso comuni, finiranno per non distinguersi più. Perché l’uomo, dichiara la voce dal sottosuolo, allo stesso modo in cui desidera il benessere, desidera il dolore. Sottraendo all’uomo il desiderio di soffrire, scomparirà di conseguenza anche il suo rapporto di tensione con ciò che nella vita è imponderabile e non soggetto alle leggi della logica. La critica al cristianesimo cattolico e alla società del progresso saranno vive in tutti i grandi romanzi successivi: da Delitto e castigo fino ai Fratelli Karamazov. Ma è proprio in quest’ultimo romanzo che possiamo leggere la sintesi filosofica a cui Dostoevskij contrapponeva tutti i suoi strumenti di scrittore e di uomo, il capitolo in cui Ivan Karamazov narra al fratello Alëša, il poema che egli stesso ha scritto: «Il Grande Inquisitore». Tutta la critica dostoevskijana ha dovuto affrontare il tema del «Grande Inquisitore». Il primo fu Vasilij Rozanov con un libro ristampato da Marietti nel 2008 e scritto nel 1891, La leggenda del Grande Inquisitore, fino ai recenti La tragedia del potere di Pier Cesare Bori (EDB, pp.48, euro 5,50) e Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, pp.292, euro 30). Vale la pena segnalare anche un libro collettaneo uscito nel 2013 per l’editore Mimesis curato da Renata Badii e Enrica Fabbri, Il Grande Inquisitore. Attualità e ricezione di una metafora assoluta, nel quale è compiuta una ricognizione storico-filosofica di come è stato affrontato il capitolo dostoevskijano dai maggiori intellettuali del Novecento, da Freud a von Balthasar, da Lawrence a Girard, Camus e Steiner. Il vero nodo del Grande Inquisitore è la prospettiva che Dostoevskij immagina facendo un balzo in avanti di un secolo. Se il suo Ivan aveva affermato che se Dio non c’è tutto è permesso, l’Inquisitore, che pure dalla penna di Ivan nasce, stravolge la massima implicitamente affermando, davanti a un Cristo muto sceso di nuovo sulla terra per amore degli uomini, che nonostante Dio esista, tutto è ugualmente permesso. Cosa significa? Significa che Dio, per l’Inquisitore, equivale a uno Stato che concede agli uomini il diritto di scegliere cosa è bene e cosa è male. Ma questo arbitrio, questa forma di democrazia che moltiplica le possibilità di scelta, è solo un’illusione di libertà, «O dunque hai dimenticato che la pace e magari la morte sono all’uomo più care della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso». Dostoevskij aveva visto nel palazzo di cristallo dell’esposizione universale di Londra, la fine dell’uomo e il principio dell’uomo-massa, dell’uomo-gregge, l’uomo che la democrazia aveva reso docile e aveva infine scritto nelle Note invernali: «Voi guardate quelle centinaia di migliaia, quei milioni d’uomini, che docilmente affluiscono là da tutto il globo terrestre […] e sentite che lì alcunché si è compiuto definitivamente, s’è compiuto ed è finito». Ovvero, Dostoevskij aveva intuito la fine di una tensione soggettiva tra l’uomo e Dio: tra l’uomo e la sua possibilità di salvezza. Dice ancora l’Inquisitore: «Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità». Ma scomparso il mistero, fuori da ogni miracolo, lontani da quella tensione tra l’uomo e Dio, insomma, all’uomo non restava che deresponsabilizzarsi. Quella moltiplicazione delle possibilità, a conti fatti avrebbe portato l’uomo da una parte a desiderare di sostituirsi egli stesso a Dio (un Dio che può essere uno Stato, quindi un’autorità, come l’Inquisitore; oppure un superuomo, come il Raskol’nikov di Delitto e castigo, che crede di essere un uomo superiore e quindi che sia giustificato anche a uccidere; o ancora un Dio nichilista, che si autodistrugge, come il Kirillov del romanzo I demoni). Dall’altra ad essere a quel Dio-Stato-superuomo ecc. assoggettato come un servo. Un servo però, che vive con l’illusione d’essere libero di scegliere, deresponsabilizzato da uno stato che, ubriacandolo di diritti, di fatto lo ammansisce, rendendolo innocuo.