19 Maggio 2018

“Cosa è morto con la morte di Pasolini?”: riflessioni su “Campo de’ Fiori”, il romanzo estremo di Enzo Siciliano

Il saggio che leggete, in verità, ha un titolo delicato, sentimentale, poco giornalistico (vivaddio): “Una macchia di sugo su una cravatta rossa”. Si spiega – coinvolgendo la metafora – alla fine. Con inesasusta raffinatezza, Andrea Caterini, che è scrittore – tra pochi giorni, per Castelvecchi, il suo “Vita di un romanzo” – e critico letterario dalla pazienza cubica, entra nell’opera narrativa di Enzo Siciliano (1934-2006), con estasi biografica, in picchiata. Per la collana ‘Futuro Anteriore’, stampata dalla risorta Theoria, Caterini ha recuperato “Campo de’ Fiori”, il romanzo con cui Siciliano ‘fa i conti’, come si dice, con l’ombra di Pier Paolo Pasolini. Il libro sarà edito tra un mese, intanto, per gentile concessione, anticipiamo l’introduzione di Caterini

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Quanto tempo impieghiamo, ogni giorno, nel tentativo di recuperare alle vergogne della nostra vita? Quali sono le aspettative che abbiamo deluso? Quanti abbiamo ferito involontariamente? Ci si affanna a trovare un rimedio, magari una punizione esemplare da assegnarci. E quando davvero ci sembra di averne trovata una, fosse pure una risoluzione che ce l’abbia fatta temporaneamente rimuovere, quella vergogna, capiamo pure che il senso di una punizione non è che un’altra forma della nostra vanità – che quel tempo impiegato a lottare coi nostri demoni non era veramente una lotta, ma l’inconsapevole lasciare che un vuoto si espandesse sotto i nostri piedi fino a divenire una voragine, un buco nero, una paura di cui, senza ragione, abbiamo dimenticato la causa. Siamo severi con noi stessi nella misura in cui vorremmo che qualcuno, attraverso quella forma di rigorosa autocoscienza, si accorga di noi coi piedi già zuppi di niente. Di noi che siamo stati solo le vittime di noi stessi. Di noi che abbiamo trovato le più immaginifiche giustificazioni ai torti, agli inciampi, ai fallimenti, alle colpe che abbiamo commesso.

A me era capitato di pronunciare un giudizio a cui neppure credevo, detto così, con l’ansia di dimostrare di aver capito, di sapere. Un pronunciamento che però improvvisamente aveva spezzato il dialogo, facendo calare su di noi un’ombra – su lui che parlava, su me che ascoltavo.

Per la seconda volta entravo in casa sua. Ero andato a prendermi una copia di Prima della poesia (mi serviva per la tesi che gli stavo dedicando – era stato Arnaldo Colasanti, che gli era molto amico, a consigliarmi di studiare la sua opera e successivamente a mettermi in contatto con lui – facendomi immediatamente comprendere che la fedeltà a un’amicizia, fuori da ogni ipocrita relazione di potere, si nutre anche per un’adesione all’opera; l’opera, addirittura, approfondendo la conoscenza umana, quella fedeltà la rende una promessa mantenuta. Arnaldo, infatti, dopo la sua morte, gli aveva dedicato un libro, La stanza chiara: uno studio ora imprescindibile per la comprensione della narrativa di Siciliano). Prima della poesia era stato appena ripubblicato da una piccola casa editrice romana, Quiritta. Si trattava di un libro del 1965 – un libro militante. Non sono convinto che Enzo Siciliano credesse fino in fondo che quel saggio avesse ancora un valore teorico che si conservava intatto anche ora che aveva settant’anni e non più i trenta di quando lo aveva scritto. Il contesto era talmente mutato che anche uno studente di lettere avrebbe potuto trovare quelle polemiche marziane, o comunque incomprensibili. La diatriba con la neoavanguardia poteva apparire assolutamente irrilevante. Ora qualcosa di molto più gravoso aveva affossato tutto – un infantilismo linguistico limaccioso (e inconsapevole) dal quale liberarsi era impossibile. Mi sembrava avesse accettato di ristamparlo per riaccendere dentro di lui non soltanto un momento, certo felice, della sua vita, ma un clima culturale, voglio dire proprio un’atmosfera che per lui doveva essere stata una questione di vitalità serissima. Più tardi, quando lo intervistai (volevo che la conversazione diventasse l’ultimo capitolo del mio studio), mi aveva detto, proprio di quel periodo, che erano «stati anni difficili ma anche felici. Ci si diceva in faccia quel che si pensava con la convinzione che il confronto delle idee passava attraverso anche forme di crudeltà, la crudeltà della chiarezza». Quella crudeltà, oggi, era divenuta appena una civetteria cattiva, o, peggio ancora, aveva la faccia di una bontà esibita – una bontà che nella tasca del cappotto nasconde non una rivoltella, ma un taglierino. Una bontà che non uccide ma ingannevolmente sfregia.

