07 Aprile 2018

Cronache dalla fine. La storia di Roberto. “Che grandiosa estate quella del ’94, in Giappone: ero maestro di karate e conobbi Daniele…”

Casal Lumbroso, Roma. Nell’androne del palazzo qualcuno ha affisso un cartello con la scritta Facciamo qualcosa. Nient’altro. Nessuna indicazione ulteriore, nessuna linea-guida da seguire. Vertiginoso, a pensarci. Il font minimale, la scritta così piccola rispetto al bianco. Una specie di ora et labora senza ordine monastico, penso e mi scappa un sorriso. Dunque un consiglio, un monito per i viandanti e per le cose.

Roberto abita al quarto piano. Nemmeno il tempo di suonare il campanello che lui è già alla porta, quasi stesse aspettando lì dietro. Mi invita dentro con un cenno del capo. Non si sposta dalla soglia. Mi lascia appena lo spazio per entrare.

Roberto: Senti, io sto mangiando. Vuoi aspettarmi in salone? Ci metto poco, il tempo di finire la carne che sennò mi si fredda e diventa uno schifo.

GG: Ho tempo, tranquillo.

Roberto: Togliti le scarpe e mettiti dove vuoi. Se vuoi leggere, lì ci sono alcune riviste.

Roberto va di là in cucina. Rimango solo.

Frugo nel mucchio di riviste sotto il tavolo: tutte vecchissime. La più recente è del 2009, un numero di Playboy in lingua francese. All’interno tutti i volti delle modelle sono sfregiati con cancellature di penna, sbavature, deformazioni d’inchiostro.

Passo alla piccola libreria. Una trentina di libri. Pochi in italiano e principalmente piccoli volumi di erboristeria, medicina fai-da-te, consigli sportivi. Una edizione tedesca dei Canti di Leopardi, senza testo a fronte né copertina. Lo sfoglio e non riconosco alcuna poesia dell’autore recanatese. L’Infinito, in questa lingua per me del tutto sconosciuta, posso soltanto intuirla e ricostruirla per impressioni fonico-grafiche: potrebbe significare qualsiasi cosa.

Roberto rientra.

GG: Stavo dando un’occhiata ai libri. Leggi in un sacco di lingue, incredibile.

Roberto: No, non credere. Ho dimestichezza solo con l’italiano, il greco e il latino. Non a caso tre lingue morte. Ah, un po’ di giapponese.

GG: E allora tutti questi? I Canti di Leopardi in tedesco?

Roberto: Mi piaceva impressionare gli ospiti, un tempo. Gli allievi che venivano a trovarmi, i parenti. Acquistavo un libro in ogni paese che visitavo. Possibilmente un libro inusuale, un libro che non ti aspetti. Leopardi in tedesco, Dostoevskij in francese. È bello affrontare un’opera già conosciuta, già letta, in una lingua incomprensibile. È come farsi un bagno in mare quando nevica.

GG: Hai parlato di allievi. Cosa insegnavi – o insegni?

Roberto: Insegnavo karate fino a due anni fa. E, ogni tanto, davo ripetizioni di letteratura ai ragazzi del liceo. Infatti mi sono laureato in lettere.

GG: E non hai mai intrapreso la carriera di professore?

Roberto: No, ti spiego. Mi sono laureato in lettere per cultura personale. Senza alcun fine lavorativo, anche perché era difficile allora come è difficile adesso. Ho sempre amato la letteratura, ma insegnarla o farne un mestiere no. L’avrei odiata, poi. Con le ripetizioni è diverso, non c’è accademia, niente sistema.

GG: E il karate?

Roberto: Il karate è stato la storia della mia vita. La vita dentro e la vita fuori.

GG: Che intendi con vita dentro e vita fuori?

Roberto: Scusa, mi sono espresso male. Intendo la vita emotiva, sentimentale, e quella lavorativa, pratica. E dal 1995 al 2008 le due cose sono andate di pari passo. Per tredici anni sono stato fidanzato con Daniele, anche lui insegnante di karate. Le nostre lezioni in coppia erano leggendarie. Nessuno come noi. Siamo stati gli idoli di centinaia di allievi e allieve. Poi la storia è finita nel peggiore dei modi, per me. A quarantacinque anni Daniele ha realizzato di essere attratto dalle donne, mi ha lasciato e si è messo insieme alla segretaria della palestra. Tutti e due si sono subito licenziati perché non volevano più avere nulla a che fare con me. Daniele non è nemmeno venuto a riprendere le sue cose, si è reso in tutti i modi irraggiungibile: ha cambiato numero di cellulare, indirizzo mail. So per certo, da conoscenze comuni, che è venuto a sapere della mia malattia, del poco tempo rimasto. Di questa sacca schifosa per il piscio che mi porto dietro, neanche fossi un cane. Eppure niente, nemmeno un messaggio su WhatsApp. Forse perché ormai sono passati dieci anni, non so…

GG: Come vi siete conosciuti tu e Daniele?

Roberto: Per te una laurea in domande dolorose.

GG: Se ne vuoi parlare, altrimenti lasciamo perdere e passiamo ad altro.

Roberto: Ma no, ma no. Ricordare è pure bello. Ci siamo conosciuti nell’estate del ’94, durante un viaggio in Giappone per un seminario di due settimane sul karate. Una roba tostissima. Eravamo venti ragazzi da ogni parte d’Italia. Tutte cinture nere, chiaramente. Alloggiavamo in un hotel alla periferia di Tokyo, due per stanza. E la padrona dell’albergo, per vederci nudi, entrava con ogni scusa nelle nostre camere. Una volta per il letto da rifare, una volta per portarci un dolcetto. Ammiccava, scherzava con noi. Una sera decidiamo di allestire uno spettacolino. La chiamiamo di sopra, lei viene e ci trova tutti in mutande. Noi tutti oliati e depilati, tu immagina. E con il corpo lucido iniziamo a metterci in posa, a flettere i muscoli. La padrona quasi si sente male a vederci, le prende un coccolone. La facciamo sdraiare sul letto per farla riprendere e lei comincia a toccarci tutti, sembra cieca, infila le mani dove riesce a infilarle, abbassa slip, cerca di baciare, si affanna e ansima, non respira. Indemoniata proprio.

GG: E in tutto ciò Daniele?

Roberto: Fammici arrivare, piano. Daniele fu l’unico di noi a non partecipare allo scherzo. Per tutto il tempo era rimasto in cortile a esercitarsi con alcune proiezioni particolarmente difficili. Io lo vidi rientrando nella mia stanza, dal finestrone del corridoio. Stava lì, sotto quella luna giapponese, che non ho più visto in altri posti, così piena e vicina. Con Daniele avevo parlato nei giorni precedenti, ma non mi era sembrato tutta questa gran cosa. Insomma, non mi aveva mica colpito. Vederlo invece così distante da tutti, piccolo piccolo dal sesto piano, a eseguire imperterrito le stesse mosse… boh, amore. Il giorno dopo iniziai a fargli una corte spietata, come si dice. Lo tentavo in tutte le maniere, gli stavo sempre appiccicato. Daniele era sorpreso da tutte queste attenzioni, a volte persino infastidito. Però ebbi presto la meglio. L’ultima sera lo invitai in camera mia per festeggiare l’esito felice degli esami… e iniziammo una scopata che finì tredici anni dopo.

Roberto si tocca la parte bassa dell’addome. “Corro a cambiare la sacchetta”, dice. Si slaccia la vestaglia per farmi vedere. “Non la cambio da stamattina”, aggiunge. “È colma. Fra un po’ scoppia.” Roberto ride; io non ci riesco. Forse sorrido.

Roberto: Vuoi venire a vedere come si cambia?

GG: No, tranquillo.

Roberto: Allora dammi trenta secondi.

GG: Anche trentacinque.

Roberto ritorna. Si mette in guardia e dà un calcio all’aria. Tanto per fare.

Roberto: Per me la morte non è una tragedia. Però, vorrei che lo fosse per chi mi sta intorno.

GG: La tua morte o la morte in generale?

Roberto: La mia. Gli amici continuano a parlarmi come niente fosse, a confidarmi ancora i loro problemi. Mio padre che non dice mezza parola sulla malattia. Però è capace di chiamare di notte per dirmi che non riesce a respirare. E smettesse di respirare, una buona volta.

GG: Non vogliono farti pesare la tua condizione. Essere compatiti è orribile.

Roberto: Può darsi. Ma se io volessi essere compatito? Non chiedo troppo. Comunque ora basta, per favore. Non voglio più parlare dei cazzi miei e forse ti ho detto fin troppo. Chi me lo ha fatto fare.

Roberto sferra un pugno alla parete. Urla. Mi ordina di uscire.

GG: Allora finiamo qui. Non c’è bisogno che strilli, tranquillo.

Raccolgo il registratore e mi avvio verso la porta. Ringrazio Roberto e lo saluto. Non risponde. Con la coda dell’occhio lo vedo buttarsi sul divano.

Mi arriva un suo messaggio, qualche ora più tardi. Eccolo:

Scusami per prima. Sono stato maleducato e inutilmente aggressivo. Davvero, perdonami. Volevo aggiungere una cosa in caso Daniele leggesse questa intervista. “Dani, io non ti porto più rancore. So che Giada ti ha raccontato della mia malattia, forse umiliandomi o forse credendo di farmi un favore. Non sai quanto mi farebbe piacere rivederti. Se vorrai, Giada ti darà il mio numero di cellulare e l’indirizzo. Sarà un abbraccio da amici finalmente ritrovati”. Puoi scrivere questo? O se ti è più comodo copia tutto il messaggio. Grazie e scusa ancora. Buona serata, caro.

Gabriele Galloni

 

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