01 Aprile 2018

Chi ha ucciso davvero Aldo Moro: la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti israeliani, gli americani, Francesco Cossiga? Indagine sull’omicidio che ha cambiato l’Italia (seconda puntata)

Come sono andate veramente le cose? Quanto materiale è stato occultato? Quanto c’è ancora da scoprire? Chi permetterà di sapere la verità senza nascondere più nulla, se lo permetterà? E quando potrà succedere? Quarant’anni non sono serviti per far crollare il muro dell’omertà sul caso Moro.

Di certo la morte di Andreotti e Cossiga potrebbe spronare qualcuno a parlare. Ma se si leggono atti e documenti, libri e interviste, è facile capire come una parte di verità, non diffusa ampiamente, sia stata già messa sul piatto della bilancia. Bisognerebbe raccogliere le fonti e renderle ufficiali attraverso un’operazione specchiata che coinvolga non solo il mondo giornalistico, ma anche quello politico. Non solo le alte sfere nazionali, ma gli stessi responsabili dei paesi esteri. Un’operazione praticamente impossibile.

Ho accatastato sulla mia scrivania alcuni plichi che contengono fotocopie e ho cercato di dare un ordine cronologico. Sottolineo in rosso le notizie che mi sembrano più importanti, in blu quelle che citerò nel mio lavoro. Il punto di partenza, vale a dire la verità per come è stata ufficializzata, lascia spazio alla seconda verità, occultata. Sullo sfondo la fotografia di Aldo Moro nel covo di via Montalcini e il suo corpo disteso sulla Renault 4. Quando uno scrittore decide di fare un’indagine vive febbrilmente di ossessioni. Di queste ossessioni si nutrono certamente i familiari delle vittime, di Moro e degli agenti della scorta. Il desiderio di un’indagine non è mai come l’assillo di una perdita. L’altra verità, in definitiva, è per chi è stato raggirato anche sui pretesti, sul disegno criminale compiuto che ha tolto di mezzo un affetto, un riferimento stabile della propria esistenza.

Giovanni Raboni, poeta di ragioni umane e sociali, del dialogo tra i vivi e i morti, scriveva: “Ci sono sere che vorrei guardare/ da tutte le finestre delle strade/ per cui passo, essere tutte le rade/ ombre che vedo o immagino vegliare// nei loro fiochi santuari”.

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Torniamo all’indagine. Stavolta bisogna raccogliere dati, riportare brani di interviste. Non c’è spazio per il commento, per l’interpretazione, ma solo per la rivelazione che constata il non detto. Non tutto può essere credibile, ma è molto probabile che la fondatezza sia in molte delle affermazioni fatte negli anni. Alcune di esse sono inconfutabili, altre vanno ascritte a quel contenitore di sincerità da parte di chi le ha proferite. In altri casi vale ciò che scrisse Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974: “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del vertice che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpe, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ignoti autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in secondo ordine dei colonnelli greci della mafia), ha prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della forestale che operava, alquanto operettisticamente, a città ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli”.

Pasolini non sapeva cosa sarebbe successo il 16 marzo 1978. Lo uccisero prima. La tela era stata tessuta a partire dallo scomodo scrittore? O addirittura dalla morte di Enrico Mattei?

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Moro1Sergio Flamigni, nel libro La tela del ragno (Kaos 2003), scrive: “Alcuni mesi prima della strage di via Fani, il 27 novembre 1977, gli agenti della scorta di Moro avevano notato un giovane motociclista fermarsi all’arrivo dell’automobile del piduista Franco Di Bella (che doveva intervistare Moro). Poco prima il giovane aveva fatto cenni d’intesa a due individui appiedati. Quando un carabiniere della scorta era intervenuto, ordinando al motociclista di fermarsi, il giovane aveva accelerato e si era dileguato contromano nell’attigua via Brescia. Agli agenti della scorta, il meccanico di una vicina officina aveva poi confermato di avere notato più volte, nella stessa giornata, quel sospetto giovane motociclista poi fuggito”.

Flamigni riporta altri episodi: “Claudio Leone, che aveva l’ufficio nello stabile di fonte a quello del numero 88 di via Savoia, testimonierà di ripetuti appostamenti di persone intente a osservare le finestre dello studio del presidente della Democrazia Cristiana specie durante la settimana che aveva preceduto il sequestro. Il professor Mario Lillo, residente nelle vicinanze e abituale pedone di via Savoia, riferirà di aver notato più volte, parcheggiata in prossimità dello stabile al numero 88, una moto di grossa cilindrata scura, probabilmente una Honda, appaiata a un autofurgone chiaro, fermi in posizione favorevole per controllare l’ingresso dello stabile”.

E ancora: “È probabile che lo stesso Moro avesse avuto sentore dei pericoli incombenti; sua moglie ricorderà un colloquio da lei avuto col capo maresciallo Leonardi: Leonardi era fuori dalla grazia di Dio perché gli avevano detto che c’erano dei brigatisti, non solo romani, ma di varie città d’Italia: ed era fuori di sé perché gli era stato detto che lasciasse stare, che non si preoccupasse della loro presenza a Roma. Di fronte al terrorismo che colpiva e minacciava di colpire in alto, lo Stato rispondeva dunque con un ambiguo disimpegno e con una passiva gestione burocratica, entrambi funzionali alla strategia della tensione”.

Il 23 settembre 1978 la signora Eleonora Moro, interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci, smentisce le deposizioni dei primi tre agenti Gentiluomo, Pallante e Riccioni ascoltati il 16 settembre. “Non posso affermare”, disse la signora Eleonora, “che mio marito sia stato un abitudinario. Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi, come la signoria vostra mi precisa, sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata. Era solito andare a messa tutti i giorni, anche nel pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. Egli, fra l’altro, cambiava spesso le chiese, frequentando quella di Santa Chiara, a Piazza dei Giuochi Delfici, ma anche quella di San Francesco, sulla via Trionfale, oppure quella del Gesù, in viale Regina Margherita ed altre ancora. Faccio altresì presente che mio marito non faceva la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte via Cortina d’Ampezzo, alle volte via Fani, alle volte via Trionfale”.