Ma la battaglia non era stato il solo Siciliano a combatterla. Prima di lui avevano scritto con uguale ferocia anche Moravia, nel 1963, ne L’uomo come fine (un libro politico nella sua fedeltà alla nostra tradizione letteraria) e un anno dopo Pasolini, in Empirismo eretico, il quale asseriva senza mezze misure – in quel saggio a cui aveva attribuito un titolo quasi scientifico, «Nuove questioni linguistiche» –, che «le avanguardie di oggi conducono la loro azione antilinguistica da una base non più letteraria, ma linguistica: non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori. La loro non è una protesta contro la tradizione ma contro il Significato».

campo-de-fioriLo scrive anche in Campo de’ Fiori, Siciliano, che per aver pubblicato Prima della poesia qualcuno (Leonetti, ma qualche dubbio lo aveva lo stesso Pasolini, che insieme a Moravia la dirigeva) aveva mosso delle obiezioni sul fatto che potesse assumere la segreteria di redazione di «Nuovi Argomenti». Avrebbe dato, il suo ruolo, un orientamento troppo fazioso alla rivista. Il nodo lo aveva sciolto una sera Elsa Morante, con una delle sue battute affilate: «Leonetti pensa che le riviste si facciano con il vuoto pneumatico?». Siciliano divenne segretario di redazione e più tardi, fino alla sua morte, direttore.

Quel giorno, a casa di Siciliano, parlavamo, per mezzo della pubblicazione di Prima della poesia, di Pasolini. La mia posizione rispetto alla neoavanguardia era altrettanto netta. Ma la mia distanza (anche generazionale) da quel gruppo dipendeva da un fattore tutto sentimentale, emotivo – e aveva a che fare specificamente col mio rapporto con Pasolini, che era stato il primo autore del quale mi ero innamorato, la prima scossa che la mia persona, a contatto con la letteratura, aveva subito. Ma non ero mai stato in grado di scriverne qualcosa di sensatamente critico e mai ci sono riuscito neppure dopo, con lucidità, quando non leggevo più le sue pagine con la stessa trepidazione, quando ero diventato anche capace di razionalizzare la mia passione per lui. Una passione che mi aveva ingenuamente portato a farmi piacere e dispiacere i libri di cui discuteva (sul comodino, per un paio d’anni, avevo tenuto aperto Descrizioni di descrizioni come fosse un prontuario). Non ricordo in quale forma espressi a Siciliano la mia passione, certo la mia giovinezza era anche avida di aneddoti (quante cose avrei voluto farmi raccontare da lui che gli era stato amico); sicuramente gli avevo detto che non riuscivo a leggere Le ceneri di Gramsci senza piangere. Attraversavo quei versi senza il peso dell’ideologia che possedeva, in maniera puramente (ingenuamente) viscerale. Quei versi mi appartenevano, parlavano di me, che avevo sempre vissuto in una borgata, pure se Pasolini mi avrebbe ammonito che non ero altro che il figlio di una mutazione antropologica – che col suo Riccetto, o il suo Ninetto, io non c’entravo nulla pure se vivevo in periferia e non ai Parioli, perché io e un ragazzo dei Parioli avevamo gli stessi desideri consumistici e omologati. Certo non ero, né desideravo somigliare al Riccetto (anche perché la sua lingua, quella che gli aveva attribuito l’autore di Ragazzi di vita, non mi aveva mai convinto, ci leggevo qualcosa di costruito, un artificio insopportabile – così come del resto non mi avevano mai convinto i romanzi di Pasolini – fatto salvo per i due brevi, quelli giovanili, Atti impuri e Amado mio, nei quali ci leggevo una trepidazione, un’angoscia ustionanti). Ma il suo giudizio sarebbe stato troppo generalistico (e queste generalizzazioni mi avrebbero allontanato irreversibilmente da Pasolini). C’era però qualcosa che non riguardava solamente il mio stato sociale: era quel senso di solitudine, di inappartenenza anche nella mia Borgata, di sentirmi fuori casa, fuori posto ovunque – qualcosa che aveva a che fare più con Pasolini, col suo sguardo, con la sua soggettività, piuttosto che con quello che osservava, lo innamorava, e poi esprimeva. La poesia, quando ci pervade, non accetta distinzioni di carattere antropologico o, peggio, sociologico. È, nella misura in cui trova un corrispettivo di verità dentro di noi. Nelle Ceneri, quel corrispettivo, lo sentivo ardere come un desiderio, come un dolore, come una ferita bollente. Parlavamo di Pasolini, dunque, e forse Siciliano, che ne era stato, oltre che amico, anche il biografo, stava cercando di spiegarmi le ragioni di quella battaglia che non era squisitamente letteraria, ma riguardava qualcosa di più profondo che aveva a che fare con una visione delle cose, con un’idea, prima ancora che culturale, umana. Non ricordo in quale momento del discorso, forse interrompendo, con la fretta della mia giovinezza, con l’ingenuità dovuta al bisogno di farsi accogliere e riconoscere, un suo ragionamento, gli avevo detto che «Pasolini era neorealista». Non ci credevo, e chissà per quale sgambetto della mente avevo azzardato un giudizio tanto affrettato e scemo. Siciliano si era incupito, aveva abbassato la testa, probabilmente lo avevo addirittura ferito dimostrandogli di non sapere, di non capire. Aveva preso dal tavolinetto vicino alla poltrona la copia che aveva tenuto da parte di Prima della poesia e me la lanciava ora sul divano. Non era un gesto di stizza, ma di delusione. Sì, la verità è che lo avevo deluso – proprio io che avrei dovuto compiere uno studio critico su di lui.

Da casa sua me ne ero andato smarrito, nel silenzio di un saluto congelato, con un senso di vergogna e umiliazione che mi avrebbero accompagnato per settimane, con una rabbia verso me stesso che avrei trasformato, nell’anno successivo, in lavoro, in studio. La prova di quell’umiliazione era la copia del libro che mi aveva donato senza neppure dedicarmelo, il frontespizio vuoto di una qualsiasi forma di vicinanza, di amicizia. Dopo quell’incontro, giurai a me stesso che non lo avrei più cercato – e così feci – finché non avessi completato la ricerca critica su di lui.

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Di una vergogna simile Siciliano scrive proprio in Campo de’ Fiori. Aveva letto Le ceneri di Gramsci «come il testo di un rinascimento lirico dentro cui andavano in fusione storia e destino della contemporaneità. Lo leggevo non sul lato dell’ideologia, ma sul lato della passione – la lente di Pasolini mi sembrava tutta rivolta al soggettivo, e tale l’ho sempre considerata». Su quel libro ne aveva scritto un saggio pubblicato sulla rivista di Mario Boselli, «Nuova Corrente», e Pasolini, dopo averlo letto, aveva espresso il desiderio di conoscerne l’autore. Quando Siciliano, allora ventunenne (era il 1955), andò a trovarlo in casa sua, gli parlò di Ezra Pound (del quale aveva tradotto anche un Cantos): «e sbagliai tutto. Pier Paolo non amava il mio poeta, l’avrebbe amato assai più tardi. Restammo a fissarci mentre il silenzio fra noi cresceva indisturbato e mi legava alla timidezza e alla paralisi. La timidezza mi mangiava le parole, e la mia ammirazione per Pasolini si bruciò in una desolata, taciturna intenzione».

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Campo de’ Fiori non è un memoriale, e neppure il racconto di un’amicizia; e non è nemmeno, a ben vedere, un altro libro su Pasolini. È invece una resa dei conti con se stessi di cui Pasolini non è certo il pretesto, e neppure il mezzo per compierla, quella resa. È l’ossessione dalla quale si prendono le distanze per affermare, conoscere se stessi: «Non provavo più alcuna nostalgia di lui, e la sua parola aveva acquistato una leggerezza pura e astratta. Nel pensare a lui, era soltanto della mia identità che mi occupavo. Il suo essere poeta dava senso alla conoscenza di me stesso, e non perché mi appropriassi delle sue idee, ma perché il suo pensiero offriva molteplici possibilità di marcare il distacco fra noi due. Il riserbo della sua opera consentiva non soltanto che ne facessi memoria, ma il modo più autentico di serbare quella memoria si precisava nelle linee di divergenza».

