30 Giugno 2020

“Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?”. Uno scrittore di genio che stava sulle scatole a tutti: troppo complicato, antipatico, poco allineato

Leggi il discorso Nobel di Claude Simon e senti un’intelligenza limpida, sicura mentre scavalca gli ostacoli. Io so perché è caduto in discredito dopo aver vinto il premio nel 1985. Perché aveva già stravinto la corrente irrazionale di Foucault e della biologia politica. Epifenomeni epigonici di Foucault allignano tuttora in Italia.

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La cultura francese è strana. Alterna momenti di cristallo (Valéry e Cartesio) a ondate irrazionali (Balzac e gli alchimisti che interessavano a Bobi Bazlen). Purtroppo quando trionfa il partito irrazionale se ne vedono di tutti i colori. Si scivola con Barthes e le sue follie di discorso amoroso. Ci si becca il virus foucaultiano. Si rimane ingarbugliati nel concetto di “rete” di Bordieu. Ci si inebria sul divano con la critica astrusa leggendo Soglie di Genette. Ci si esalta, sullo stesso divano, sfogliando Lévy-Strauss. Una pagina tira l’altra.

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Conosco i segni dell’antica fiamma. So bene il fascino dell’irrazionale, l’ho patito. E quello francese è poca cosa in confronto al Blut und Boden dei tedeschi: suolo e sangue romantici. Per questo mi eccita scoprire il discorso di Claude Simon, vedere il suo corpo a corpo con la tradizione, con i nanerottoli suoi contemporanei che non vedono in lui altro che un bislacco compositore di romanzi senza capo né coda.

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Credo che il suo discorso, anche se preso a spizzichi e bocconi, sia un godimento assoluto per la corteccia cerebrale. Perché parte da premesse astoriche, come quelle dei suoi romanzi e approda all’acciaio lucente della ragione. Arriva a Stendhal, all’immagine mnemonica che si fissa come una figura a sbalzo e supera questa visione di Stendhal con un tuffo nell’interiorità. Lo scrittore si fa sguardo.

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Sbaglia chi crede che gli intellettuali siano asettici. Mai scordare che alla radice dei razionalisti francesi c’è Cartesio che, come raccontato in un bel libretto, aveva inalato qualcosa di potente prima di sognare nella tenda al calore della stufa. Dopodiché si svegliò e scrisse le tavole della legge, il Discorso sul metodo. E nemmeno scordarsi che Cartesio aveva sognato di trovarsi, nei fumi, davanti a un’arancia. Una roba che nemmeno Dalí…

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Quindi anche il lucido Cartesio sognava. Nel seguito della sua avventura onirica il padre del sedicente razionalismo si trovò poi davanti a un bivio. Da una parte il e dall’altra il No. Tanto basti per chi crede che gli intellettuali siano insensibili. Poi, leggere le poesie di Jaqueline Risset sul sogno di Cartesio.

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Peraltro, che Einaudi storico editore di Simon non si sia mai filato il suo discorso la dice lunga sul suo stato di salute: e qui voglio essere velenoso, perché il discorso Nobel 1985 tocca vertici che Pamuk e Vargas Llosa non raggiungono nei loro proclami in sede nobelistica. Peccato però che entrambi siano foraggiati da Einaudi che gli stampa anche gli opuscoli dei discorsi manco fossero oro colato. Ma Pangea è qui per risolvere i vostri problemi di lettura. Mentre Einaudi è come l’idraulico di Fruttero & Lucentini. Non verrà mai quando serve.

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Ci sono. Eureka. Ho capito perché Simon è stato messo nel bidone. Già durante la guerra civile spagnola si era disilluso riguardo il sol dell’Avvenire dei Compagni. Leggo nell’intervista Paris Review 1992. “Intervistatore – Hai combattuto affianco ai repubblicani in Spagna ma ti sei disilluso abbandonando la causa. Perché? Simon – Io non combattevo. Arrivai a Barcellona nel settembre del 1936 per essere spettatore più che attore della commedia che si svolge nel mondo. Se non ha colto la citazione, è uno dei principi di Cartesio e quando scrisse queste parole, comédie indicava ogni genere di rappresentazione teatrale, tanto comica che tragica. Per Cartesio, che viveva austeramente osservando la debolezza delle passioni umane, la parola comédie aveva un senso lievemente peggiorativo e ironico. Stessa cosa per Balzac che scrive il ciclo, arreso al tragico, che ha per titolo Commedia umana. Gli ingredienti più miserevoli della guerra di Spagna erano i suoi motivi gretti, le ambizioni nascoste che serviva, l’enfasi su parole vuote adoperate da entrambi gli schieramenti. Pareva una commedia terribilmente sanguinosa. Ma pur sempre commedia. Pure, considerato il grado omicida cui si spinse questa guerra fatta di tradimenti, da parte mia non potevo indicarla come comédie. Cosa mi portò laggiù? Certamente le mie simpatie repubblicane. Però anche la mia curiosità di osservare una guerra civile, vedere cosa succedeva”. So già che le lettrici dissentiranno da questa visione riduttivista. Io qui sto. Sicuro che nasca tutto da divergenze politiche.

