26 Settembre 2018

Ci lascia “Zanza”, morto nel migliore dei modi, mentre faceva l’amore. Con l’uomo da 6mila donne finisce l’era della Rimini felliniana, dei micidiali vitelloni

Finito tutto, sipario. Tutto è finito nel modo migliore e forse più naturale: in figa. Con la morte di Maurizio Zanfanti, il “Zanza da 20 al mese che beve poco ma in compenso tromba” (Filippo Malatesta in Terrone), deceduto mentre faceva la cosa che gli piaceva di più, “giacere” con una ragazza in macchina, si chiude quasi definitivamente il film più lungo della Riviera, quello del “re della passera”, dei vitelloni veri che davano più di una gioia al mondo femminile.

Poco più che sessantenne, chioma fluente e bionda, pantalone di pelle, celebre in tutta Europa (la “Bild” gli ha dedicato almeno un servizio), forse non così pratico di contabilità (“Quante donne ho sedotto? Considerato che ho lavorato 35 anni, potrebbero essere 6.000” disse qualche tempo fa), Zanza è stato l’ultimo baluardo della vera “riminesità”, non tanto quella raccontata nell’omonimo album di Fabrizio De André / Massimo Bubola (la paternità del disco di fine anni Settanta è più del secondo che del primo) ma quella del “pissi pissi” che scivola tra i tavolini delle osterie e le sedie dei pub. Le chiacchiere, con la mano davanti alla bocca, delle donne che raccontano alle amiche che una parente teutonica di una loro conoscente è stata con lui. L’ammirazione dei maschi della Riviera, che amano aggrapparsi a miti che provengono dal passato, da quella Rimini di 40 e più anni fa quando era conosciuta non per la “Molo Street Parade”, la “Notte Rosa” o per il “Capodanno più lungo del mondo” ma perché in Riviera c’erano alcuni uomini che sapevano chiavare. Bene, probabilmente. E soprattutto le donne degli altri.

Con Zanza si chiude quasi definitivamente una stagione: le azdore che tiravano la piada sono state sostituite da ragazzotte dell’est, i negozi del mare sono quasi tutti gestiti da cingalesi, gli aiuto-cuochi dei ristoranti sono quasi tutti stranieri. Rimane un ultimo baluardo, quello del bagnino: quando un giorno un orientale in canotta e bermuda sposterà brandine e sdrai o aprirà un ombrellone, la Rimini dei cliché, di Federico Fellini, delle battaglie antifasciste e delle femmine rotonde e rassicuranti diventerà solamente un lontano ricordo.

Zanza è stato il miglior spot pubblicitario per la Riviera, fiero rappresentante di una “razza maschile” che ha fatto della passerina un totem, un (s)oggetto da venerare, da conquistare, da soddisfare. Zanza ha fatto diventare Rimini una città maschile declinata al femminile, non quindi una città di opliti bensì di uomini aperti all’universo femminile. Una polis moderna, capace di unire i piaceri del corpo a quelli del palato e dell’accoglienza. Un luogo “all inclusive” d’antan e pionieristico quindi, capace cioè di proporre servizi di primissimo ordine: spiagge, cibo e sesso.

Zanza ha spiegato a più generazioni, senza mai dirlo apertamente, che non servono additivi chimici o sballi alcolici per essere uomini: l’essenziale è il dialogo, l’approccio, il corteggiamento. Un’arte, più forme d’arte, che oggi non vengono più utilizzate: la regola dell’hic et nunc ha soffocato la bellezza dell’incognito, le farfalle nella pancia, il tempo dell’attesa, il risveglio, il giorno dopo, quando non sai se è accaduto davvero, quando senti ancora il suo profumo sulla pelle e capisci che siate stati insieme e che la notte non ha cancellato tutto.

Era questa, Rimini, non quella raccontata attraverso le fotografie di Maurizio Cattelan. Non il ponte di Tiberio, non l’Arco d’Augusto, non i due spettacoli tenuti da Buffalo Bill durante la Belle Époque, non l’Isola delle Rose, non il passaggio del Giro con Girardengo, non l’antico anfiteatro che non esiste più. Rimini era Zanza, e Zanza era un uomo che racchiudeva in sé l’essenza più profonda e sincera della Romagna di mare: l’accoglienza.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG