11 Gennaio 2020

A scuola di scrittura da Chuck Palahniuk. “Il mio unico consiglio è: non annoiate il lettore. Nella storia non è mai esistito un pubblico esigente come quello di oggi”

Chuck Palahniuk il prossimo mese, 21 febbraio, compie 58 anni: è lo scrittore di “Fight Club” – da cui, nel 1999, il film culto di David Fincher – e di vari altri libri (tra cui, “Invisible Monsters”, “Rabbia”, “Dannazione”, “Beautiful You”, tutti editi, in Italia, da Mondadori). L’ultimo libro di Chuck s’intitola “Consider This”, è una specie di manuale per scrivere bene, cioè senza annoiare il prossimo, il sottotitolo è questo: “Moments in My Writing Life after Which Everything Was Different”. Il libro esiste nel mercato inglese da una settimana, questa la dida esplicativa: “Il celebre romanziere di fama Chuck Palahniuk ci conduce dietro le quinte della sua vita da scrittore, con aneddoti dai decenni ‘on the road’ e una potente indagine sul potere della finzione, sull’arte del narrare”. Ergo: “considerate questo libro come un classico in divenire”. Vedremo. Diverremo scrittori leggendolo? Lecito è il dubbio, intrigante l’affronto. Qui abbiamo tradotto in anteprima alcune pagine.

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Ti è accaduto. Sei a cena da amici, parli di un ciclone. Una risata, un sospiro e la conversazione cede al silenzio. Hai esaurito gli argomenti. Il silenzio è imbarazzante, nessuno ha un nuovo argomento da proporre. Come gestire questo istante di nulla?

Nella mia giovinezza, la gente colmava le pause dicendo: “Devono essere passati sette minuti dall’ora fatale”. La superstizione riteneva che Abramo Lincoln e Gesù Cristo fossero morti sette minuti dopo la loro morte, dopo l’ora fatale, per questo l’umanità deve stare in silenzio per onorarli. Mi dicono che gli ebrei infrangono quei momenti di silenzio dicendo, “Ecco, un bimbo ebreo è nato”. Il punto è: tutti riconoscono quei momenti di niente. I modi per colmare quelle paure, quella palude di silenzio dipendono dalla propria tradizione. Ecco, noi abbiamo bisogno di… qualcosa che nasconda la cucitura tra i diversi momenti narrativi, la paura del vuoto. A tavola basta un blando sorbetto. I film possono andare in dissolvenza. I fumetti passano da una vignetta all’altra. Ma in prosa, come riesci a risolvere una parte della storia cominciando la prossima?

Ovviamente, puoi optare per una descrizione accurata, istante per istante. Ma tutto diventa così lento. Troppo lento per il pubblico moderno. E mentre ci sarà sempre qualcuno a sostenere che il pubblico, oggi, è stato rimbambito dai video musicali o altro, io dico che il pubblico di oggi è il più sofisticato di ogni tempo. Abbiamo attraversato così tante storie e formule narrative come nessun altro essere umano nella storia. Per questo, ci attendiamo che la prosa sia rapida, intuitiva, come un film. Per far questo, basta considerare cosa accade durante una conversazione. Il mio amico Ina cita sempre il non sequitur dei “Simpsons”: “I narcisi crescono nel mio giardino”. Qualunque sia il concetto, riconoscere un vicolo cieco, una impasse, ci permette di introdurre una nuova idea.

Insomma, bisogna creare formule adatte a ogni personaggio. In Invisible Monsters la formula reiterata era “Mi spiace mamma, mi spiace Dio”. Nel racconto originale che è diventato Fight Club era la ripetizione delle regole. In un documentario Andy Warhol dice che il suo motto è “E quindi?”. Indipendentemente da ciò di cui si parlava, dai fatti, poteva respingere ogni locuzione dicendo “E quindi?”. Per Rossella O’Hara è “Domani è un altro giorno”. Bisogna nascondere le cuciture narrative come una striscia di modanatura cela il punto di giunzione tra il pavimento e le pareti. Ciò consente, per altro, di far avanzare la storia avanzando problemi irrisolti, aumentando la tensione.

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Il modo più facile per indicare il tempo che passa è quello di annunciarlo. Descrivere cosa succede. Scandire il tempo. Noia. Un altro modo è dettagliare queste attività, fatto dopo fatto, fino ai lampioni che iniziano ad accendersi mentre le mamme chiamano in coro i figli per la cena. Metodi adatti se vogliamo annoiare il lettore. Meglio praticare il montaggio. In Slaves of New York di Tama Janowitz l’elemento narrativo che scioglie la stasi è l’elenco dei menù giornalieri in un manicomio. Lunedì mangiamo questo. Martedì questo. Mercoledì quest’altro. Nel film di Bob Fosse, All That Jazz, è la sequenza ripetuta del tipo che si lava i denti, prende Benzedrine e dice allo specchio del bagno, “Questo è lo spettacolo!”. Che tu descriva città, pasti, fidanzati, comprimi tutto insieme. Alla fine del montaggio, arriveremo alla scena, con la sensazione che sia trascorso del tempo.

Un altro modo per dare l’idea del passare del tempo è l’intrusione. Termina una scena, passa a un flashback, alterna passato e presente. Ogni salto temporale ti è permesso, implicando il passato. Oppure, puoi introdurti in diversi personaggi. Ad esempio: quando un personaggio incontra un ostacolo, passi a un altro. È esasperante investire la propria narrativa su un solo personaggio: ogni salto ci fa avanzare nel tempo narrativo.

Altrimenti, alterna i toni. Pensa a Furore di Steinbeck. A volte siamo con la famiglia Joad, narrazione standard, modulata, che racconta il loro viaggio. Altre volte il tono cambia, comincia un capitolo sui flussi di migranti sfollati, la siccità, i proprietari terrieri. Poi torniamo ai Joad, che nel frattempo procedono nel loro viaggio. Poi arriva il capitolo sulle inondazioni, con altro tono. Infine torniamo alla famiglia.

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A volte, al posto di usare i capitoli, per indicare l’interruzione di un brano e il principio del prossimo, basta usare uno spazio bianco. In Beautiful You ho usato gli spazi bianchi perché volevo imitare la scrittura dei libri pornografici nel mercato di massa. Queste permette all’editore, per altro, di risparmiare in pagine, di aumentare gli eventuali profitti.

Chuck Palhaniuk

Gruppo MAGOG