21 Giugno 2018

“Che venga ereditato, che ci sia anche solo un testimone”: dialogo con Tiziana Cera Rosco

Poiché le parole hanno la ferocia delle locuste, bisogna fermarsi, prolungando la pazienza al pasto. Mi siedo sugli asfalti e muto le palpebre in segni che sigillano una lettera. Non so se capii la natura di Tiziana, la prima delle molte volte. Non importa perché quella – sulla sella del millennio – fu un’era d’ascia e di fiume. Però, quando ho locuste che tintinnano sulla lingua – il segno inderogabile che anch’io sono decimato dal ‘pubblico’, sfiancato dal fraintendere – so che devo ascoltare Tiziana, di cui conosco l’attitudine artica, di cui comprendo la natura di rapace, di chi, sposandosi agli andati, ha l’iride radiosa. Il lavoro di Tiziana Cera Rosco – che ha qualcosa della bestia e della dedizione – coagula ora in una forma informale. Un libro. Che si è costruito lei, con la disparità del compito, nella diaspora. Il libro s’intitola Corpo finale, ed è forse l’esito del mutamento definitivo di Tiziana, che nasce alla poesia e nel verbo – anche nelle dilaniate e purissime performance – rientra. Solo che è un esito nascosto, scritto su pelle di serpe interrata: non esiste ‘editore’, non c’è ‘tiratura’, ma richiamo. Semmai: è la circunnavigazione straziante del dono. L’unico modo in cui si depone la poesia – chiede accoglienza nella tua clausura, e quando la afferri, l’ospite è sparito da tempo. L’esercizio che va fatto, per chi è alfiere all’ascolto e ha la fortuna di intercettare Tiziana in questo e altri mondo, è aprire il libro a caso, mettersi tra i denti un verso, qualunque, e su quello impostare l’alba. “Poi presero a disertare lo spazio”; “Nessun bisogno di piangere sui presagi”; “Rimuoverai quella dizione così astratta”; “Un temporale battuto a terra con le pietre”; “Non credere alla resurrezione, all’anticipo”; “Aspiravamo a perdere la nostra reversibilità”. Come una divinazione – che è più ardua del divino. Raccogliendo gli occhi come una sassaia, in grembo, nella coperta. A questa donna che si scuote e si scuoia in ‘pubblico’, che indossa la maschera del rapace e ha un corpo risolto nel nord, chiedo tutto.

La cosa più stupida. Chi è la Sposa Uccello e perché ti fai fotografare indossando la maschera di un rapace?

Ho sempre pensato che gli uccelli abbiano un’immaginazione insonora. Il giorno del mio 43° compleanno, anzi la notte, l’ho risognata. Dico risognata perché spesso entrava nel mio inconscio con varie apparizioni. L’aquila era orribile ma immensa, quando la vidi davvero la prima volta, davanti a me, a distanza di un braccio. I primi contatti con animali grandi erano da morti. Orso lupo cervo aquila frusciavano e si facevano vedere solo a grande distanza. La vicinanza con il loro corpo era possibile solo col loro corpo morto. Così la vidi che era morta: le avevano disteso le ali e gliele avevano tagliate. Un torso d’aquila. C’ero io da piccola, lì, nel bosco d’Abruzzo, e c’era questo mostro senza ali. Entrambe eravamo a casa. Io viva e l’altra sembrava più viva di me, una mutilazione dello spirito dell’animale. Poi, dicevo, ho fatto questo sogno in cui lei era vestita come una persona e andavamo insieme in un posto dove vendevano pietre perché dovevamo costruire una zattera per il fiume vicino ad un rifugio che ho tra i valdesi. La sua surrealtà mi ha dato una dimensione che fa parte della dimensione della mia vita: mettere in campo forze che parrebbero senza destinazione. Mi sono fidata del sogno, di quello che avrebbe visto il sogno nel tempo (che ovviamente ancora non so). E così mi sono fatta un augurio di compimento (non è questo il compleanno?) comprando la testa d’aquila che quel giorno ho visto in un negozio, buttata a terra. Il 19 novembre del 2016 siamo andate insieme nel rifugio di Aspera in Piemonte (chiamato anche La Casa del Senza) in cui diventare “una” e vedere di quale mondo siamo la metà. Mi sono resa conto poi, nel tempo, di quanti miei lavori portino come titolo “la sposa”. Ho sempre con me testimoni silenti, mai vivi, che attestano passaggi vitali però, ne diventano il simbolo. Lei, a differenza di altri testimoni, è la prima che è me. Non posso dire se sia il mio doppio, ma non mi muovo più senza di lei. E quindi non posso interrogarla questa testa d’aquila perché quando la indosso siamo la stessa persona e quindi mentirebbe pur di proteggersi, e quando non siamo insieme ritorna nel suo silenzio di testimone, non risponde. Ed io non posso farlo per lei. Si lascia fotografare da me, per questo molte foto sono autoscatti. Si lascia fotografare da altri solo in mezzo alla gente, di cui parrebbe fare parte. Mi ha reso una viaggiatrice e con il suo linguaggio insonoro, medito sui luoghi. Forse cerchiamo un Luogo. Sapendo che nessun uomo ha un nome con cui poterci battezzare, cerchiamo un Territorio.

