25 Novembre 2018

“Ci sarebbe da impazzire… ma possediamo l’eternità”: su Schopenhauer, il filosofo più grande

Il più grande romanziere di ogni tempo, Lev Tolstoj, attraversò una crisi epica, assoluta. L’origine della crisi accadde nel 1869. Scoppiò, in modo definitivo, nel 1878. Fu come se un punteruolo principiasse a scavare gli occhi e la gola del grande scrittore russo. Tolstoj percepì, con potenza inaudita, il punteruolo del nulla. Percepì, acutamente, la nullità delle cose, l’annientamento del senso della vita, la sovranità della morte. Lev Tolstoj aveva appena terminato di scrivere i due più alti capolavori della letteratura occidentale, Guerra e pace e Anna Karenina. Li ripudiò. E ripudiò l’arte, gioco troppo ambiguo per adulti cresciuti nella bambagia. Come solo i rari titani della scrittura hanno fatto, Tolstoj rientrò nei suoi capolavori, scardinandoli, sconfiggendoli. “Era rallegrante per me guardare la vita nello specchietto dell’arte; ma quando cominciai a cercare il senso della vita, quando sentii l’esigenza di vivere la vita mia propria, questo specchietto mi divenne o inutile, superfluo e ridicolo oppure tormentoso. […] Se avessi semplicemente capito che la vita non ha senso, avrei potuto saperlo tranquillamente, avrei potuto sapere che questo era il mio destino. Ma io non potevo darmene pace. […] Per liberarmi da questo terrore io volevo uccidermi”. In quegli anni, fino al 1880, Tolstoj lavora a Confessioni, il libro della rivelazione del tormento. Negata la pubblicazione in Russia, Confessioni sarà edito a Ginevra, nel 1884. In quel breve saggio, Tolstoj disseziona il suo cuore e si affanna a cercare il senso della vita, che troverà – in misura illusoria – nella sua originale e radicale rilettura dei Vangeli. Quando tenta la via della filosofia, quella che “non perde di vista il problema essenziale”, Tolstoj si riferisce ai suoi personali maestri: Socrate, Buddha, la Bibbia (esemplificata dal Kohèlet), Arthur Schopenhauer. Tra i filosofi dell’era medioevale, moderna e contemporanea, Tolstoj sceglie Schopenhauer, l’unico che ama, che lo accompagna, che lo squassa. La filosofia devastatrice e corroborante di Schopenhauer, che sputtana tutti gli ottimismi atti a imbambolare il ‘popolino’, che assegna all’arte un ruolo rivelativo – per quanto parziale, “la liberazione offerta dall’arte non può essere che provvisoria, legata com’è ai brevi momenti della contemplazione estetica” (Giuseppe Riconda) – decisivo nella via verso l’ascesi, ha influenzato pressoché tutta la letteratura occidentale moderna. Nessun artista e nessun filosofo può prescindere dalla vertigine di Schopenhauer, riassunta nella sua opera somma, Il mondo come volontà e rappresentazione, che si chiude sguainando quella frase memorabile, “questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – nulla”.

