09 Aprile 2019

“È un romanzo che farebbe bene a molti scrittori contemporanei. Insegnerebbe loro a non essere ipocriti: su Curzio Malaparte

Colpisce che La pelle di Curzio Malaparte, un romanzo assolutamente privo di qualsiasi ipocrisia, inesorabilmente spietato nel giudizio, sia stato scritto praticamente in presa diretta con la Storia. Pubblicato per la prima volta settanta anni fa, nel 1949, il suo autore ebbe un coraggio e un istinto di verità indiscutibile. Nel ’49, con la Repubblica appena nata su una Nazione ridotta in macerie, ritrarre come fece lui gli alleati, quegli stessi alleati che indubbiamente liberarono l’Italia, valeva quanto una bestemmia. È un romanzo che farebbe bene a molti scrittori contemporanei. Insegnerebbe loro a non essere ipocriti. A non scegliere la via più facile. A rimanere fedeli alla verità che si è percepita – qualora la si sia percepita davvero. A restare fedeli a se stessi e alla stessa fedeltà.

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Diciamo le cose come stanno. Curzio Malaparte, con La pelle, ci ha mostrato come l’odore del sangue gli italiani lo abbiano sentito soprattutto dopo l’armistizio: dopo l’8 settembre del 1943. I soldati italiani non sapevano più da chi prendere ordini, erano allo sbando. Il re era vigliaccamente fuggito. Malaparte ha raccontato che la guerra, in Italia, la si è sentita veramente non soltanto per la barbarie dei nazisti, che volevano resistere nonostante tutto costruendo barriere difensive per impedire all’esercito liberatore di raggiungere la capitale (barriere che sono state veri teatri di massacri – si pensi solo come ai margini della Linea Gustav, nel Natale del ’43, la piccola città abruzzese di Ortona venne chiamata la Stalingrado d’Italia, tanto fu devastante il conflitto tra tedeschi e canadesi, tante furono le vittime militari e civili), e che mentre si ritiravano facevano terra bruciata. Ma anche per la barbarie degli alleati che ci stavano liberando, alleati che pure non condannava («Gli americani non sono cinici, sono ottimisti. E l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza. Chi non fa, né pensa il male, è portano non già a negare l’esistenza del male, ma a rifiutar di credere alla fatalità del male (…). Gli americani sono buoni. Di fronte alla miseria, alla fame, al dolore, il loro primo moto istintivo è di aiutar coloro che soffrono la fame, la miseria, il dolore. Non v’è popolo al mondo che abbia così forte, così puro, così sincero, il senso di solidarietà umana. Ma Cristo esige dagli uomini la pietà, non la solidarietà»). Era il genere umano che metteva sotto accusa, quello capace anche, come lo erano stati gli stessi alleati, di selvaggi stupri, descritti in una scena feroce di un altro romanzo, La ciociara di Alberto Moravia. Malaparte si è discostato dalla letteratura partigiana. Ha ritratto la guerra in tutta la sua ferocia.

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Le polemiche sulla veridicità o meno di quello che ha raccontato furono quanto meno fuori luogo. Il fatto che alcuni episodi del romanzo non siano realmente avvenuti non sottrae nulla alla sua arte. Nessuno come lui ha avuto il coraggio di dire il vero, pure se questo nasceva da un’immaginazione vitalissima, e di farlo con un romanzo che in Italia, nel Novecento, possiamo dire essere uno dei rari ad avere un respiro europeo pur essendo profondamente italiano. È un’opera d’arte che come pochissime nella nostra letteratura ha raccontato senza infingimenti l’antropologia del nostro Paese. E lo ha fatto a discapito delle critiche che sapeva benissimo gli sarebbero piombate addosso. Ha detto senza mezzi termini, tra le altre cose, che gli italiani con un attimo sono stati capaci di cambiar partito. Da un momento all’altro passarono dall’invocare il proprio Duce a piangere per la brutalità del regime. Dal sentirsi figli del ventennio fascista e un attimo dopo figli della resistenza. A passare dalla parte dei vinti a quella dei vincitori.

Quello che colpisce davvero del romanzo è la cinica pietà di Malaparte. È in questo ossimoro, in questi opposti che si attraggono mescolandosi la vera forza del romanzo. Ed è una forza che viene proprio dal personaggio che narra, da quel Curzio Malaparte che non fa che mettere in scena le contraddizioni che convivono nell’animo umano.

Sì, forse La pelle difetta di qualche ripetizione. Ma non c’è alcuna retorica – se di retorica si può parlare è quella di un vitalismo che a volte diviene eccesso espressivo (quella Napoli appena liberata pare abitata quasi esclusivamente da prostitute, omosessuali, ragazze che per pochi soldi fanno toccare con mano la propria verginità, baroccamente feroci nella loro miseria e nel loro tragico erotismo). Piuttosto il tono del romanzo mi pare solenne. Ma forse non c’era altro stile possibile per una storia che voleva dire tutto: dipingere il volto più profondo di una nazione.

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In una pagina di Diario scritta qualche anno dopo La pelle, Malaparte ha affermato che nei suoi lunghi viaggi in paesi di vincitori e di vinti, quelli in cui si trovava più a suo agio erano quelli in cui vivevano i vinti. Non nutriva il fascino della sconfitta e del fallimento. In quell’affermazione c’era il significato tutto cristiano che Malaparte voleva dare al suo romanzo – un cristianesimo viscerale, contraddittorio, tormentato, più che clericale e dogmatico. Aveva compreso che l’uomo scopre davvero la verità di se stesso nella miseria e nell’umiliazione. Infatti, la peste morale di cui parla il libro è quella che fa dell’uomo un individuo che non dà più alcun valore alla propria anima e al proprio spirito. Ciò che gli interessa, ciò per cui è pronto a tutto, a uccidere e a sacrificarsi, non è che “la pelle”. Cosa ci stava dicendo Malaparte? Che questo spostamento di interesse e attaccamento, da un dentro a un fuori, cioè dall’anima alla pelle, non aveva fatto altro che rendere l’uomo privo di qualsiasi senso etico e morale. Lo aveva reso capace di uccidere e uccidersi per niente – di morire inutilmente, così come recita già la dedica posta in esergo al romanzo: a «tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa».

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