15 Aprile 2020

Ma che palle questi “diari della quarantena” pubblicati sul “Corriere”… Mauro Covacich ci spiega che siamo colpevoli “per il semplice fatto di esistere”: una folgorante novità!

Continua, su “la Lettura” del Corriere della Sera, il diario a staffetta sui travagli nel Paese del virus: «otto scrittori che raccontano otto settimane di un’Italia (una casa, un mondo) mai vista prima». I dolori, le riflessioni, le domande, le ribellioni di otto cervelli che dovranno illuminarci su chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Dopo Sandro Veronesi, che troneggiava a pagina 2, la seconda tappa tocca a Mauro Covacich, messo a pagina 20, scrittore che «è un maratoneta e si è dato un obiettivo da maratoneta: un record segregativo, non uscire mai. Però guarda dalla finestra. E questo è quello che ha visto…».

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Bisogna ammettere che Covacich è uno scrittore normale, non soggetto ai deliri diaristici di un Sandro Veronesi ossessionato dai disagi dei propri figli in vacanza in Australia o reclusi nella casuccia a Londra, dall’idea apocalittica della Natura che decide di annientarci come virus, dalla presentazione onirica di libri funestata da spettri femminili in agguato, dal culo che si deve fare perché la tata che gli vive in casa è chiusa in quarantena. Niente di tutto questo.

Covacich ci parla subito del silenzio che «arriva a ventate, entra in casa attraverso le finestre perennemente aperte sulla strada, si siede al mio tavolo». Il Ponte Milvio deserto, una Roma desolata, il sole sull’erba, il prato come un campo di grano, gli alberi in fiore, gli uccelli che prendono la scena. «Sono tornate le rondini».

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Un inizio dal tono bucolico, quasi riposante, che sembra voler ripartire da zero. Ma che subito s’intoppa nel bisogno di prendere le distanze dal suo predecessore, la star ingombrante che ha spiattellato senza ritegno – forte del baronato editorial-letterario – le sue nevrosi di benestante individualista uomo qualunque: «Sandro Veronesi nel suo diario ipotizzava la possibilità di un’inversione dei ruoli, noi saremmo il virus e il virus sarebbe una reazione immunitaria del pianeta contro di noi. Chissà, forse ha ragione, a me comunque il mondo senza di noi non interessa. Quella semmai è la Terra, con i suoi moti di rotazione e rivoluzione, la biosfera piena di specie vegetali e animali, ma il mondo è una visione, la mia visione, il mondo è una cosa di noi umani, è la forma in cui noi facciamo esperienza della Terra».

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Ecco. Oltre allo spettro di Veronesi, s’introduce la capacità di ragionare, quel minimo sindacale che i cervelli degli scrittori dovrebbero offrirci. Un dissociarsi morbido, ma netto, da chi si era messo a pestare i piedi come un bambino per il giocattolo rotto. Cosa che ovviamente non poteva essere fatta in modo più ruvido, dati gli obblighi di scuderia: perché è vero che hai sparato un monte di sciocchezze, Sandro, ma facciamo finta di no. Perché, come entrambi dobbiamo convivere col virus, dobbiamo anche convivere fra noi. Non è più come una volta, quando gli scrittori e gli intellettuali si affrontavano apertamente, anche sulle stesse pagine, a colpi di fioretto; quando anche diventando avversari ci si rispettava; quando il confronto dialettico poteva farsi acuto, anche aspro, senza che quello con più appoggi pretendesse l’eliminazione di quello con meno appoggi.

«Non so se sono il virus, so che la spiegazione ecologica non mi convince, o meglio, non mi basta. So di essere colpevole, ma la mia colpa è più profonda, precede il danno, essendone – se ha senso dir così – la condizione. Io sono colpevole, non perché contribuisco ad ammalare il pianeta; al contrario, il pianeta si ammala perché io e ogni uomo e ogni altro essere vivente siamo segnati dalla colpa per il semplice fatto di esistere».

