17 Agosto 2019

“Lui non è nostro, è un artificio, è il fratello del labirinto”: Cortázar prende il Minotauro per le corna

Più che Edipo, è Minotauro l’emblema del secolo. Nella creatura dal volto taurino, il ‘mostro’ nato dal bisticcio tra i potenti – l’avida intelligenza di Minosse contro la crudele scaltrezza di Poseidone – riconosciamo il ‘diverso’ in esilio, l’altro imprigionato in una astrazione, il selvaggio sconfitto dalla mania mentale dell’uomo (il cui esito è labirintico, il Labirinto). Perché Minotauro sceglie di stare nel labirinto senza uscirne, pur consapevole che ogni enigma – perfino quello murato – ha una soluzione?

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In più: c’è l’atto bestiale – la donna che si unisce, nel virus di un amore illusorio, di una brama biliare, al toro – e l’abuso dell’uomo che scanna il sacro. Poseidone, Minosse, Teseo: in realtà sono uno, la stessa implacabile ambizione a spadroneggiare. Fedra ha l’ossessione d’amore che le ha trapanato Pasifae; Arianna è vestale di una nostalgia nuda, di giochi con la bestia. In una eccezione del mito, Arianna, Signora del Labirinto, offre il filo a Teseo sperando che lui, l’eroe conclamato, muoia, e lei possa raggiungere Minotauro nel gorgo dedalico. Dopo l’unione tra donna e bestia, l’altro tabù è l’incesto.

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In quasi tutte le riscritture del mito, Minotauro è accarezzato come l’istinto più profondo, proficuo, innocente dell’uomo, un vero labirinto. Minotauro è il selvaggio che carceriamo nelle catacombe dell’inconscio, del labirinto: se si liberasse, saremmo folli. O poeti.

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In un cerchio di decenni, tutti cavalcano Minotauro. Marguerite Yourcenar scrive il pezzo teatrale Qui n’a pas son Minotaure?, pubblico nel 1963, pensato trent’anni prima – intorno a Fuochi – e pubblicato una prima volta, con il titolo “Arianna e l’Avventuriero”, nel 1939, su “Les Cahiers du Sud”. Di Arianna è detta l’indole da monaca che ghigna e pazienta, Teseo è speculatore nella violenza. Piuttosto, nel 1936 Henry de Montherlant si occupa di Pasiphaé, mentre, anni dopo, Friedrich Dürrenmatt ipotizza un Minotauro assediato di specchi, che compie atti d’amore e di ingenuità che gli si rivoltano, a rigor di bestia, efferati, crudeli. Cesare Pavese, in uno dei Dialoghi con Leucò, titolato Il toro, fa dire a Teseo, “Anche Ariadne era sangue dell’isola. Io la conobbi come il toro”. Per essere re e quindi dio, devi sacrificare: scannare il toro come la donna. Arianna è marchiata dall’indole del labirinto. Dedalo non avrebbe creduto che la costruzione umana, mura che si attorcigliano, diventasse viva, come un pitone enorme – il pitone che sibila oracoli: quello di Delfi, presieduto dalla Pitonessa, la Pizia.

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Nello stesso anno due grandi scrittori argentini cavalcano Minotauro. Jorge Luis Borges pubblica nel 1949 L’Aleph, al cui interno spicca La casa di Asterione. In questo caso, con caustica bellezza, parla Minotauro (“La verità è che sono l’unico”). “A una tela di Watts, dipinta nel 1896, debbo La casa di Asterione”, commenta, laconico, Borges. Il Minotauro di George Frederic Watts è appeso a un balcone del labirinto, fissa il mare, con setosa malinconia. Chi va matto per le cifre, potrà indagare nell’errore (voluto?): secondo Borges quella tela è del 1896, mentre per la Tate, dove è custodita, è stata dipinta molto prima (“Quando Il Minotauro fu mostrato per la prima volta, alla Liverpool Autumn Exhibition del 1885, Watts spiegò che il suo obbiettivo era quello di ‘resistere allo spregio del bestiale e del brutale’”). In fondo, è chiaro – i poeti lo sanno da sempre: da Blake a Lautréamont a Hölderlin – il mostro è l’uomo.

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Devo la segnalazione a Sylvia Iparraguirre, la grande scrittrice argentina. Ci parliamo spesso, da lati opposti dell’oceano. Parliamo di letteratura e del labirinto dei nostri scritti. Lei conosce la mia mania per l’amore tra fratellastri, su cui sto ipotizzando un libro. Così, mi parla di Los reyes, il “poema drammatico”, il testo lirico e teatrale di Julio Cortázar. Di fatto, è il primo lavoro letterario di Julio Cortázar, che altrimenti si firmava Julio Denis. “La coincidenza di Arianna innamorata del fratellastro mi sembra straordinaria”, mi scrive Sylvia, “anche se Cortázar legge il mito in modo quasi ‘politico’”. Mi informo. Cortázar pubblica Los reyes nel 1949, dopo averne pubblicato dei brani, nel 1947, su “Los Anales de Buenos Aires”, grazie a Borges. Negli stessi anni, i due titani della letteratura argentina pigliano per le corna Minotauro. In ogni caso, il libro “fu accolto con un silenzio assoluto e cavernoso” (Louis Harss). Nel 1951 Cortázar si trasferisce a Parigi e pubblica Bestiario. Altra vita, fuori dal labirinto dell’anonimato.