Schopenhauer, l’esegeta del nulla, il pensatore che mette tutto in discussione e che procede per interrogativi incendiari e metafore abbacinanti, affascina – chiedere al suo lettore più intelligente, Nietzsche. Dopo aver letto Schopenhauer, lo dimostra Tolstoj, tutto cambia. “Chi legge quest’opera, alla fine non è più la stessa persona e tutti saranno grati all’autore di un’esperienza unica e altissima, il cui esito non può che essere una rigenerazione della mente e del cuore”, ha scritto Sossio Giametta, tra i grandi traduttori e interpreti di Schopenhauer. Anche Schopenhauer, per altro, come Tolstoj, si è inabissato nel nulla – esperienza necessaria per l’artista, che culmina con la distruzione totale di sé: l’esito è la resurrezione o l’estinzione. Pubblicato nel 1818, Il mondo come volontà e rappresentazione fu, editorialmente, un disastro. L’insuccesso, dopo tutto, è consustanziale al carattere del filosofo che scriverà, con atroce lucidità: “In ogni tempo i grandi geni della poesia, della filosofia, delle arti, si ergono come eroi solitari che conducono una lotta disperata e unica contro un intero esercito. L’idiozia, la banalità, la diseducazione, la violenza del genere umano si oppongono in eterno all’opera dei grandi spiriti, in ogni campo e in ogni arte, formando un esercito che finisce per soffocare e uccidere l’artista”. Il filosofo nato a Danzica non sarà soffocato dall’incomprensione. Malaccetto dalle accademie – dove era in voga il suo arcinemico, Hegel – nel 1851 Schopenhauer pubblica i Parerga e paralipomena. Nonostante il filosofo giudichi il tomo come una raccolta “scritti minori” che “non hanno potuto trovar posto nelle opere sistematiche”, il libro ha un successo importante, che fece “di Schopenhauer un avvenimento culturale non passeggero” (Giorgio Colli). Cosa è successo? Che Schopenhauer affronta le grandi questioni di sempre (“che cos’è il mondo? come dobbiamo vivere?”), solo che per la prima volta quelle questioni e quei concetti “trovano una forma di esposizione adatta”. Schopenhauer non ha più bisogno di dimostrare il suo genio filosofico, è più libero, più scaltro. Quel gran genio – troppo sottovalutato – di Giorgio Colli ha parlato di “popolarizzazione della filosofia”. Precisando: “popolare la filosofia diventa già nel linguaggio semplice e aperto, in antitesi con un atteggiamento soltanto teoretico, o con un’esposizione matematizzante, o con un qualsiasi gergo astruso, e comunque in rottura con ogni indirizzo specialistico”. Schopenhauer, che diffidava delle cattedre di filosofia e dei filosofi da università, trova un linguaggio adatto a divulgare le sue inquietudini. Finalmente, l’opera del filosofo tedesco viene riscoperta, letta, tradotta, divulgata nel resto del mondo. […]

Animalista (“in verità, gli uomini sono i diavoli sulla terra e gli animali le anime torturate”), anatomista della fugacità (“Ciò che è stato, non è più; tutto ciò che è, un attimo dopo è già stato”), cronista della compassione (“Ciascuno porta in se stesso gli errori dell’umanità intera, anche quelli per cui ora ci indigniamo”: concetto che ha assonanze concrete con il refrain che sibila in tutti i romanzi di Fëdor Dostoevskij, così ne I demoni, per dire, “peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui”) Schopenhauer ha scoperto la via di fuga dal nulla. Il mondo è quello che è, ring di soprusi e di bestialità, l’inquietudine ci tortura, eppure, “il nostro vero essere è indistruttibile”, “ciascuno porta in sé il centro immobile dell’infinito”. Non esiste un regno oltre questo, non esiste Dio, ogni cosa nasce per morire, ma la nostra essenza è immortale. “L’è ci appartiene solo per un attimo, l’attimo dopo abitiamo il fu. Ogni sera, siamo più poveri di un giorno. Ci sarebbe da impazzire, non fosse che nei recessi del nostro essere abbiamo la percezione di possedere l’essenza dell’eternità, quella forza grazie alla quale si rinnova continuamente la vita”. Eccola, la perla che ci consegna Schopenhauer: l’individuo che guardiamo ogni giorno allo specchio non è che una forma transitoria, parziale, coagulata su questa Terra, regno di virus e di malattie. Qual è la nostra vera forma? Perché nel tramonto, nella luna o nella congiura delle nubi intuiamo qualcosa che ci sorpassa, fino alla commozione? Di quale eternità siamo il calco?

L’eminenza di Schopenhauer, ad ogni modo, è sostanzialmente linguistica. La visionaria vivacità delle metafore, la laconica rapacità delle conclusioni, mai paghe, sempre estreme (“Guardare l’immensità delle stelle, che fiammeggiano illuminando mondi dove domina la sofferenza o la noia, porta allo sgomento, alla follia. Se l’atto del generare non fosse un bisogno, accompagnato dal godimento, ma fosse un semplice gesto razionale: come potrebbe esistere il genere umano?”), ci squarciano. Come se qualcuno gettasse la nostra testa nel cosmo, e noi, nati, morti e rinati miliardi di volte, contemplassimo la vita con animo sicuro e scuro. Certi del nulla; con la certezza che siamo indistruttibili.

Federico Scardanelli

*Pubblichiamo per gentile concessione parte dell’introduzione a Arthur Schopenhauer, “Più forti della morte”, Theoria 2018, una selezione dei brani più potenti del filosofo tedesco

Gruppo MAGOG