corpo finaleUna cosa che pare stupida ma forse non lo è. ‘Corpo finale’, questo corpus infinito di poesie, sassaia di parole, come si salda alla tua attività artistica, come questi verbi dettagliano e tintinnano, finalmente e senza finiture il tuo corpo d’artista?

Ho avuto una certezza nello scegliere il titolo che mai prima d’ora e questa cosa mi impensierisce un po’. Ogni titolo non è un riassunto del libro a cui si riferisce ma ne è il coccige. D’altra parte io so benissimo che fino ad un Corpo Finale io vivo sempre in perenne vigilia. Ma a volte non capisco se in questo Corpo io ci sia già passata in mezzo. Se è morto ed io non devo fare altro che deporlo definitivamente o se sono morta io in lui, anni fa, essendo passata dentro tutto ed ora io non stia facendo altro che raggiungermi. Ad ogni modo, per rispondere come si salda a tutto il resto della mia attività artistica, non so se riesco a trovare un punto di sutura perché tutti i linguaggi fanno parte di un’unica Opera alla fine della quale potrò essere amata. La scultura non è diversa dalla poesia, come la fotografia non è diversa dalla performance. È tutto assurdamente fluido, fa parte del movimento di un unico corpo in parte occultato. Questo discorso vale anche per i materiali. Se guardi una mia performance uso gli stessi materiali che uso nelle sculture e raggiungo la stessa immagine che ho nei selfportrait i quali sono tenuti da parole che scolpiscono il titolo di alcune sculture le quali reggono a loro volta le performance. Tutto è circolare, tutto richiama tutto. Ma non so mai in che punto mi trovo di questo tutto. In passato ci sono stati gradi di vita di questi livelli che frizionavano tra loro e questi arrossamenti sono stati la scomodità per sondare il linguaggio, come si declinava dentro tutta la produzione dell’opera. Solo dopo molti anni, ora, uno strano orientamento guida come guida il sangue all’interno di un corpo. Parrebbe essere il mio questo corpo se non fosse che in ogni passaggio d’opera il mio corpo scompare, scompaio io che vorrei invece trovarmi (le opere sono un atto di apparizione mentre ci inseguiamo) e si delinea l’inconsistenza che ha guidato tutta la mia vita: un Tu a cui ho attribuito una forza fisica enorme, un muscolo cardiaco che batteva dentro tutte le lingue, che frusciava nel sottobosco di certi quadri ma che quando lo interrogo mi assorda col suono carnoso ed asfissiante del mio battito, che mi sfigura.

Leggendoti. Intanto. Da Kafka a Rilke, da Borges a Sloterdijk, dettaglia le tue fonti, i padri. Che legame hai con i libri, con le parole degli altri, con il resto dei verbi?