Andrea Bianchi

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Claude Simon, Dal discorso per l’accettazione del Nobel 1985

(…) Non è per un semplice e schietto caso, o così pare a me, che questa istituzione abbia la sua sede e deliberi la sua scelta qui in Svezia, più precisamente a Stoccolma, al centro quasi geografico o, se preferite, al crocevia di quattro nazioni le cui genti, per quanto ridotte di numero, in virtù della loro cultura, delle loro tradizioni e civiltà e leggi, hanno fatto la Scandinavia così grande da renderla una sorta di isola privilegiata ed esemplare contornata da un mondo d’acciaio e di violenza. Quello in cui abitiamo noialtri.

Dunque non è per caso, dicevo, che Norvegesi, Svedesi e Danesi abbiano tradotto per primi le mie Les Géorgiques uscite da poco. Né è casuale che fosse possibile, lo scorso inverno, incontrare un’altra traduzione sugli scaffali di una stazione di servizio in un borgo isolato tra laghi e foreste della Finlandia. Pure, quando quest’ultimo Nobel fu annunciato, il New York Times (per dire solo uno dei due giganti sotto il cui peso mostruoso siamo schiacciati oggi) chiese invano ai critici americani una loro opinione, e nel frattempo i media del mio paese cercavano febbrilmente qualche informazione su questo autore virtualmente sconosciuto e questo accadeva mentre la stampa popolare nel mio paese, per carenza di analisi critiche delle mie opere, pubblicava ritagli fantasiosi sulla mia vita e la mia attività di scrittore – vorrei dire che le cose andavano sempre così ma altri deploravano il fatto come una catastrofe nazionale per la Francia.

Ammetto di non essere così presuntuoso o così stupido da non intuire che ogni scelta nel regno dell’arte e della letteratura è contestabile e, in qualche modo, arbitraria; e sono il primo a considerare diversi altri scrittori, per i quali ho il più grande rispetto, siano in Francia o altrove, come egualmente eleggibili. Riferisco queste meraviglie di scandali (e talvolta di terrore, come quando un notissimo settimanale francese ha sospettato che la vostra Accademia fosse infiltrata dal KGB) e la loro eco sui giornali ma spero che nessuno vi colga dello spirito satirico o maligno o di facile trionfo. Il fatto è che queste proteste, questa indignazione, addirittura questo terrore, sono come un confronto diretto allestito dentro il regno della letteratura in nome delle forze della conservazione contro quelle che non voglio chiamare di “progresso” (parola destituita di significato in relazione all’arte) ma in ogni caso di “movimento”. E così vorrei dare risalto al divorzio abbrutito, e ancor più aggravatosi, tra arte viva e grande pubblico, il quale è tenuto timidamente nelle retrovie da tutti quei poteri terrorizzati dal cambiamento. (…)

Infatti molti hanno rimproverato ai miei romanzi di non rispettare la tradizione, di non avere né capo né coda (così dicono), cosa perfettamente corretta. Qui vorrei considerare due aggettivi ritenuti diffamatori e che sono sempre associati naturalmente tra di loro o – potremmo dire – associati in quanto correlati. Aggettivi che servono a illustrare la natura del mio problema; le mie opere sono insomma denunciate come frutto di un “lavoro” su di esse e perciò necessariamente in quanto “artificiali”. (…)

Tutti questi signori critici dimenticano che il linguaggio parlato dai maggiori scrittori e musicisti dei secoli passati, prima durante e dopo il Rinascimento – molti dei quali trattati come servi di famiglia agli ordini altrui – era un gergo artigianale. Ci si riferiva ai frutti del loro lavoro, e penso a Bach, a Poussin, come a opere eseguite nel modo più elaborato e coscienzioso possibile. Purtroppo devo riferirvi che oggi, per certe scuole di critici, la stessa nozione di lavoro, o di opera, andrebbe messa in discredito, in modo che se trovate uno scrittore che trovi difficile scrivere siete davanti a una situazione spaventosa. Forse dovremmo insistere su questo fatto perché apre visuali su orizzonti più vasti di quelli che derivano da un semplice sguardo.

