“Naturalmente ci sono ombre e ombre, come uomini e uomini”. In memoria di Maria Corti
Cultura generale
Linda Terziroli
Il vero capolavoro letterario dell’Italia unita è una novella che se ne sta nascosta dentro un altro libro, tra i più popolari del mondo: la novella si intitola «La storia di un burattino» e comparve a puntate sul «Giornale per i bambini», supplemento settimanale del quotidiano «Il Fanfulla», dal 7 luglio al 27 ottobre del 1881. L’autore, Carlo Lorenzini, era un giornalista e autore di libri umoristici, scritti con lo pseudonimo di Collodi (dal nome del paese dove aveva lavorato il nonno materno come fattore di una famiglia di marchesi). Aveva 55 anni (dunque era già vecchio per quegli anni), quando scrisse quella che lui stesso definì una «bambinata», creata solo per far soldi, e che invece si rivelò una novella terribile e perfetta, tra le creazioni più straordinarie della letteratura universale, un capolavoro impietoso, senza un cedimento retorico, senza un’incertezza di tono, senza una sbavatura stilistica dall’inizio alla fine, senza alcun compromesso con le aspettative del pubblico, e risultato della vena creativa e immaginativa audace e originalissima di uno scrittore che, senza saperlo, stava facendo i conti con se stesso e i suoi demoni.
A rileggerli oggi, quei primi quindici capitoli delle Avventure di Pinocchio, si resta ancora stupefatti. Quando insegnavo alle scuole medie li leggevo ogni volta che avevo una prima, tutti e quindici i capitoli iniziali, dalla prima all’ultima riga, con il pezzo di legno che rideva e piangeva, il litigio grottesco tra Mastro Ciliegia e Geppetto, la «stanzina terrena» di quest’ultimo, «che pigliava luce da un sottoscala» e la fabbricazione portentosa del burattino, il Grillo-parlante schiacciato senza pietà da Pinocchio, e poi ancora la straordinaria coppia criminale del Gatto e la Volpe, il terribile e umanissimo Mangiafoco, e ogni volta si creava la stessa identica scena: una classe di una ventina e più di ragazzini scalmanati, della periferia di Napoli, improvvisamente si zittiva e tutti restavano incantati ad ascoltare quella storia famosissima eppure sempre misteriosa, tutti pendevano dalle mie labbra.
Ma che storia è quella del «burattino di legno»? E perché il suo potere è ancora così forte? «Un grande libro genererà infiniti libri, e così a loro volta questi ultimi: né vi sarà mai l’ultimo», così scriveva Giorgio Manganelli nella sua memorabile rilettura Pinocchio: un libro parallelo. E in effetti, che cos’altro ci sarebbe da aggiungere che non sia già stato scritto su questo libro, dalla simbologia cristologica alle interpretazioni esoteriche, dalle implicazioni freudiane a quelle picaresche?
Non c’è che da aprirlo, allora, e rileggere quei quindici capitoli iniziali, proprio come facevo coi ragazzini delle medie. Prendiamo la fine, ad esempio, il XV capitolo: nel cuore della notte, smarrito in un bosco, inseguito dagli «assassini», quando ormai sta per darsi per vinto, il burattino vede finalmente nel verde cupo degli alberi «biancheggiare una casina in lontananza». Siamo nel momento in cui, dopo la serata all’Osteria del Gambero Rosso passata con il Gatto e la Volpe, Pinocchio si ritrova da solo, ad attraversare la campagna, in un «buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì», con i quattro zecchini d’oro ricevuti da Mangiafoco, facile preda dei due sciagurati predoni, che non esitano a dargli la caccia per rapinarlo. Siamo dunque alla fine della novella La storia di un burattino e ci troviamo davanti a uno dei momenti più alti della letteratura gotica ottocentesca: Pinocchio, incalzato dagli assassini, bussa alla porta della casina senza ricevere risposta, finché non «si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto», che annuncia, spettrale: «In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti». E quando Pinocchio la implora di aprirgli almeno lei, la Bambina risponde con una frase che mette i brividi ogni volta che la si rilegge: «Sono morta anch’io». Scopriamo così che la Bambina è uno spirito, una morta che aspetta solo la bara che arrivi a portarla via. Una situazione narrativa degna del Poe più macabro, ma di un Poe molto più sottile e raffinato.