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In quel giro d’anni, Cortázar si occupa di poesia. Nel 1938 pubblica, sotto pseudonimo, Presencia, una raccolta di versi, poi studia John Keats, per lui icona della poesia moderna, nel 1948 pubblica su “Sur” Muerte de Antonin Artaud. Traduce tanto, soprattutto Memorie di Adriano della Yourcenar. Così Cortázar spiega la nascita de I re: “Sull’autobus che mi riportava a casa, in quello stato di distrazione che ha sempre favorito la nascita di quanto ho scritto, ho visto il Minotauro come una vittima del potere e Teseo come il guardiano e il difensore di tale potere. Il mito rigirava su se stesso per mostrarmi il suo volto nascosto e Arianna mi rivelò il senso veritiero del suo stratagemma: di quel filo che, invece di voler guidare Teseo verso l’uscita, è in effetti un messaggio d’amore per il fratello prigioniero” (cito dall’introduzione di Ernesto Fresco a I re, Einaudi, 1994). Pur ‘minore’, nel canone di Cortázar I re ha valore profetico eccezionale: “il lettore… troverà qui un testo deliberatamente anacronistico ed estetizzante… Se I re mi sembra ancora così vicino è perché, malgrado le differenze evidenti con la mia scrittura e le mie preoccupazioni ulteriori, il suo soggetto è già il movente di quasi tutto ciò che ho scritto in seguito: il sentimento della libertà creatrice o, se si vuole, della libertà tout court”. Minotauro non va ucciso ma liberato.

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Alcuni passi de I re sono bellissimi. Così Minosse descrive ad Arianna il mostro, il fratellastro. “Tu sei la figlia di un re, Arianna la molto temuta, Arianna la colomba d’oro. Lui non è nostro, un artificio. Sai di chi è fratello? Del labirinto. Del suo stesso carcere… Un artificio, guarda, come la sua prigione. Dedalo li ha fatti entrambi, astuto ingegnere”. Nella bestialità di amore ti perdi come in labirinto, la creazione che sfugge, per eccesso di vicoli, al suo esecutore, l’uomo. La Torre di Babele è un labirinto verticale, un labirinto nel linguaggio.

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Arianna, eretta all’innocenza, dice del fratellastro che “era semplice e taciturno”. E redarguisce il padre: “Che cosa vedi del giorno se non la notte, la paura, il Minotauro che hai tessuto con i fili dell’insonnia? Chi lo rese feroce? I tuoi sogni. Chi gli portò la prima trebbiatura di fanciulli e ragazze, strappati ad Atene con il terrore e la supremazia? Lui è la tua opera furtiva, come l’ombra dell’albero è un residuo del suo notturno terrore”. Tutti sono re: Arianna regge il filo, Minosse comanda da Cnosso, Teseo è re d’eroismo, Minotauro è principe della solitudine in cui inghiotte labirinto. La sua morte come un suicidio.

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Di labirinto è detto che è “serpe di marmo”; poi il re patteggia la figlia – ignaro dei suoi misteri, degli occhi laboriosi e labirintici che fanno sentire misero chi li fissa – con l’eroe. “Uccidilo, e custodisci la sua morte come una pietra nella mano. Allora ti darò Arianna”. Ma Arianna, egualmente ‘mostruosa’, con legioni di Minotauri nel petto, sarà uccisa/abbandonata da Teseo. Minotauro, che forse è una delle tante incarnazioni di Dioniso, la eleverà a stella.

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Minotauro non si ribella alla morte – un parto di Arianna. Esattamente come il Minotauro di Borges, allevato dal gioco, in giogo carnivoro (“Il Minotauro non s’è quasi difeso”). Cortázar gli fa dire: “Ritorno alla mia duplice condizione animale solo quando mi guardi. Da solo sono una creatura dalle armoniose fattezze; se mi decidessi a negarti la mia morte, inizieremmo una strana battaglia, tu contro il mostro, io guardandomi combattere con una immagine che non riconosco mia”. Infine, “Quando l’ultimo osso si sarà separato dalla carne, e sarà la mia figura null’altro che oblio, nascerò davvero nel mio molteplice regno. Lì abiterò per sempre, come un fratello assente e magnifico”. Dell’amore insaziabile tra fratelli resta il crepitio dei denti, la crepa fra norma e risposta, adunanza di urla. Minotauro non è graziato – avrebbe avuto la sua sposa, e un letto sopra il crinale del labirinto, dove l’azzurro non mormora, mangia. (d.b.)

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