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Santo cielo, eccoci nei guai: segnati dalla colpa per il semplice fatto di esistere. Forse c’illudevamo sulla ragionevolezza del buon padre di famiglia, com’è nelle corde della maggioranza degli scrittori nostrani, che devono affrontare il mercato, trovare la scrittura piana, essere empaticamente fruibili, scrivere cose che “si leggono d’un fiato”, che sappiano gratificare il lettore lubrificato, che spianino le buche e non alzino troppi crinali, insomma che lascino superare le irregolarità del percorso e inducano la gente a comprare il loro libro. Invece, veniamo subito buttati nel precipizio della Colpa: «Lo dice Anassimandro parlando della Natura (Perí phýseos), e io gli credo. Ogni essere vivente muore alla fine della sua breve parabola per pagare la colpa di essere venuto alla luce. In un modo diverso lo dice anche San Paolo nella Lettera ai Romani, e io gli credo. Poi non credo alla salvezza, non credo a un ente perfettissimo dotato di volontà e intelletto, regista di tutto questo, virus compreso, sempre al lavoro su una sceneggiatura incomprensibile, o per lo meno piuttosto cervellotica. Ma credo al peccato originale, a una specie di malattia della materia (“Quest’atomo opaco del male”, Pascoli). Non credo nel Padre giudice e castigatore, credo nel Figlio umano, sceso per combattere al nostro fianco, credo in un Dio amorevole e del tutto impotente di fronte al male, un Dio che allarga le braccia insieme a noi di fronte a una vita essenzialmente, ontologicamente ingiusta e totalmente insensata».

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Adesso voliamo alto, sfiorando i Grandi, nello spirito pessimistico che i Grandi c’insegnano. Siamo pronti per il decollo. Ma: «Ho seguito i consigli in tv, alla radio, in rete, su come impiegare il tempo in modo costruttivo», e nonostante ciò «mi sono ritrovato a prolungare il sonno in un dormiveglia mattutino pieno di ombre con il solo scopo di accorciare le giornate. I tre incontri all’università di Torino, l’invito all’istituto italiano di Madrid, le continue mail di rammarico che disdicono gli impegni e rilanciano con ammirevole fiducia verso un futuro imminente, puntellato su inevitabili sine die, un avvenire vago e inaffidabile. Cosa sono io senza i miei appuntamenti, le mie scadenze?».

Eccoci ripiombare nella prosaicità della vita-di-scrittore-non-primario. Il dramma universale della lotta dell’uomo contro la Colpa si squaglia nella piccola, personale contumelia per i benefit scippati dall’emergenza del virus. I tre incontri all’Università e l’invito all’Istituto Italiano di Madrid sciaguratamente saltati, rimandati a un futuro vago e forse perduti. Coi soldi che non entreranno.

Ma arriva qui la vera domanda: Cos’è l’uomo senza un progetto? E con essa arriva una vera, sana considerazione: «Si può davvero pretendere che mi metta a leggere un libro, o peggio a scriverlo, quando l’unica presenza che anima la via a ritmi più o meno regolari è una pattuglia della polizia municipale che urla nell’altoparlante di restare in casa?».

Bene, è quel coraggioso «o peggio a scriverlo» a denotare una presa di coscienza, un senso, una forma di onestà intellettuale: quel valore che i più forti (sollecitati dal giro di denaro che è ossigeno per l’editore e per le proprie tasche) sanno scavalcare senza scrupoli, come Paolo Giordano che sul virus ha confezionato ottanta paginette – alla moda del De Luca je-suis-erri – in due sole settimane di “isolamento” virtuale, parlando di qualcosa che non si conosceva e nemmeno si poteva definire.

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«La mia mente è colonizzata dal virus, non c’è spazio per altro. Ne parlo in continuazione».