Solo adesso, infatti, capiamo che il viaggio del burattino al termine della notte in quella selva oscura, con il salto oltre quel fosso pieno di «acquaccia lurida», non è stato altro che un viaggio verso il regno dei morti, di cui il biancore della casina e l’epifania spettrale della lunare Bambina sono gli inequivocabili segnali. E del resto, già il capitolo VI iniziava con la frase: «Per l’appunto era una nottataccia d’inferno», che nella prima edizione a stampa del 1883 di Pinocchio viene resa, erroneamente, con «una nottataccia d’inverno», e mai lapsus fu più sintomatico di questo, a evidenziare una rimozione, una denegazione della dimensione infera del racconto, e una volontà di normalizzazione di un testo, che, come sappiamo, impose la successiva «resurrezione» del burattino. Non a caso, dunque, la sparizione della Bambina e la chiusura della finestra coincidono con l’esecuzione capitale del burattino, che Collodi ci descrive con inaudita violenza: aggredito e accoltellato, Pinocchio viene infine impiccato alla Quercia grande. Le sue ultime parole saranno: «Oh babbo mio! se tu fossi qui!», un grido, un’invocazione che sembrano raccogliere l’eco di un altro grido, di un’altra invocazione, quando pure Gesù sulla croce implora la presenza del Padre lontano, prima di esalare l’ultimo respiro. «E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito». Un finale inconcepibile per una storia destinata ai bambini, di una forza narrativa che non ha eguali nella letteratura italiana di quegli anni. E tuttavia quel finale è la dimostrazione che l’opera d’arte è, come scrive Maurice Blanchot, «essa stessa un’esperienza di morte», poiché Collodi esperisce in quella morte del burattino l’esigenza più profonda della sua scrittura.
Che cosa succede dopo, infatti? Dal XVI capitolo in poi qualcosa si perde di quella forza narrativa, la scrittura si fa più consapevole, più costruita, più «difensiva» in qualche modo. È come se lo stesso Collodi si fosse spinto, con quel finale, oltre la possibilità stessa dell’esperienza letteraria come relazione con la morte (ma che cos’è in fondo, l’arte, se non una spinta verso l’estremo, se non, citando ancora Blanchot, «la padronanza dell’ora estrema, estrema padronanza»?). O, più semplicemente, è come se si fosse annientato in quella morte. Quando il direttore del giornale lo convinse a riprendere la storia, spinto dalle proteste dei bambini per la morte del burattino e per l’interruzione del racconto, Collodi accetta e che cosa fa? Resuscita il burattino, gli ridà vita, ma quella resurrezione sancisce anche la morte di sé come scrittore (il congedo, cioè, dello scrittore subìto dalla sua stessa opera). Collodi nega quella esperienza di morte, la edulcora con il più praticato armamentario della favolistica tradizionale (che tra l’altro conosceva bene, avendo tradotto pochi anni prima una raccolta di fiabe francesi di Perrault, d’Aulnoy e Le Prince de Beaumont), ma proprio questa negazione afferma il compimento dell’opera stessa che si nasconde dietro ciò che vi si oppone. Ecco, allora, che la Bambina – perturbante e spettrale – diventa adesso una Fata, materna e rassicurante, e la casina bianca un luogo magico dove i cani sono cocchieri in livree di gala, gli uccelli parlano e le carrozze sono imbottite di penne di canarino e foderate all’interno di panna montata e di crema coi savoiardi, tirate da cento pariglie di topini bianchi, proprio come nella Cenerentola dello stesso Perrault. Non possiamo negare un sottile senso di delusione, nonostante la fantasia feconda continui ad arricchire in modo straordinario la vicenda del burattino. Da dove nasce questa delusione? Dal fatto che il trauma della morte evocata e mostrata – il trauma del cadavere di Pinocchio, del cadavere tout court, con il suo rigor mortis («rimase lì come intirizzito») – venga rimosso, e con esso anche la sua forza oscenamente eversiva (una forza che è narrativa e archetipica insieme), sostituendo una grazia vagamente rocaille al gotico noir. Alla fine, insieme a Pinocchio è morto anche lo scrittore Collodi – lo scrittore autentico, quello cioè dedito all’opera letteraria più necessaria e impellente, quella che nonostante il finale non finisce mai, lo scrittore senza pubblico e senza aspettative, lo scrittore che opera nella più totale solitudine – nell’estremo tentativo di esperire quella morte nella morte del suo personaggio.
Di quella violenza che percorre tutta la novella, di cui Collodi si è fatto trascrittore, di quella violenza che affonda le sue radici in una cultura contadina, atavica, da cui deriviamo tutti noi, e a cui dunque appartiene il nostro inconscio collettivo, e in una ferocia tutta e solo italiana, restano solo alcune nascoste (e meravigliose) tracce nel prosieguo del libro, che fermenta per il resto di un’immaginazione derivata, non più originale: tracce che vanno ricercate, ad esempio, nella perentorietà visionaria con cui appaiono i conigli neri con la bara in spalla per portarsi via Pinocchio, perché non vuole prendere la medicina; o nella crudeltà insensata e ambigua (perfino morbosa) dell’Omino di burro; o nella descrizione dell’orribile metamorfosi asinina, per poi ritornare a scorrere sotterranea, come un fiume carsico. A ricordarci, come scriveva Kafka, che «non esistono fiabe non cruente», perché nonostante i lustrini e le fate, e gli happy end, «tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dell’angoscia». Quel sangue e quell’angoscia Collodi li ha rappresentati, esponendosi pericolosamente alle forze che gli hanno imposto di spingersi fino alla profondità della scrittura, bruciandosi, rinnegando se stesso, rinascendo sotto altre forme: è stato il prezzo da pagare per scrivere quel capolavoro nascosto, incastonato in un libro che in parte è il rinnegamento della sua stessa origine, ma che forse anche per questa contraddizione pulsante, drammatica, rimane, così com’è, il libro della nostra vita.
Fabrizio Coscia