Che la partenza sia un corteo funebre – i funerali pubblici di Pasolini a Roma, in piazza Campo de’ Fiori (tagliata dall’ombra lunga della statua di Giordano Bruno) – sarebbe un errore pensare si tratti solamente di una questione di composizione del libro. La domanda che Siciliano si pone dal principio è: «Cosa è morto con la morte di Pasolini?». La risposta arriverà solo molte pagine dopo, se è vero che ogni domanda è il principio di un viaggio conoscitivo. Ecco, potremmo dire, sbagliando, che Campo de’ Fiori, nel suo metodo memorialistico, tenta di riattivare un mondo estinto dopo la morte del poeta. Ma non è così. Ha a che fare con qualcosa di necessario e che riguarda proprio l’utilizzo della memoria.

Siciliano compie un viaggio a doppio binario. Il primo riguarda i motivi strutturali del libro – le parti in tondo e quelle in corsivo, che poi significa da una parte il fluire del racconto (l’autobiografia), dall’altra la lettura critica dell’opera di Pasolini. Ma la ragione strutturale di questo doppio viaggio è più ambigua di quello che appare. Ci si chiede: in quale delle due parti – nel tondo o nel corsivo – Siciliano fa uso della memoria. E, soprattutto, in che modo?

Pasolini
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

Lo abbiamo detto, il libro comincia coi funerali di Pasolini, è il 1975, nella piazza volti riconoscibilissimi: la voce ferita di Moravia che grida «È morto un poeta. Di poeti ne nascono pochi in un secolo»; oppure il dolore e la cattiveria di Elsa Morante, che si rivolta a Enzo che con lei quel dolore vorrebbe condividere, «Cosa vuoi?» – Siciliano colpevole di aver stroncato La storia. Da qui il motore memoriale del libro: la telefonata di Cordelli, la mattina del 2 novembre, che lo avverte dell’assassinio, e poi di seguito un viaggio a ritroso: la conoscenza di Pasolini, il lavoro fianco a fianco per l’antologia degli scrittori della realtà e poi a «Nuovi Argomenti», e ancora i viaggi fatti insieme, le cene nella casa di Sabaudia, la gara di cucina, o il set del Vangelo secondo Matteo in cui Pier Paolo fece recitare a Enzo la parte dell’apostolo Simone. Il viaggio ha insomma un andamento retroattivo. Si potrebbe dire che parte dalla fine, da una morte, per tornarci di nuovo alla conclusione del racconto, dopo essere andati indietro. La morte è insomma in questo spazio narrativo principio e fine. E vale la pena tenerlo a mente. Ma di nuovo un viaggio viene compiuto nella parte in corsivo. Il pretesto è un convegno su Petrolio di Pasolini a Casarsa, il suo paese natale. Il viaggio è quindi uno spostamento reale compiuto in treno. Ma quel luogo, dico Casarsa, non è solo il paese di nascita, ma anche quello che ora accoglie il corpo morto del poeta. Di nuovo una morte che torna su se stessa. Ma è durante questo viaggio che Siciliano compie i suoi conti con Pasolini e soprattutto con se stesso.

Sembra un’osservazione di poco conto, eppure salta agli occhi un nuovo indizio di mera superficie, o di struttura. Perché i capitoli memoriali, autobiografici, quelli in tondo, per intenderci, sono numerati con un semplice ordine crescente, mentre la parte critica, il viaggio dentro l’opera pasoliniana, insomma i corsivi, hanno come titolo il primo emistichio della prima proposizione dei capitoli? A me pare che sia una scelta allusiva sul significato della quale Siciliano vuole portarci non immediatamente ma a scoprirlo durante la lettura. O forse è lui stesso a rendersene conto scrivendo: che proprio quegli incipit titolati sono un’allusione alla forma poetica. Quei corsivi, che apparentemente sono, come abbiamo detto, la parte saggistica del libro, si scoprono essere invece la parte poetica: sono i versi impliciti dello stesso Siciliano. Cosa significa? Che è qui che Siciliano, compiendo quel distacco da Pasolini, affermando le ragioni della loro differenza, trova se stesso. Del resto, la ricerca linguistica di Siciliano – una lingua vissuta come un corpo, come una materia viva –, fin da quell’esordio che furono i Racconti ambigui (un titolo che, guarda caso, era stato lo stesso Pasolini a trovare), era stata più influenzata dalla poesia di quanto lo fosse dalla narrativa. Proprio in appendice a Campo de’ Fiori, Siciliano scriverà, per contrastare l’idea di una somiglianza con la narrativa di Moravia, col quale era spesso impropriamente accostato, che la scrittura nasceva in lui da un’oscurità, da un’assenza di idee e che proprio di questo il racconto si alimentava.

