03 Dicembre 2018

Ciò che salva atterrisce e dobbiamo amare in modo ingiustificato, ingiusto, ingiudicabile, “sovrabbondante”: chi ha il coraggio di farlo?

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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La liturgia scudiscia chi pensa che la Bibbia sia il libro delle opere di bene, per vivere bene – per quello, da una palazzina di secoli, bastano Epicuro, Seneca, Marco Aurelio, gli stoici e gli stitici di trascendenza.

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Oscillazione – ai nostri orecchi incavati – tra “giudizio” e “amore”, come se amare fosse ingiustificato. “Farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra” (Ger 33, 15). Dando retta alla profezia di Geremia essa s’incardina in Gesù. Che esercizio di giudizio ha agito Gesù? Ha giudicato sé degno di crocefissione, ha decretato su di sé sentenza di morte – in espiazione e fraintendimento. Giudicando se stesso ha dato giustizia all’uomo.

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L’unico giudizio è che amare è ingiudicabile – l’amore è ingiusto (non c’è parità, non c’è giustizia) perché va al di là di tutte le norme e di tutti i criteri, non è ‘uguale per tutti’.

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“Uomini svaniranno nella paura, per l’attesa di ciò che accadrà al mondo” (Lc 21, 26). Colui che salva, atterrisce – l’apparire del divino è fragoroso e uccide. Cristianesimo significa: disciplinare l’attesa per sopportare la venuta di Cristo. Il resto – fai il bravo perché verrai premiato – è il manuale delle giovani marmotte per convincere i fedeli ad andare a Messa la domenica, guinzaglio della colpa e pelliccia di perbenismo. Di attesa – quanto ne ha scritto Kafka – si può morire; Dio non rispetta mai le attese né le date, disattende le promesse per una risposta più vasta.

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Il giorno è “un laccio” (Lc 21, 35), la vita è “avere la forza di sfuggire a ciò che accadrà” (Lc 21, 36). Il cristiano non si lascia allacciare dal giorno, non soggiace alla foga di tutte le cose – attua la disciplina dell’attenzione per adempiere l’attesa. La preghiera è il canto che piega il giorno, che sutura le piaghe, che direziona le ossa nel prato su cui camminerà Dio – orientare le lingue come fiamme a dettagliare il suo cammino. “Vigilate pregando continuamente” (Lc 21, 36): i Messaliani, gli ‘oranti’, diffusi in Mesopotamia dal II secolo, praticavano la preghiera ininterrotta, pensando che il mondo fosse irrimediabilmente corrotta dal male, convinti, così, di percepire il corpo vero dello Spirito. Furono sconfitti, dichiarati eretici, inconciliabili ai grandi sacerdoti, durante il Concilio di Efeso del 431.

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L’arrivo del Figlio è “la vostra liberazione” (Lc 21, 28): sempre è drastica la distanza tra il cristiano e il ‘mondo’. Il mondo è la ferocia dei chiodi che annientano l’innocente: ma proprio perché il mondo è malato, è male, va amato. Si ama ciò che ci sfida ad odiarlo.

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“Segni nel sole e nella luna e nelle stelle, angoscia di genti sulla terra per il delirio del mare” (Lc 21, 25): sembrano sempre nostri i tempi apocalittici, e l’attesa è sempre rimandata. Forse siamo noi il segno dell’apocalisse, forse il mare in delirio è il nostro cuore.

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L’attesa si stagiona nel “sovrabbondare dell’amore gli uni verso gli altri – e verso tutti”, come dice San Paolo (1 Ts 3, 12). Questo amore – necessario a “confermare i vostri cuori” – è disumano, è una sfida, è l’amore che vince la morte. La vera abbondanza è d’amore, di questo che non sfama.

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Che cos’è la giustizia per Dio – come è possibile paragonare la nostra moralità alle Sue intenzioni a-morali rispetto al balbettio umano? “Realizzerò le promesse di bene” (Ger 33, 14) dice il profeta ripetendo l’oracolo di Dio. A quale bene si allude, e qual è la giusta urbanistica dell’amare? Il bene è l’abbandono – quando, disarmati, senza sapere più nulla, qualcuno ci fa scudo con le mani. Ogni apocalisse è fatta per soddisfare la nostra pretesa più profonda: amare, essere amati, sfiatando ogni inquietudine. Ci vuole coraggio nella rovina. (d.b.)

*In copertina: Giovanni Bellini, “Pietà Martinengo”, 1505 ca., Venezia, Gallerie dell’Accademia

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