Qualcuno sapeva? C’erano più piani stabiliti per tendere l’agguato? Se non fosse stata percorsa via Fani, si sarebbe tentato il sequestro il giorno dopo? Andò bene la prima volta? C’era già stata un’altra preparazione che non trovò compimento?

C’è un’altra verità da scrivere e che non appartiene alle fonti ufficiali, ma che in gran parte è stata oggetto di approfondite analisi, di libri di successo in Italia e all’estero. Per far fronte alla crisi determinata dal rapimento furono costituiti dal Ministro dell’Interno Cossiga due comitati di crisi: un comitato tecnico-politico-operativo, presieduto dallo stesso ministro e coadiuvato dal sottosegretario Nicola Lettieri di cui facevano anche parte i comandanti di polizia, carabinieri e guardia di finanza, oltre ai direttori del Sismi e del Sisde, al segretario generale del Cesis, al direttore dell’Ucigos e al Questore di Roma, e un comitato cosiddetto di informazione che raggruppava Cesis, Sisde, Sismi e Sios. Parallelamente agiva, solo ufficiosamente, anche un terzo gruppo di esperti la cui esistenza si seppe nel 1981, quando Cossiga ne rivelò l’esistenza alla Commissione Moro, senza però specificare di cosa si occupasse nello specifico. Di questo organismo erano attivi, tra gli altri, Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del dipartimento di stato americano, Franco Ferracuti, Stefano Silvestri, Vincenzo Cappelletti e Giulia Conte Micheli.

L’altra verità si compone di un enorme puzzle, di una rete intricata di rapporti che portarono al sequestro e all’uccisione di Moro. Si è detto e scritto un’infinità di volte che fu implicata la loggia massonica P2 di Licio Gelli e che le Brigate Rosse sono state “gestite”, inconsapevolmente, dall’intelligence degli Stati Uniti (Cia) e dall’organizzazione Gladio, la rete clandestina della Nato che si opponeva all’ascesa del comunismo nei paesi dell’Occidente europeo.

Non va dimenticata la predisposizione del cosiddetto Piano Victor, alla fine di aprile, per cui se Moro fosse stato liberato, gli avrebbero impedito qualunque contatto con l’esterno mediante il ricovero in isolamento al Policlinico Gemelli, data l’urgenza di apprendere segretamente le eventuali rivelazioni fatte ai brigatisti.

Il 17 marzo 1981 si scoprì la lista degli aderenti alla P2: alcuni ricoprivano ruoli importanti nelle istituzioni durante il sequestro Moro. Altri erano stati promossi durante il sequestro stesso. Tra questi il Generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, il Prefetto Walter Pelosi, il Generale Giulio Grassini del Sisde, l’ammiraglio Antonino Geraci, capo del Sios della Marina Militare, Federico Umberto D’Amato, direttore dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, il Generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza, il Generale Donato Lo Prete, capo di stato maggiore della stessa, il Generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano, responsabile dei posti di blocco effettuati durante le indagini.

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La stessa esecuzione in via Fani risultò identica a quella che mettevano in atto i componenti della Raf tedesca, ma mai attuata in Italia. Si definisce “a cancelletto”: una tattica con la quale accerchiare una colonna di auto bloccando quella di testa con un falso incidente e chiudendo la via a quella di coda, precludendo al contempo le vie di fuga laterali con delle auto. Nello sparare si mira al busto del destinatario dei colpi perché l’arma si alza e i colpi raggiungono il capo.

Il giornalista Mino Pecorelli, sulla sua rivista Osservatorio politico, il 2 maggio 1978 tuonò: “L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il Partito Comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del paese. È un fatto che si vuole che ciò non accada. Perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali (Usa e Urss) mortificare l’ascesa del Partito Comunista, cioè del leader dell’eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un paese industriale. Ciò non è gradito agli americani. Ancor meno è gradito ai sovietici”.

Pecorelli fece anche riferimento ad un generale dei carabinieri in grado di intervenire per la liberazione di Aldo Moro, perché a conoscenza dell’ubicazione della prigione, al quale era stato impedito di agire esclusivamente per motivi politici. La persona era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pecorelli, in un articolo del 16 gennaio 1979 dal titolo Vergogna Buffoni, scriveva di una trattativa finita male: “Ma torneremo a parlare del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Brigate Rosse, della tempestiva lettera di Paolo VI, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti memoriali. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Brigate Rosse avrebbero ucciso il presidente della Democrazia Cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta”.

La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli fu assassinato da un sicario che gli esplose quattro colpi di pistola in via Orazio a Roma. Secondo i magistrati investigatori, Giulio Andreotti commissionò l’uccisione di Pecorelli che aveva pubblicato notizie sull’uccisione di Aldo Moro. In primo grado, nel 1999, la Corte di Assise di Perugia prosciolse Andreotti. Successivamente, nel 2002, la Corte di Assise d’appello ribaltò la sentenza di primo grado e Andreotti fu condannato a 24 anni di carcere come mandante dell’omicidio Pecorelli. Il 30 ottobre 2003 la sentenza d’appello venne quindi annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione: annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado. I nove giudici delle Sezioni Unite, presidente Nicola Marvulli, chiusero così la vicenda ultradecennale. Il caso Pecorelli meriterebbe un capitolo a parte, ma preferiamo offrire una panoramica delle stranezze che compongono l’altra verità, senza focalizzarci su alcune di esse in particolare.

