09 Maggio 2020

La crisi del nostro tempo? Comincia dall’incapacità retorica. Piccolo abbecedario sull’arte del parlare, da Gorgia a Michelstaedter, fino a “Eloquentia”, un fenomeno francese

Le parole non dicono la verità – chi pretende di dire il vero, incorre inevitabilmente nella menzogna. Le parole seducono: conducono a sé. Una volta che ti ho portato a me – dalla mia parte, verso la mia idea – dovrò dimostrarti, con i fatti, che sono un uomo autentico, vero. L’incapacità retorica, di educare, cioè, le parole in una basilica che dia rifugio alle nostre paure, tabernacolo della nostra infima gloria, è il segno di una civiltà decaduta. Le parole ci sorreggono nella crisi perché sono la spina dorsale dell’uomo: slogan come andrà tutto bene, restate a casa o uniti ce la faremo, ce ne siamo accorti, non hanno reso giustizia all’evento, alla tragedia, alla prossimità con la morte, imbarbarendola di banalità. D’altronde, i discorsi del Presidente del Consiglio, poco entusiasti, puro grigiore utilitarista, non ci hanno messo a parte di un destino; hanno acuito la nostra esasperata solitudine. Per questo, infine, finora ci si è messa a parlare di economia – ma non di solo pane vive l’uomo, e il lavoro più che con lo stipendio ha a che vedere con il fato e con il cuore, dunque con le parole.

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In generale, la pandemia ha dimostrato un generico disastro nelle scelte comunicative: il logos ci si è ritorto contro. Abbiamo vilipeso l’arte retorica come una mascherata, scambiando la disciplina della parola con i discorsi ampollosi dell’azzeccagarbugli o, peggio, con i proclami dal balcone di Palazzo Venezia: che idiozia! Tutto è retorica – anche il tono con cui chiedo al panettiere di darmi il pane. Perché la retorica, il mestiere di disporre i verbi, è il ritmo con cui stiamo al mondo, coincide con la nostra statura. Così, c’è chi possiede lo stile – cioè, una marcia nel vivere – di Demostene, geometrico e accurato, chi propende per quello dello Pseudo-Longino, il teorico del sublime, dell’“eccezionalità del discorso”, che “conduce chi ascolta non alla persuasione, ma a uno stato di estasi”. Il teorico del sublime pensa che le cose vadano pronunciate una volta e per sempre, con energia ineluttabile: l’ascolto prepara alla conversione. D’altra parte, Gorgia – sfogliate l’Encomio di Elena – rompe ogni callida illusione: la retorica è pura tecnica, convincere è lotta estrema, dissociata dalle sorti platoniche, dalla ricerca della verità. “Fu maestro di impeto oratorio, e audacia innovatrice d’espressione, e mossa ispirata, e distacchi di frasi e inizi improvvisi, tutte cose che rendono il discorso più armonioso e solenne”, dice di lui Filostrato.

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La decadenza dell’indole retorica in Italia è inquietante, se pensiamo che l’eloquenza è nata in questa fetta di mondo. Il grande Gorgia – leggerlo ubriaca: pensiamo che con le parole si possa trasmutare il falso in vero & viceversa, che si possa imbragare il caos – era siciliano, di Lentini; Cicerone, nel De oratore, scrive il manuale di buona retorica buono per ogni millennio – canonizza le parti del discorso, gli esercizi per parlare in modo efficace, la gestualità… c’è tutto – mentre l’altro ieri Carlo Michelstaedter ha fatto della Persuasione e la Rettorica il crisma di una anamnesi dell’esistenza e della sua inautenticità.

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Non è così in altri paesi. Negli Usa la retorica – spiccia, brutale, fitta di slogan – fonde la Bibbia a Hollywood, la romanità al West; in Inghilterra, educati alle poppe di Shakespeare, almeno due film piuttosto recenti esaltano il talento nel reame del verbo: Il discorso del re (2010) e L’ora più buia (2017), sulla forza persuasiva di Winston Churchill. D’altronde, André Malraux, oratore formidabile, degno alunno dello Pseudo-Longino, nelle Antimemorie ricorda alcuni potenti discorsi di De Gaulle – e i suoi, naturalmente. Non è un caso, forse, che proprio in Francia, allora, sia nato “Eloquentia”, un concorso, in atto dal 2013, indetto con la complicità dell’Université de Paris 8 Vincennes-Saint-Denis, aperto a studenti tra 18 e 30 anni, per eleggere “Il Miglior Oratore di Seine-Saint-Denis”. Il concorso è accuratissimo perché prevede un ciclo di formazione che ricalca l’antica maestria della retorica – Cicerone, insomma – modellata sul mondo nuovo, di oggi – possibilmente perforando il verbo del futuro. Riconoscere le strategie retoriche permette di smontarle; adottare un particolare metodo – emotivo o glaciale, forbito o scarno, estatico o logico – vuol dire avere una certa idea di uomo. “Eloquentia” è diventato un piccolo evento culturale, tradotto in documentario, A voce alta. La forza della parola, che sarà in onda domenica 10 maggio, alle 21.15, su Sky Arte. Il video – visto in anteprima (voi potete vedere qui) – è bello, perché alla foce di un discorso c’è sempre un destino, una destinazione – e ciò che ci resta, di una vita, non sono solo gli atti ma la pretesa retorica, le parole, inaudite o mai dette. Tutti recitano? Certo. Questo è il gran teatro del mondo, signori: è inutile restare, lividi, dietro le quinte a commentare il brutto ceffo di quello in prima fila; salite sul palco, si parte, si parla – senza dimenticare che su alcuni verbi, qualcuno, ha piantato una civiltà, una speranza.

*In copertina: una fotografia dal documentario “A voce alta. La forza della parola” (2017), 

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