Ma le ragioni della differenza, del distacco con Pasolini, sono ambigue. «L’attrazione per il pauperismo o per i marginali sommava in Pasolini una eredità essa stessa elitaria, l’eredità decadente, il Verlaine che era in lui, accanto all’eredità cristiana e rurale mai negata e sempre investita di luce fin dai suoi versi friulani. Il laicismo, in me, ha sempre significato rispetto per gli ideali della tolleranza, uno strumento inscindibile per l’attuazione della giustizia nella società. Pasolini considerava invece il laicismo il volto friabile, anche ingannevole, della borghesia italiana». La differenza è in una radicalità – pauperistica, decadente, elitaria – da una parte e in una diplomazia – il laicismo come senso di giustizia e tolleranza – dall’altra. Ancora più sinteticamente potremmo dire: da una parte una visione poetica e dall’altra una visione morale della vita. Eppure, se ci limitassimo solamente a rilevare questo, ovvero che Pasolini, in quanto poeta, era colui che se non accoglieva nel corpo le contraddizioni, se non incendiava dentro di sé l’esistenza sarebbe morto di inedia, e Siciliano, che formatosi sulla filosofia (si era laureato con una tesi su Wittgestein), aveva un’idea della vita ordinata, logica, appunto morale, non capiremmo anche la ferita che il romanzo nasconde. Troppo semplice dire che da una parte abbiamo il dionisiaco, il caos, e dall’altra l’apollineo, l’ordine, la razionalità, il rigore della logica – così come del resto lo stesso Pasolini aveva sdoppiato Carlo, il personaggio del suo Petrolio, in Polis e Tetis. O forse è davvero così. Quando nel libro incontriamo quel passo in cui Siciliano racconta quanto laconicamente gli disse un pomeriggio Elsa Morante, ovvero che il suo difetto, il difetto di Siciliano, era di «trasformare l’“allarme” in “paura”, di ridurre la vastità dell’essere alla finitezza del contingente», ci sembra di capire qualcosa di più. Trasformare l’allarme in paura. Ecco, e se quella trasformazione di cui parla la Morante significasse, alla luce di questo rapporto, di questo corpo a corpo con Pasolini, di questa presa di distanze, l’essere stati capaci di riconoscere quel caos, lasciando che il suo vortice ci travolgesse, innamorarsene fino al rischio della perdizione ma non essere poi in grado di sostenerlo, di tenerlo in vita se non razionalizzandolo, se non trovandogli una forma che lo renda accettabile, abitabile, appunto sostenibile? Voglio dire: Campo de’ Fiori nasconde, anzi svela, una vergogna, o meglio una paura. Ma sarebbe un errore troppo grave pensare alla vergogna come a una vigliaccheria narrativa. È invece la verità di uno scrittore che si mette a nudo. «In quel gelo improvviso vidi chiaro nel labirinto della mia debolezza, – quanto di me soffrisse ormai di una paralisi, o di una ferita subìta alla cieca dal tempo. La mia idea di tolleranza, o il mio laicismo, erano brandelli lacerati dalle battaglie: sognai che a essi nessuno avrebbe più reso onore. Sognai che qualcuno mi costringesse perciò a vergognarmi di me stesso».

In Campo de’ Fiori, lo svelamento, meglio dire la scoperta di sé, avviene per mezzo di questo rapporto, di questo faccia a faccia espresso in un corsivo poetico, quel corsivo che adesso ci sembra più chiaramente come agisce. È ancora un problema di struttura a rivelarci qualcosa dei significati. Cosa esprime quell’andamento memoriale progressivo (la numerazione dei capitoli in tondo da 1 a 10), se non la possibilità che l’organizzazione metodica della memoria offre alla poesia (il corsivo) per essere? Se la memoria non fosse altro che la struttura ossea di uno spirito che nascondendosi dietro un confronto, alla fine si svela – quasi che, confermando la morte dell’amico, morisse egli stesso, ma vedendosi finalmente nascere nell’espressione –, è vero anche che senza quella struttura, che pure parrebbe fragile al confronto (ilare, quasi spensierata), lo spirito non riuscirebbe mai a essere, a esprimersi, a trovare una propria lingua.