Va menzionata la localizzazione della tipografia di via Foà, a seguito del pedinamento di Teodoro Spadaccini subito dopo il sequestro di Moro. Ritenuta completata la fase investigativa, con un primo rapporto consegnato, vennero richieste ed ottenute molto tardivamente le autorizzazioni ad effettuare controlli telefonici, mentre un secondo rapporto, del 7 maggio 1978, conteneva specifiche richieste di perquisizione. I relativi decreti furono emessi solo il 9 maggio, data di rinvenimento del corpo dell’onorevole, quando si era richiesto un intervento addirittura il 28 marzo. L’operazione portò all’arresto di numerosi appartenenti alla colonna romana delle Brigate Rosse, tra cui Triaca, Spadaccini, Lugnini e Marini, e alla scoperta della tipografia dell’organizzazione, ma solo il 17 maggio. La scoperta della tipografia di via Foà consentì di riscontrare numerosi legami fra questa e il covo di via Gradoli.

Sul sito www.archivio900.it, Roberto Bartali, docente universitario, ha pubblicato uno studio nel quale si sofferma su alcuni interrogativi. Uno di questi riguarda le borse di Moro: “Secondo la testimonianza di Eleonora Moro, moglie del defunto presidente, il marito usciva abitualmente di casa portando con sé cinque borse: una contenente documenti riservati, una con medicinali ed oggetti personali. Nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l’agguato sull’auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. La signora Moro in proposito ha delle precise convinzioni: i terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c’era una bella costellazione di borse. Nonostante l’enorme quantità di materiale brigatista sequestrato negli anni successivi all’interno delle numerose basi scoperte, delle due borse di Moro non è mai stata rinvenuta traccia, un fatto di rilievo se si considera soprattutto il contenuto dei documenti che il presidente portava con sé. Corrado Guerzoni, braccio destro dell’onorevole Moro, ha affermato che con ogni probabilità quelle borse contenevano anche la prova che il coinvolgimento del presidente della Democrazia Cristiana nello scandalo Lockheed era stato frutto di un’imboccata fatta dal segretario di stato americano Kissinger. Questo delle borse scomparse (e dei documenti da esse contenute) è un punto sul quale l’alone di mistero tarda a scomparire, tant’è che nell’ultima relazione del presidente della Commissione stragi, il senatore Pellegrino continua ad indicarlo come di cruciale importanza”.

Sergio Flamigni riporta nel suo libro già citato, il caso del rullino smarrito: “Gherardo Nucci, di professione carrozziere, la mattina del 16 marzo, verso le ore 9, stava tornando casa a bordo della sua auto per recuperare la macchina fotografica con la quale di solito fotografava le auto prima di ripararle. All’incrocio di via Stresa, mentre imboccava via Fani, un giovane gli ingiunse bruscamente di accelerare l’andatura; il giovane indossava un giaccone blu, maneggiava una paletta rossa della polizia e al primo cenno di obiezione da parte di Nucci gli urlò di andare via. Nucci proseguì in fretta per via Stresa, parcheggiò l’auto a pochi metri dall’incrocio, tornò indietro a piedi, e resosi conto che pochi istanti prima era stata compiuta una strage, salì di corsa nella sua abitazione al terzo piano, e dal balcone scattò sette-otto fotogrammi della scena dell’agguato; nel mentre vide arrivare sul posto un’auto della polizia a sirene spiegate. Nucci preciserà di avere scattato una dozzina di fotografie, tre o quattro delle quali nei primi minuti successivi alla sparatoria, e quando la polizia non era ancora arrivata; poi continuò a scattare altri fotogrammi all’arrivo delle due volanti, e infine, scese in strada, completò l’ultima parte del rullino quando sul posto c’era ormai la folla. Nel pomeriggio Nucci affidò il rullino a sua moglie, la giornalista Maria Cristina Rossi, la quale lo portò a sviluppare e prese accordi telefonici col magistrato per la consegna. Poiché nella pellicola c’erano anche alcune fotografie di auto danneggiate che Nucci doveva riparare, il magistrato trattenne solo la parte con le foto relative al luogo della strage. Ma la preziosa pellicola affidata alla magistratura risultò ben presto smarrita, e non verrà mai più ritrovata”.

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Moro2Steve Pieczenik, l’esperto di terrorismo del dipartimento di stato americano, nel libro-intervista Abbiamo ucciso Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra di Emmanuel Amara (Cooper 2008) lanciò una vera e propria bomba, anche se in Italia la notizia non ha mai avuto una grande ripercussione: “Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro al fine di stabilizzare la situazione dell’Italia. I brigatisti avrebbero potuto cercare di condizionarmi dicendo di soddisfare le loro richieste. Ma la mia  strategia era che non funzionava così, che ero io a decidere che dovevano ucciderlo a loro spese. Mi aspettavo che si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro. E questa sarebbe stata una grossa vittoria per loro”.

L’ammissione ha dell’incredibile. Pieczenik rivendica la scelta di aver finto di intavolare una trattativa con le Brigate Rosse quando invece era stato deciso che la vita dello statista fosse il prezzo da pagare. Afferma: “La mia ricetta per deviare la decisione delle Brigate Rosse era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i comitati dicendo a tutti che ero l’unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto”.

Pieczenik spiega che Cossiga aveva capito molto bene quali fossero i giochi. Prosegue: “Moro, in quel momento, era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a far scattare la trappola tesa alle Brigate Rosse. Abbandonare Moro e fare in modo che morisse con le sue rivelazioni. Per giunta i carabinieri e i servizi di sicurezza non lo trovavano o non volevano trovarlo”.