Scrive Marx nel primo capitolo de Il capitale che “il valore d’uso o valore di ogni merce ha valore soltanto in quanto impersona e materializza il lavoro dell’uomo”. E infatti conviene partire da qui. Non sono né filosofo né sociologo, eppure sono colpito dal fatto che durante l’Ottocento, in parallelo allo sviluppo delle macchine e di una feroce industrializzazione, vediamo da un lato lo sviluppo della celeberrima “cattiva coscienza” e dall’altro l’intero concetto di lavoro (malpagato per lavorare le merci) che viene svalutato. In questo modo si nega allo scrittore la virtù dei suoi sforzi, in favore di quel che certa gente chiama “ispirazione” e perciò il nostro scrittore diventa un semplice intermediario, un dicitore di chissà quali cose buone con poteri soprannaturali, e la cosa è tanto affascinante che lo scrittore di un tempo, il servo domestico, l’artigiano coscienzioso, adesso osserva se stesso e si accorge di essere una persona lasciata fuori in cortile. Una persona negata. Al massimo diventa un copista, traduttore di libri già scritti da qualche altra parte, una sorta di macchina per decifrare il cui lavoro è consegnare, in un linguaggio piano, messaggi dettatigli da un misterioso “altrove”.

La strategia, allo stesso tempo elitista e nichilista, è evidente. Onorato dal suo ruolo di Pitonessa inebriata, o di altro genere di oracolo, precisamente perché ormai non è più nulla, lo scrittore adesso nondimeno appartiene a una casta esclusiva alla quale d’ora in avanti non è pensabile accedere sulla base del proprio merito o lavoro. Al contrario, il lavoro è considerato, come un tempo usava fare l’aristocrazia, come qualcosa di infame e degradante. D’adesso in poi l’opera d’arte sarà giudicata per mezzo di una parola presa a prestito, in modo abbastanza naturale, dalla religione: si chiama “grazia”, quella grazia divina che come tutti sappiamo non c’è virtù o sacrificio di sé in grado di raggiungere. (…)

In grazia di questa conoscenza (Cos’hai da dirci? soleva dire Sartre, chiedendo che conoscenza uno possedesse), lo scrittore diviene depositario o conservatore, qualcuno che, ancor prima di prender carta e penna, possiede in sé una conoscenza rifiutata agli altri mortali. Questo significa che lo scrittore si vede assegnata la missione di insegnare tutto ciò alla gente in modo che il romanzo, è abbastanza logico, diventa imagistico nella forma, nello stesso modo in cui l’istruzione religiosa è operata per mezzo di parabole e fiabe. Si abolisce la vera persona dello scrittore (è suo compito cancellarsi dietro ai personaggi) e così anche l’opera-prodotto, il pezzo scritto. “Lo stile migliore è quello che non si nota” siamo ormai abituati a dire ricordandoci della formula di qualcuno [Stendhal] che voleva che il romanzo non fosse altro che “uno specchio che cammina ai margini di una strada”: superficie piatta e uniforme, senza alcuna asperità e dietro il suo piatto di metallo lucidato null’altro che queste immagini virtuali che lo scrittore, indifferente e oggettivo, piazza una dietro l’altra. In altre parole, “il mondo come se non ci fossi io a darli una lingua”, per usare la formula ironica di Baudelaire nel definire il realismo.

“Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?” si chiede qualche critico. Quel che gli è sfuggito è che il “romanzo”, il modello letterario stabilitosi nell’Ottocento, è chiaramente morto, e non importa quante copie di racconti di avventura, amorevoli o terrificanti, coi loro finali felici o disperati, sono comprate e vendute alle stazioni ferroviarie e in altri luoghi consimili. E per lungo tempo si continuerà a venderli, perché portano titoli che annunciano tali verità rivelate: La condizione umana, La speranza [Malraux] e I cammini della libertà [Sartre]. (…)

Invece io quando arrivo davanti al foglio scopro che chi scrive, o descrive, lo fa senza che sia successo nulla prima di allora, non c’è proprio nessuna teoria. È lui che produce, nel senso preciso del termine, dentro il suo proprio presente. È il risultato, non il confliggere, tra il vago progetto iniziale e il linguaggio, è la loro simbiosi così che, almeno nel mio caso, il risultato è decisamente più ricco di qualsiasi intenzione.