Ma la scoperta di sé era stata così grande per Siciliano da poterne fare immediatamente un nuovo libro: Mia madre amava il mare (che porta come data di stampa «ottobre 1994», esattamente un anno dopo – «settembre 1993» – la prima pubblicazione di Campo de’ Fiori). Un libro che fosse non già il seguito del precedente (per questo non possiamo osservarli come un dittico), ma una memoria ormai liberata dalla poesia. È infatti in Mia madre amava il mare che può tornare all’origine della propria ferita, quella che, segretamente, ha fatto cominciare il viaggio. Siciliano, ancora ragazzino, con gli scoppi delle bombe sopra la testa, corre a casa a ripararsi. E poi suo padre, che, per lenire la paura dei figli, per opporsi all’orrore con un gesto morale, decide di leggere ogni giorno ad alta voce un capitolo dei Promessi sposi – quel padre che Enzo perderà troppo presto, quando aveva quindici anni: «Il corpo di mio padre è ancora fra la memoria della voce di mia madre e me. Tento di ritrovare il timbro della voce di lui, e trovo invece il rimpianto della sua sconosciuta nudità – è come un oggetto che cerco febbrilmente, disperatamente, e ho l’impressione di nascondermi per non trovarlo. […] La sua nudità si nascondeva forse nel libro, nel libro da inventare, da conquistare. […] è quel corpo, l’abito grigio ferro, la camicia bianca, la cravatta a strisce oblique argento e blu, che affiora nella mia mente come sulla superficie di un’acqua nera: mi sembra testimoni di un addio impedito, o di un’incognita che sigilla un vero dolore, quel dolore che l’esistenza tramuta in destino, in sentimenti sconosciuti, in ossessioni. Una ferita non cicatrizzata». Come avrebbe potuto ritrovare quell’origine, senza quel faccia a faccia con Pasolini che lo aveva svelato, facendolo morire e nascere scrittore nel corpo nudo della lingua? Come avrebbe potuto raccontare il corpo di suo padre senza aver attraversato la propria paura? Come avrebbe potuto lasciar parlare la paura senza averla prima liberata nella memoria? È in questa prospettiva che Campo de’ Fiori non è il libro di uno scrittore ormai maturo che può permettersi un’aneddotica della sua e della vita dei suoi amici, ma proprio la chiave di volta per comprendere l’interezza della sua opera.

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Quando sono andato a casa dalla moglie di Siciliano per accordarmi con lei sulla ristampa di Campo de’ Fiori, prima di andarmene Flaminia ha aperto l’anta di un armadio. Appese a un asta erano stese tutte le cravatte di Enzo. «Scegline una. Tu non le porti, ma magari ti fa piacere averne una di Enzo, che le indossava sempre. I gusti sono cambiati. Sono molto classiche. Ora non vanno più con queste fantasie». «E questa rossa?», le avevo chiesto accorgendomi subito di quella diversa da tutte le altre. «Questa è macchiata di sugo. Ho provato a lavarla ma la macchia non è venuta via». «Prendo questa macchiata allora». Non ho il gusto del feticcio o, peggio, della reliquia. Ricevere quel dono, però, mi aveva dato una forte emozione. Avevo scelto la cravatta che Siciliano probabilmente indossava meno frequentemente – il tessuto largo della maglia e l’allegria di quel rosso tanto acceso si sarebbero abbinati a non molti vestiti. Eppure mi sembrava che quello slancio stilistico appartenesse a una certa forma di coraggio: il coraggio di aver trovato una lingua propria. È vero, nelle fibre del tessuto c’era una macchia di sugo – rosso su rosso: invisibile, quindi, eppure esistente –, qualcosa che mi ricordava quanto in chi scrive ci sia sempre qualcosa che, per quanto bene si mimetizzi, è indelebile, irremovibile. In quella macchia c’è qualcosa di necessario e vivissimo: la nostra paura, la nostra vergogna – ma anche la capacità di trasformarle, quella paura e quella vergogna, in poesia.

Andrea Caterini

Gruppo MAGOG