Durante la preparazione del documentario francese “Les derniers jours de Aldo Moro”, il giornalista Emmanuel Amara avvicina Pieczenik, che accetta di farsi intervistare. Nel libro citato è riportata l’intervista. Ecco uno dei passi più inquietanti: “Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo. La destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate Rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all’interno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un’interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile. Il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta e ridare un po’ di fiducia all’economia. Bisognava fare attenzione sia a sinistra sia a destra: bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra. Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere”.

Annota Mario Cervi il 10 marzo 2008 su Il Giornale: “Pieczenick non è un mitomane. Arrivò a Fiumicino ufficialmente, la sua missione era autorizzata dalla Casa Bianca. Questo dà un peso particolare a quanto racconta e dà un avallo rilevante ad una tesi della cospirazione per la fine di Moro che è stata sostenuta da molti altri, in versioni divergenti, e il più delle volte su fondamenti di prova e di logica del tutto inconsistenti. Attingendo a motivazioni delle sentenze che condannarono i sequestratori e uccisori di Moro, tanti politici e saggisti hanno insistito, accade quasi sempre, basta citare l’attentato al presidente Kennedy e le circostanze dell’uccisione di Mussolini, su una verità nascosta. È stato ipotizzato un legame con i servizi segreti israeliani, che avrebbero avvicinato elementi del terrorismo rosso per indurli ad agire, e parallelamente per indurre gli Usa a privilegiare Israele e non l’Italia come alleato sicuro nel Mediterraneo. Quanto alla P2, è risaputo che la maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta le attribuì un’azione tenebrosa ad ampio raggio, un intervento nei più tremendi misfatti del dopoguerra italiano (questo in contrasto con la magistratura ordinaria che ridusse la P2 al rango d’un avido comitato d’affari). Tina Anselmi, che presiedette la Commissione d’inchiesta, ha affermato che ci sono ancora tanti interrogativi non risolti nella vita di questo paese. A cominciare dalla morte di Aldo Moro. Non sappiamo ancora oggi dove è stato nascosto e non sappiamo per ordine di chi è stato ucciso. Che la P2 avesse un progetto politico è provato, è agli atti”.

Moro3John Coleman, ex agente, pubblicò negli Stati Uniti il libro The Conspirators’Hierarchy. The Commitee of 300 (American West Publisher 1992) in cui riferì: “Aldo Moro fu un leader che si oppose alla crescita zero e alla riduzione della popolazione pianificata dal Nwo per l’Italia, per questo incorrendo nelle ire del Club di Roma, un’entità creata dagli Olympians della Commissione dei 300 per portare a compimento le sue politiche. In un tribunale di Roma, un amico intimo di Aldo Moro, il 10 novembre 1982, testimoniò che l’ex Presidente del Consiglio fu minacciato da un agente della Riia (Istituto reale per gli affari internazionali) che era anche membro della Commissione dei 300, mentre era il segretario di Stato Usa in carica. Quest’uomo era Heny Kissinger. Nel mio resoconto del 1982 su questo crimine, abbiamo esposto che Aldo Moro, un leale membro del partito democristiano, venne ucciso da assassini controllati dalla Loggia P2 che avevano come scopo quello di portare l’Italia entro i confini del progetto del Club di Roma per deindustrializzare il paese e ridurne considerevolmente la popolazione. Il progetto di Moro di stabilizzare l’Italia attraverso la piena occupazione e una pace industriale e politica, avrebbe rafforzato l’opposizione cattolica al comunismo, e reso la destabilizzazione del medio Oriente (che era l’obiettivo primario) molto più difficile da ottenere per il comitato”.

Henry Kissinger aveva detto, ammettendo l’ambiguità di alcune operazioni, che si possono creare di grandi dimensioni. Non c’è dubbio che nel momento in cui si conducono operazioni clandestine, esse dovrebbero essere attentamente controllate, prima all’interno dell’esecutivo, per essere sicuri che non vi siano alternative e che esse corrispondono agli obiettivi politici.

Il 30 dicembre 2008, la redazione di “America Oggi” pubblicò un articolo: “L’amministrazione americana guidata dal presidente Jimmy Carter prese in considerazione l’ipotesi di condurre azioni segrete sul suolo italiano pur di spaccare il Partito Comunista e stroncare definitivamente ogni possibilità di compromesso storico. È ciò che emerge da una serie di documenti datati 1978 e sino ad oggi custoditi negli archivi segreti del Foreign Office britannico. I faldoni, consultati in esclusiva dall’Ansa, sono stati resi pubblici attraverso il National Archive, ovvero l’archivio centrale britannico, non appena sono scaduti i sigilli del segreto di Stato, 30 anni. E seguono con chirurgica precisione le vicende che hanno scandito l’anno orribile della democrazia italiana: la crisi del governo Andreotti, le consultazioni per formare un nuovo esecutivo, il rapimento Moro e infine l’assestamento del panorama politico italiano che seguì il ritrovamento del corpo in via Caetani. Soprattutto, i documenti desecretati raccontano le ansie e i retroscena sia dell’amministrazione americana che di quella britannica. Gli Usa, in particolare, furono gettati nel panico dal crollo del terzo governo Andreotti. E reagirono con una tale determinazione da sorprendere persino gli inglesi. Che, come dimostrano i carteggi tra l’ambasciata britannica a Roma e il quartier generale londinese del Fco, si rivelarono meno ossessionati dal pericolo rosso made in Italy. In un comunicato cifrato datato 21 gennaio 1978 l’ambasciatore britannico a Roma, sir Alan Campbell, chiede al primo Ministro James Callaghan di scrivere un telegramma d’incoraggiamento ad Andreotti, che ha ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo. Contemporaneamente, il Presidente Carter pronuncia in conferenza stampa il famoso editto in cui avverte gli italiani che l’ingresso al governo dei comunisti avrebbe delle pesanti conseguenze. Gli americani, consapevoli dell’impatto che avranno tali esternazioni in Italia, chiedono agli inglesi di sostenerli pubblicamente, emettendo una dichiarazione congiunta. I britannici, però, si smarcano. Campbell, da Roma, consiglia prudenza. Il 23 gennaio Londra si mette in contatto con il suo ambasciatore a Washington, Peter Jay”.

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Nella lettera che Moro scrisse a Benigno Zaccagnini il 20 aprile 1978, si evince che il segreto di Stato poteva essere violato dallo stesso detenuto, spinto a far capire che la dirigenza democristiana non era esente da responsabilità precise e non legate solo al sequestro: “Di questi problemi terribili e angosciosi non credo vi possiate liberare anche di fronte alla storia, con la facilità, con l’indifferenza, con il cinismo che avete manifestato sinora nel corso di questi quaranta giorni di mie terribili sofferenze. Se questo crimine dovesse essere perpetrato, si aprirebbe una spirale che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia”.

Moro4I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia (Newton Compton 2013), di Ferdinando Imposimato, permette di acquisire ulteriori, determinanti e finora inediti elementi. Torna in ballo il ruolo di Mario Moretti che era interessato ad entrare in contatto con altre strutture di guerriglia per dotare l’organizzazione di armamento pesante. In Cecoslovacchia esisteva una base operativa delle Brigate Rosse che accoglieva alcuni terroristi italiani per l’addestramento militare.

Ferdinando Imposimato è presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione ed è stato giudice istruttore del caso Moro. Tra l’altro ha pubblicato anche il best seller La Repubblica delle stragi impunite (Newton Compton 2012) dove si occupa della strategia della tensione, dell’enigma di via Sicilia, delle bombe del 1969, delle stragi del 1974, della strage di Bologna, dell’attentato dell’Addaura, della strage di via Capaci.

Riferisce nel libro I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia: “Già nella mia sentenza avevo messo in rilievo i contatti tra le Brigate Rosse e i servizi israeliani interessati, in funzione filoamericana, a creare problemi all’Italia. Essi, tra il 1971 e il 1973, avevano preso contatto con Moretti e Franceschini offrendo armi, finanziamenti e coperture di vario genere, chiedendo in cambio di intensificare l’impegno diretto a destabilizzare la situazione politica italiana. Questo programma doveva essere attuato attraverso più eclatanti azioni politico-militari delle Brigate Rosse”.

Imposimato ha intitolato un paragrafo “I giorni di Giuda”. Specifica che il 7 ottobre 2008 lo andò a trovare nel suo studio di Roma, all’Eur, il luogotenente Mario Paganini con il brigadiere Giovanni Ladu e altri esponenti della Guardia di Finanza di Novara. “Ladu aveva scritto un breve memoriale nel quale sosteneva di essere stato con altri militari, dal 24 aprile all’8 maggio 1978, vigilia dell’assassinio di Aldo Moro e del ritrovamento del suo cadavere nella Renault rossa parcheggiata in via Cateani, a Roma in via Montalcini, per sorvegliare l’appartamento prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia Cristiana”. Imposimato chiede a Ladu perché ha lasciato passare tutti questi anni prima di fare una rivelazione a dir poco destabilizzante. “Non ho fatto questo passo prima per diversi motivi. Anzitutto, perché avevo avuto, assieme ad altri militari che sanno le mie stesse cose, una specie di consegna del silenzio e del segreto su quanto era avvenuto e avevamo visto e sentito. In secondo luogo, all’epoca dei fatti ero molto giovane e ho temuto possibili conseguenze non solo sulla carriera, ma anche sulla mia incolumità e su quella di mia moglie”.

Nel colloquio tra Ferdinando Imposimato e Giovanni Ladu emerge che alcuni militari avevano compiti di osservazione. Indossavano magliette e divise nere: “I lampioni non so se fossero gli stessi di oggi. Nella zona ne togliemmo due. Venne attivata una telecamera attraverso la quale vedevamo la facciata dell’appartamento di quella che capimmo essere la prigione di Aldo Moro”.

Vari militari di leva erano giunti a Roma ed erano alle dipendenze di sette ufficiali in divisa. Alcuni di essi, tra cui Ladu, entrarono in un palazzo in prossimità dell’edificio che avrebbero dovuto controllare. Rivela ancora l’ex militare: “La sera del 24 aprile facemmo tutti insieme un sopralluogo all’esterno del covo al civico 8 di via Montalcini per esaminare da fuori l’appartamento e controllare i cassonetti dell’immondizia come ci era stato detto di fare”.

Il brigadiere della Guardia di Finanza ricostruisce anche un altro episodio: “La vigilanza era rivolta a un altro edificio dove era installato un monitor collegato a una telecamerina posta all’interno dell’androne d’ingresso di via Montalcini 8. Un secondo monitor era collegato alla telecamera installata nella plafoniera del lampione. Esistevano microfoni ad ampio raggio posti nell’appartamento superiore al luogo di detenzione dell’onorevole ai quali furono collegati dei registratori a nastro. Mi ricordo che due di queste bobine le trovai io stesso dentro uno dei due bidoni della spazzatura che svuotavamo e le consegnai personalmente al referente dei carabinieri che era lì con noi”.

Ferdinando Imposimato ricevette delle e-mail da parte di un soggetto misterioso che ripete la stessa versione dei fatti. Si firma con il nome di Oscar Puddu e spiega: “L’operazione Moro prevedeva l’intervento di un commando di otto persone appartenenti al Gis dei carabinieri e doveva avvenire l’8 maggio 1978, ma fu annullato il giorno precedente”.