Male, ecco una cosa da non fare. Parlare sempre di quello non ha senso, soprattutto per uno che deve fare lo scrittore. Uno che aveva appuntamenti, scadenze, incontri, uno che parlava agli altri per dare l’esempio. Che si assumeva responsabilità. Che veniva ascoltato perché indicasse una via. Che da queste attività traeva anche risorse per la sua sussistenza. Essere scrittore non è uno status, che di fatto viene abusato dai più in una logica di dare/avere, ma è uno stato interiore, che non può farsi scardinare dopo qualche settimana di perdita delle certezze, non può esser messo fuori asse in così poco tempo. Vivere facendo lo scrittore – col supporto delle infrastrutture relazionali che ci si è creati – è una cosa, mentre essere scrittore è un’altra.

Tu, scrittore costretto a casa, parli con più gente di prima, via Skype eccetera, proprio come accade a noi; e come noi cerchi appoggi, anche in Rete, perché i supporti su cui ci si reggeva traballano. Però: «Capisco di essere rimasto un uomo analogico, temo che questo profluvio di comunicazioni socializzanti non riuscirà a sedare il mio bisogno di contatto fisico. O forse sì, forse mi trasformerò anch’io».

E infatti c’è un gran parlare su questo, chi dice che tutti ci trasformeremo, chi afferma invece che rimarremo gli stessi perché dopo la lunga emergenza si torneranno a dire e a fare le cose di prima, belle o stronze che fossero. Può darsi che si penserà diversamente, che l’insieme dei meccanismi cognitivi cambierà assetto e produrrà noi stessi in modo un po’ diverso; ma sempre noi saremo, e il recupero sarà rapido. Il nostro essere non fa sconti o concessioni a un qualcosa di più grande, se non viene toccato dalla Grazia.

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«Per mio conto, all’attività fisica preferisco rinunciare. Ce la fanno i malati? Ce la fanno i detenuti? Be’, ce la devo fare anch’io. Sono stato un maratoneta e in fondo anche questa è una forma di resistenza. E poi mi fa troppa tristezza l’uomo che vedo marciare in tuta sul lastrico solare del caseggiato di fronte. Meglio venti gocce di ansiolitico mattina e sera. E una buona sigaretta: il fumo, ecco il mio nuovo sport. Oltretutto, fumare consente di stare alla finestra senza passare per guardone. Un uomo fermo sul davanzale alla lunga disturba, ma basta una sigaretta perché la sua presenza si riempia di senso: è solo un tizio che sta fumando».

In realtà, ci sembra che rifiutarsi di marciare sul lastrico del caseggiato e preferire le gocce calmanti o le sigarette non sia un buon segno. Si finisce per reagire come una persona comune, quando invece si sta scrivendo un “diario a staffetta” come scrittore accreditato: uno di quelli che sono sostenuti dai giornali e dalle case editrici (spesso con lo stesso padrone), quelli che di conseguenza – forti di questo accreditamento – vanno a parlare agli Istituti di Cultura, alle Fondazioni, alle Università, alle scuole. Quelli che parlando di sé offrono agli altri la propria visione del mondo perché serva a qualcosa, perché in qualche misura sia esempio, e giustifichi i compensi che si ricevono.

“Ma che si pretende, in fondo lo scrittore è una persona come le altre”, si potrebbe obiettare.

Bene, se lo scrittore è una persona come le altre, allora perché si devono prendere per forza i cavalli di scuderia, sempre, anche per scrivere un banale “diario della quarantena”?

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«Guardo, anzi, mi lascio guardare dalla tv. Ci sono i grandi obesi, i trenta chili di pelle asportata, la poesia delle loro storie metamorfiche. Ci sono gli ossessivi, che hanno masse di capelli lunghe sei metri, che mangiano un rotolo di carta igienica al giorno, che si fanno pungere apposta dalle api. Ci sono quelli che sopravvivono tre settimane nella giungla senza niente per coprirsi né per procurarsi il cibo, un lui e una lei sconosciuti che scavano nella terra per filtrare un po’ d’acqua e si beccano la diarrea e vengono divorati dagli insetti e si detestano per tutto il tempo, pur restando ipercorretti. Ho l’impressione che mi guardino con approvazione: bravo, resta a casa».