Stendhal ha subito questo fenomeno del presente letterario solo nella sua Vita di Henry Brulard [opera finale inconclusa] mentre descrive l’Armata d’Italia che valica il Gran San Bernardo. Mentre è lì a cercare una veridicità possibile, dice, si rende conto all’improvviso che forse sta descrivendo non tanto quell’evento ma un’incisione vista solo in seguito. “L’incisione aveva preso il posto, per me, della realtà” scrive Stendhal. Avesse meditato un poco più a lungo avrebbe intuito che tutti sappiamo immaginarci gli oggetti di un’incisione, fucili carri merci cavalli ghiacciai rocce ecc. ma l’enumerazione riempie molte pagine mentre quella di Stendhal sta in una pagina sola. Avrebbe capito che non si trattava nemmeno di un’incisione ma di un’immagine che si stava formando dentro di lui e che stava prendendo il posto dell’incisione che lui credeva di star descrivendo.

Più o meno consapevolmente, come risultato delle imperfezioni, prima della sua percezione e poi della sua memoria, l’autore non solo seleziona soggettivamente, sceglie ed elimina ma valorizza pochi tra le centinaia di migliaia di elementi sulla scena: e improvvisamente siamo ben lontani dallo specchio che cammina lungo il margine della strada. (…)

A volte la gente parla, in modo volubile ed ex cathedra, della funzione dello scrittore e dei suoi doveri. Anni fa, usando una formula che contiene in sé una contraddizione, certuni dissero, in modo abbastanza demagogico, che “un libro vale nulla se paragonato alla morte di un piccolo bambino del Biafra”. Ma cos’è questa morte, diversa da quella di una scimmia, perché è uno scandalo insopportabile? Perché il bambino è un infante umano col dono dell’intelligenza, di una coscienza (per quanto embrionale) che, se sopravvive, sarà un giorno capace di pensare e parlare delle sue sofferenze e di leggere della sofferenza altrui e farsene commuovere e, con un tocco di fortuna, potrà scriverne.

Prima che finesse il secolo dei Lumi, prima che fosse forgiato il mito del “realismo”, Novalis enunciò con scioccante lucidità questo paradosso. Paradossale in apparenza. “Col linguaggio è come con le formule matematiche: entrambi contengono una parola sua propria che sta sola per conto suo. Il loro gioco è esclusivo ed interno, non esprime altro che ciò che sta dentro la parola, e precisamente il gioco reciproco degli oggetti che vengono così singolarmente riflessi”.

È in questo gioco reciproco che forse si riesce a concepire il coinvolgimento dentro l’atto di scrivere che, con tutta modestia, contribuisce a cambiare il mondo ogni volta che si cambia il modo in cui un uomo, anche al grado minimo, si riferisce al mondo in termini di linguaggio. Non c’è dubbio che il sentiero su cui ci incamminiamo sarà ben diverso da quello dei romanzieri che, incominciando dall’“inizio”, raggiungono la “fine”. Questo modo che dico costa all’esploratore di terre misteriose tanti dolori (perdersi, ritornare sui suoi passi, guidato o deviato da somiglianze tra posti diversi, dagli aspetti diversi degli stessi posti) e il nostro uomo dovrà sempre fare delle verifiche, passare da incroci già attraversati. Quanto alla fine dell’indagine: verterà sul “presente” di immagini ed emozioni che non sono più vicine o più distanti tra loro che a qualche altra immagine ed emozione (e ci saranno parole in grado di usare un potere prodigioso per accostare e giustapporre gli oggetti che altrimenti rimarrebbero disgiunti all’interno del nostro tempo e spazi misurati da unità scientifiche). La fine del viaggio potrebbe avvenire quando il nostro viaggiatore torna al punto di partenza più ricco per aver notato certe direzioni, per aver scoperto alcuni attraversamenti e per essersi addentrato, con ostinazione, dentro certi particolari senza menar vanto di cose che non conosce ancora. Si potrebbe anche farlo tornare a quel “buon senso comune” che tutti dobbiamo far mostra di riconoscere perché ne siamo parte.

Lungo questo sentiero non c’è altra fine che l’esaurimento delle energie di colui che, esplorando questo territorio infinito mentre lo percorre, contempla la mappa incerta che ha tracciato durante la sua marcia, mai abbastanza sicuro di aver fatto del suo meglio nel seguire certi entusiasmi, nell’obbedire a certi impulsi. Nulla è sicuro, né ci sono altre garanzie di quelle di cui disponeva Flaubert e, prima di lui, Novalis: c’è una musica, un’armonia che ci farà sicuri. Mentre la ricerca, lo scrittore svolge il suo progresso laborioso. Seguendo il suo sentiero come se fosse cieco, intoppa in cul-de-sac, si impantana e ne riesce. Se cerchiamo a tutti i costi un fine edificante nei suoi sforzi, potremmo dire che basta osservarlo mentre avanza, come noi, sulla sabbia che scivola sotto i piedi.

Grazie per la vostra attenzione.

Claude Simon

*traduzione di Andrea Bianchi

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