Anche per Puddu ci fu sconcerto, così come per Ladu, di fronte all’annullamento dell’intervento armato. Nella premessa al libro Imposimato dice che forse è stata attuata una massiccia opera di depistaggio e di sistematica intimidazione verso chi sapeva la verità.

La versione contenuta nel libro di Imposimato è suffragata dall’intervista apparsa su il manifesto il 19 agosto 2010, a firma di Iaia Vantaggiato, a Franco Piperno, ex leader di Movimento Operaio, il quale parlò di una vera e propria proposta: Un esponente della Democrazia Cristiana, nello specifico Amintore Fanfani, avrebbe dovuto pubblicamente riconoscere la disponibilità a trattare coi brigatisti sulla base della scarcerazione di alcuni di quelli che erano stati arrestati ma soprattutto della chiusura del carcere dell’Asinara, un carcere particolarmente crudele, direi al limite della tortura. Questo esponente della Democrazia Cristiana avrebbe dovuto dare la disponibilità a compiere o a proporre una misura che era nell’ambito della legalità. L’oggetto concreto della trattativa si sarebbe precisato successivamente. In quel momento la cosa importante era interrompere quell’abbrivio, l’uccisione di Moro, e dare un segnale individuando tra le richieste delle Brigate Rosse quali erano legalmente accettabili da parte dello Stato. E tutto ciò andava fatto non da qualcuno che ricopriva un incarico di Stato, ma da Fanfani che ricopriva solo un incarico politico”.

La trattativa, però, si inceppò. Disse Piperno: “La sera del venerdì precedente all’uccisione di Moro venne da Signorile (esponente del Partito Socialista) il consigliere militare del Presidente della Repubblica e anche un motociclista carabiniere che avrebbe dovuto portare queste indicazioni a Fanfani. Così io me ne andai quel venerdì sera convinto che le chance di salvare Moro fossero alte. Ammetto per onestà intellettuale che non avevo nessuna simpatia per Moro e che di per sé non è che fossi in preda all’angoscia se l’uccidevano o meno. Quello che mi sembrava evidente è che uccidere Moro, oltre che un crimine, sarebbe stato un gigantesco errore per le conseguenze che avrebbe portato non tanto alle Brigate Rosse che erano clandestine, ma soprattutto al movimento”.

E ancora: “Cossiga aveva deciso che era meglio sacrificare Moro. Glielo dissi anche, anni dopo. E credo che nella sua decisione abbia avuto un’influenza determinante l’atteggiamento del Partito Comunista. Penso che coloro che hanno messo un veto totale a ogni possibilità di trattativa siano stati proprio i dirigenti del Partito Comunista. Cossiga si allineò per tenere in piedi il rapporto col Partito Comunista e per salvare il compromesso storico. E su questo c’era anche il consenso dell’allora segretario della Democrazia Cristiana, Benigno Zaccagnini. Mentre Fanfani, secondo quanto lo stesso Signorile mi disse, era per provare”.

E torniamo anche a via Gradoli. Via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. In un articolo sul Corriere della Sera datato 1 marzo 2010, Paolo Brogi scrive: “È lì che abitavano nella primavera del 1978, durante il sequestro Moro, i brigatisti Moretti e Barbara Balzerani. Lucia Mokbel era l’inquilina della porta accanto, l’interno 9, dove alloggiava col convivente Gianni Diana, impiegato da un commercialista amministratore di immobili in cui figuravano anche società in mano ai servizi segreti. Gli stessi servizi segreti che avevano in via Gradoli appartamenti intestati a società di copertura. La Mokbel al primo processo Moro raccontò la storia di un bigliettino, poi sparito, in cui lei faceva sapere di aver sentito alle tre di notte il ticchettio di una trasmissione in Morse che proveniva dall’appartamento adiacente, il covo delle Brigate Rosse. Un biglietto consegnato agli agenti di polizia che il 18 marzo erano andati a bussare a parecchie porte del condominio e che era indirizzato al commissario Elio Cioppa, che poi risultò iscritto alla P2. Era solo un’operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l’autorizzazione di forzare le porte, ci si limitò a chiedere informazioni ai vicini. Ma Lucia Mokbel, la signora in questione, aggiunse di aver dato ai poliziotti, perché lo consegnassero al dottor Cioppa, un biglietto in cui diceva di aver sentito la sera prima segnali in Morse provenienti dall’appartamento adiacente. Ma quel biglietto non è mai stato ritrovato”.

Secondo Sergio Flamigni è molto dubbia anche la circostanza che l’ostaggio venne portato e chiuso la stessa mattina del 16 marzo nel covo-prigione di via Montalcini, in una cella ricavata nell’appartamento intestato a Laura Braghetti. “Moretti e gli altri carcerieri hanno descritto la cella-prigione di Moro come un cunicolo (secondo la Braghetti, una celletta larga novanta centimetri e lunga due metri), secondo Maccari larga un metro e lunga due metri e ottanta, dove il prigioniero non poteva camminare, al massimo stare in piedi e spostarsi di soli due passi, perché in quello spazio ci doveva stare un letto, un piccolissimo comodino, un wc chimico, una catinella con acqua, per cui Moro scriveva stando sdraiato con dei cuscini. Era una cella completamente insonorizzata e priva di aerazione per cui un ventilatore immetteva aria attraverso un tubo di circa due metri passando per un buco nella porta (ma il ventilatore veniva azionato solo per qualche ora al giorno). Tutto ciò conferma che quella prigionia avrebbe potuto servire per un sequestro di brevissima durata, non certo per una detenzione di 55 giorni, e tantomeno per un sequestro della durata di 6 o 9 mesi come i brigatisti inizialmente avevano progettato”.