Bravo, Covacich, stai facendo quello che meno andrebbe fatto, anzi, quello che andrebbe proprio evitato: stai guardando programmi-spazzatura. Il contrario di ciò che gli scrittori raccomandano di fare: leggere, riflettere, ripercorrere, respirare, riconsiderare, programmare ciò che si era perso di vista, eccetera. Oltre a fare esercizio fisico. È vero che ora parli con più persone di prima, per via telematica, ma ci sembra che nel complesso si stia perdendo la focalizzazione. Soprattutto per la cattiva inclinazione a chiedersi come sarà dopo, come diventeremo, quale sarà il nostro stile di vita, se torneremo a toccarci o non ci toccheremo più, e via discorrendo: «Come cambierà il linguaggio, e quindi il pensiero, con una mutazione così radicale della nostra prossemica? In una quotidianità vissuta a distanza di sicurezza come si comporteranno i nostri occhi? Cambieremo il tono della voce? Gesticoleremo di più? I sentimenti cresceranno più rigogliosi o tenderanno a inaridirsi?».

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Ovviamente non possiamo ancora saperlo, e nemmeno possiamo formulare previsioni omogenee. Sarà che queste domande aiutano a riflettere, e che in un “diario a staffetta” non possono mancare, ma la nostra idea è che resteremo gli stessi di prima, salvo qualche variante trascurabile. Quindi sconsigliamo di finire in queste spirali e contorcervisi dentro, perché possono diventare perverse e incontrollabili: «Alla prossima recrudescenza, prevista ai primi freddi da quasi ogni fonte, chiuderanno le città, e poi i quartieri e i caseggiati, e dentro i caseggiati, noi, gli abitanti, isolati scala per scala, pianerottolo per pianerottolo, porta per porta. E dall’interno connessi con tutti, col mondo intero. Piccole entelechie senza porte né finestre. Non mi ci vuole niente per immaginarle. Le vedo, ci vedo. Tutti che lavorano da casa, che si collegano e chattano e si toccano immaginando di essere toccati. Basta corpi, basta corpo sociale. Tanti Robinson Crusoe che si parlano in continuazione, da un’isola all’altra, quando si accontenterebbero di poter riabbracciare il loro Venerdì. Continueremo così, finché i reflussi esofagei, le coliti spastiche, le candide, le gastriti diventeranno un unico amalgama come nella sigla di Blob, un materiale esplosivo pronto all’innesco, che si accenderà prima nei nuclei familiari, con una pioggia di infanticidi e femminicidi, per finire in una conflagrazione universale come nelle ultime pagine della Coscienza di Zeno, una botta di aggressività di non so quanti megatoni».

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Ecco, come temevamo lo stiamo perdendo: il record segregativo produce i suoi effetti e l’encefalogramma impazzisce. La pagina di diario spara fuochi artificiali con le previsioni peggiori, il controllo biopolitico foucaultiano immerso nel Panopticon, la tv estrema di Blob e Real Time che darà il tempo e il senso e la giusta dose di terrore per farci stare dietro le porte, ad affilare i coltelli per scannarci e sterminare la prole, a combattere con le malattie psicosomatiche che ci finiranno.

Niente, si sperava in una ricognizione razionale, equilibrata, invece… Ah, ecco: «O forse no, forse è solo un brutto sogno e tra un attimo riaprirò gli occhi. “Lo so che sta succedendo, ma a chi sta succedendo? È successo a te?”. Sono le parole di uno dei sette protagonisti del poema Let Them Eat Chaos di Kate Tempest, una poetessa performer che ho scoperto tre anni fa qui, su “la Lettura”».

Siamo sollevati, torniamo normali. Calmiamoci. Anche se la visionarietà di un finale folle senza rimedio – un sogno in cui, almeno, non si presenta un libro – forse non guasterebbe, chi sa.

Paolo Ferrucci

*In copertina: Robert De Niro in “Taxi Driver” (1976)

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