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moro5C’è un altro libro verità di notevole portata. Si intitola Il memoriale della Repubblica e lo ha scritto lo storico Miguel Gotor (Einaudi 2011). Il sottotitolo allude all’anatomia del potere italiano. Uno dei riferimenti più approfonditi fa capo al ritrovamento della documentazione appartenente a Moro in via Monte Nevoso nell’ottobre 1978. Consta di tre parti. Nella prima figura una requisitoria contro la dirigenza della Democrazia Cristiana, nelle seconda Moro fornisce riscontri sulle colpevolezza del partito, mentre la terza parte è relativa ai rapporti dello Stato con i servizi segreti stranieri.

Asserisce Gotor: “Come è logico, il fatto che si trattasse solo di dattiloscritti ha fatto sì che sia le lettere che il memoriale di Moro divulgati nel 1978 fossero a lungo giudicati non autentici da molti uomini politici di allora e dagli stessi familiare dell’autore, a partire dalla comprensibile considerazione che uno scritto battuto a macchina non firmato poteva essere stato redatto da chiunque e poi attribuito a Moro insieme al suo contenuto”.

Il secondo memoriale, sempre in via Monte Nevoso, venne rinvenuto nell’ottobre 1990 dentro un’intercapedine artificiosamente creata con un pannello di gesso. Oltre a del denaro venne estratta una cartelletta marrone sigillata da nastro adesivo contenente più di 400 pagine fotocopiate degli originali di Moro. Veniva meno l’ipotesi sull’inautenticità dei testi.

Scrive Gotor, a proposito del fatto che non fossero stati trovati durante la prima perquisizione: “Prima di tutto, l’inverosimiglianza con quanto avvenuto rendeva difficile accettare la svista degli esperti carabinieri del nucleo antiterrorismo. A partire dalle esigue dimensioni dell’appartamento, composto da una sola stanza, un bagno, una cucina e dal fatto che il pannello di gesso fosse agevolmente individuabile anche ad un occhio inesperto poiché formava un’evidente asimmetria tra le due finestre della stessa camera”.

Ma il memoriale è completo o ancora mancante di alcune pagine? Ed è stato aggiunto in un secondo momento nell’appartamento di via Monte Nevoso? Da chi? Le perizie escludono che il pannello di gesso sia stato sistemato o rimosso tra il 1978 e il 1990. Ma perché la casa non è stata mai più riaperta nonostante le insistenze del parlamentare Sergio Flamigni, convinto che avrebbe trovato ancora qualcosa di utile per le indagini? E se il memoriale non fosse completo, perché sarebbe stato rimesso in quell’intercapedine dopo averne sottratto delle pagine? Non era più conveniente farlo sparire del tutto? Nei testi Aldo Moro non dice nulla di scandaloso. Cossiga gli era parso fuori di ruolo, come ipnotizzato. Forse da Berlinguer, o dallo stesso Andreotti. Cosa poteva aver rivelato Moro di così compromettente che non si poteva diffondere? Cosa poteva aver messo nero su bianco alla presenza di Mario Moretti e degli altri brigatisti? Craxi pensò ad una manina, Andreotti ad una manona, entrambe pronte a tendere una trappola l’uno all’altro. Sta di fatto che cinque processi non hanno permesso di recuperare gli originali degli scritti di Moro durante la prigionia, né la trascrizione seguente, né la sbobinatura degli interrogatori registrati al magnetofono, né gli stessi nastri delle registrazioni. Sono stati effettivamente distrutti dalle Brigate Rosse? È sufficiente la motivazione data, e cioè che si sarebbe riconosciuta la voce di Mario Moretti?

Ancora Flamigni scrive: “Nella torbida vicenda Moro, oltre al materiale occultato dalle Brigate Rosse (scritti e documenti del prigioniero), e alla documentazione sottratta dagli archivi del Viminale, importante materiale venne fatto sparire perfino dagli uffici della Procura della Repubblica. Non solo la negligenza del magistrato inquirente provocò lo smarrimento del rullino fotografico scattato pochi momenti dopo la strage: dagli archivi della procura sparirono alcune bobine contenenti le intercettazioni telefoniche effettuate nel corso dei 55 giorni del sequestro. E alcuni altri nastri risulteranno parzialmente manipolati, con la cancellazione di frammenti o parti consistenti dei colloqui; è il caso, per esempio, di una telefonata tra il ministro Cossiga e il collaboratore di Moro, Nicola Rana, la mattina del 13 maggio”.

Di nuovo Flamigni: “Nel 1999 il presidente della Commissione stragi, senatore Giovanni Pellegrino, ha avvalorato l’ipotesi che i brigatisti avessero in mano un doppio ostaggio: Moro e i segreti di sua conoscenza, che le carte degli interrogatori avessero interessato intelligence straniere, e che il recupero di quelle carte fosse stato affidato (o assunto da) una intelligence alleata. L’interesse dei servizi italiani e alleati per il recupero delle bobine e degli scritti di Moro impendendone la divulgazione, derivava da possibili rivelazioni di segreti di Stato e dell’alleanza atlantica dei quali il prigioniero era certamente a conoscenza. Una conferma venne dal Piano Victor predisposto alla fine di aprile 1978 per impedire qualsiasi contatto di Moro con l’esterno nella immediatezza della sua auspicata liberazione, piano che prevedeva un ricovero in isolamento al Policlinico Gemelli, data l’urgenza di apprendere immediatamente e segretamente ciò che Moro aveva potuto rivelare ai suoi rapitori”.

Flamigni aggiunge: “Da quel momento il problema non era solo salvare Moro, ma neutralizzare ciò che Moro aveva detto alle Brigate Rosse. Ciò presupponeva non tanto la necessità di localizzare la prigione, liberare l’ostaggio e arrestare tutti i brigatisti che sapevano delle rivelazioni di Moro, quanto piuttosto di trovare le bobine, gli originali, e tutte le copie delle trascrizioni e delle carte degli interrogatori. Un obiettivo difficile da cogliere, anche perché il luogo della prigione poteva non essere lo stesso dove erano conservate le bobine e i materiali degli interrogatori”.

C’è un altro passo di estremo interesse: “Secondo Moretti, dopo il deludente appello del pontefice, Moro scrive al Papa una seconda lettera, gli dice che la sua chiusura lo ha sconvolto. Ma tra le carte trovate nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso non c’è traccia della lettera menzionata dall’ex capo brigatista. Ci sono infatti due lettere di Moro indirizzate a Paolo VI, ma nessuna delle due ha un simile contenuto; e se davvero Moro avesse scritto una lettera al Papa in seguito al suo solenne appello, come afferma Moretti, le missive indirizzate al pontefice sarebbero state non due bensì tre, e in questo caso sarebbe interessante sapere quale ragione indusse le Brigate Rosse a censurare anche la terza missiva arrivando a eliminare ogni traccia”.

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Nel giugno 2013, i due artificieri Vito Antonio Rasi e Giovanni Circhetta, dopo ben 35 anni di silenzio, si sono finalmente decisi a raccontare la loro verità. Dicono di essere stati i primi ad accorrere, il 9 maggio 1978, quando Aldo Moro venne trovato morto, il corpo rannicchiato nella Renault rossa posteggiata in via Caetani. Rasi e Circhetta ammettono di essere arrivati molto prima delle 13.30, ora indicata dalla versione ufficiale, e che quando accorsero, trovarono l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga che non appariva per nulla turbato. Mostrava indifferenza per l’accaduto, quasi fosse già a conoscenza della tragedia che si era consumata. Dicono che il corpo di Moro venne scoperto prima della famosa telefonata del brigatista Valerio Morucci al professor Francesco Tritto, con le indicazioni di dove Moro era stato lasciato. E dicono che in quell’occasione si decise il ritrovamento secondo la versione ufficiale. Rasi e Circhetta raccontano che vicino al corpo di Moro c’erano due lettere e un assegno, successivamente fatti spariti. Difficile da accettare, almeno nei termini in cui le rivelazioni vengono riferite.

Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione stragi, sostiene che le rivelazioni sono l’evidenza che in quei giorni era in corso una trattativa che sfruttava un canale diverso da quelli noti. Tutto questo confermerebbe che i contatti per il rilascio dello statista democristiano erano in stato avanzatissimo. Erano coinvolti non solo i vertici dello Stato, ma anche diverse intelligence straniere.

Su Huffington Post, il 29 giugno 2013, Pietro Salvatori ha intervistato Giovanni Pellegrino: “C’era una trattativa in corso, e per trattare si utilizzavano canali diversi da quelli che conosciamo. La domanda da porsi è perché queste testimonianze arrivano adesso. O c’è dietro una mania di protagonismo, o, dopo tanti anni, si vuole passare all’incasso. Ad un certo punto, per esempio, arrivò un lancio d’agenzia da Gerusalemme nel quale in pratica si diceva che, se non avessi smesso di tirare in ballo i servizi israeliani, il Mossad mi avrebbe raccontato la vera storia del sequestro, come se quella emersa successivamente non fosse attendibile e gli israeliani avessero in mano quella vera. Lo stesso Moro dal carcere indicò a Cossiga la ragion di stato quale movente principale per effettuare una transazione, sottolineando che proprio in funzione della ragion di stato sarebbe dovuta rimanere segreta. Poi Mario Moretti pubblicò tutto, e la situazione si incancrenì. Ci sono tantissime incongruenze nelle ultime 24 ore di vita di Moro, perché i brigatisti hanno raccontato bugie. Dicono per esempio che non sapesse che sarebbe stato ucciso, ma lui, in una delle sue ultime lettere, dimostra il contrario. Una delle più evidenti, poi, è che l’autopsia dimostra che lo statista non morì sul colpo, ma quando lo lasciarono nel bagagliaio della Renault era agonizzante e morì per dissanguamento. Loro raccontano di aver trasportato il corpo per mezza Roma, ma come è possibile se non era ancora morto? Il luogo dell’esecuzione è molto più vicino a via Caetani di quanto le Brigate Rosse raccontino”.

Salvatori chiede: “Se l’auto viene lasciata sul luogo prima delle 10 e i primi funzionari delle forze dell’ordine arrivano sul posto poco dopo quell’ora, è possibile che Moro fosse ancora vivo, anche se probabilmente colpito da ferite mortali? A questo non voglio credere, ma la possibilità c’è. Il punto è che il vero mistero non è sull’agguato, sul quale la magistratura si è concentrata, ma su quello che è successo nelle ultime ore. Quando mandammo le riflessioni politiche della commissione proprio su questo punto, l’indagine della procura fu immediatamente archiviata. Le motivazioni non sono mai state rese note. Quando il vice presidente della Commissione, Vincenzo Manca, chiese di vederle, gli fu risposto che erano coperte dal segreto istruttorio, il segreto meno segreto della storia d’Italia. Rimane il fatto che l’effetto drammatico che causano le nostre riflessioni è l’abdicazione dell’indagine da parte della magistratura, che chiude prontamente le indagini. Dunque oggi l’unica verità è che quella diffusa in via ufficiale sulle ultime ore è sbagliata. Le cose non andarono come le si sono raccontate”.

A Vito Antonio Raso il sangue di Moro sembrava fresco, come se fosse stato ucciso da poco. Più fresco di quello sui corpi di via Fani. Una versione che è oggi corroborata dalla testimonianza di Claudio Signorile che quella mattina era con Cossiga.

Alessandro Moscè

(continua)

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