Ho sempre incontrato troppo tardi le fonti di cui avrei avuto bisogno e che mi avrebbero reso la strada più colloquiale. Ma questo dipende dalla mia connaturata ignoranza. Ossia: devo prima essere qualcosa per riconoscere qualcos’altro. Ogni anticipazione ferisce un cerbiatto appena in piedi. Cosi con gli scrittori o gli artisti. Ho sempre riconosciuto una famiglia di appartenenza, piuttosto che una cosa a cui avrei voluto appartenere. Questo è un grande limite. Ma come tutti i limiti si porta dietro fortune esemplari. Perché la mia solitudine è una solitudine partecipata e il mio piccolissimo punto d’esistenza è un punto in cui può risuonare l’universo. Non pensassi questo, che so che può sembrare arrogante (ma è arrogante come uno che alla domanda “sei vivo?” risponde “si”), non sarei in colloquio con nulla, neanche con te ora. Sono dislessica, faccio fatica a leggere. Per cui trattenermi con un libro è un’esperienza complessa e multipla. Un libro, quando è una presenza, è un processo di coscienza o consapevolezza. Tutto voglio tranne che liquidarlo, lo tengo con me a lungo, potrei dire per tutta la vita. Non so mai se leggo davvero il libro che è stato scritto, c’è sempre un’ambiguità da sostenere in questo rapporto. Lo maneggio in tutte le forme, lo lascio entrare in tutte fessure. Spesso registro brani con la voce e li ascolto. Il Bucefalo di Kafka, il Minotauro di Borges, l’Aperto di Rilke, il Cristo di Pavlovic: attraverso la mia voce (che è l’unica voce che non è una voce ma me) li processo e li assorbo. Per molti anni ho trascritto libri a mano. È stata la mia pratica meditativa. Ma dette queste cose i libri sono persone con cui sto. Sloterdijk fa parte dei miei colloqui mattutini, una filosofia bifolca e viva che è come lavarsi il viso. M.M.Ponty è il mio direttore spirituale. Non è libro che mi interessa, ma il linguaggio e del linguaggio la Persona. Per farti un esempio: di Houellebecq ho letto credo quasi tutto ma solo per liquidarlo, non potrei davvero trattenermi con lui perché non ha familiarità con la grandezza. Credo al Processo? Il libro è una porta: credo in Kafka, in quello che insinua o fa sopravvivere in me. Credo che attraverso di lui posso scorrere anche io, anche altri, credo nelle soglie, nelle porte, e credo che alcune opere siano destino, ossia il tragico assoluto. Il tragico è una forma di linguaggio sull’enigma della vita prima che essere una forma di scrittura, quando per linguaggio intendiamo una decodifica dei sobborghi di un mistero. Questi autori, come anche San Giovanni della Croce, ti dicono che il linguaggio fugge trasformandosi. Per questo non bisogna appartenere a ciò che si vede, piuttosto all’iniziale negazione di ciò che si manifesta ma prendendo della manifestazione la potenza dell’accesso (essere nel mondo senza essere del mondo). Per prenderlo, per attivare questa caccia spirituale, in cui poi ogni cosa significa “il vero”.

Leggendoti. Viene voglia di chiederti cos’è la vita, cosa accade dopo la vita, cos’è la morte. 

Io sono morta il 21 agosto del 2012, per un atto di manomissione sulla vita. Da allora ho smesso tutto, mi sembra di essere solo l’osso in più della mia coscienza che è lo spettro più ricettivo a vuoto che conosca.

Tiziana
Lei è Tiziana Cera Rosco, in un autoritratto, 2018

Leggendoti. Mi domando. Che rapporto hai con i morti: esistono, resta l’inconsistenza di un balbettio, il bagliore di una reticenza, tutto, titanico, o nulla?

C’è un’era remota nella poesia. Un reperto di amore indubitabile. Lì ci incontriamo anche io e te. Lì siamo il per sempre. Ma lo siamo fin da ora. Per questo gli incontri elettivi sono eterni, non per via della loro resistenza al tempo ma per via dello svelamento del punto eterno dal quale saremo ricostruiti. Così, che differenza vuoi che ci sia tra i vivi o i morti. Non c’è differenza tra i lupi e i morti, diceva qualcuno. L’uomo diventa un animale metafisico con il linguaggio poetico. Anzi, con la conversione al linguaggio poetico che è un modo di riformulare la propria apparenza verso la presenza nel mondo. In un aforisma sulla caccia si dice che il cibo degli uomini è tutto fatto di anime. Ci si abbevera ad un risucchio nell’invisibile. Tutto può essere una forma di qualcos’altro quindi bisogna, per noi che siamo sulla soglia, essere attenti ai dialoghi tra le apparenze. E a decodificare il linguaggio della presenza, perché la presenza è una frequenza e a volte una forma d’urto con l’invisibile. Spesso credo a chi riduce il proprio mondo visibile al minimo. Una presenza artica, una presenza al Sopravvivente Ultimo. Una grande sopportazione della luce fredda. L’ultima parola. Credo sia questo, dopo un viaggio fatto al nord, in Islanda, a muovermi verso le cose artiche, le esperienze artiche. Interroghi persone, fatti, documenti, esplorazioni come se dovessi trovare la Cosa Dio, l’animale bianco. E la Cosa Dio è l’unico silenzio con cui uno si conduce tra le chiacchiere e le quotidiane mediazioni. In questo volume di poesie, non edito, non distribuito, che non ha ancora capito quale forma avere per essere assorbito (perché è questo che mi importa, che venga ereditato, che ci sia anche un solo testimone di questa traccia) c’è tutto il mio rapporto col vivente, con la simultaneità delle cose che vivono, ognuna nella sua parte di mondo che altro non è che essere titolari di una parte di un dialogo.

Oltre questo dialogo, il ghiaccio, la Cosa Dio.

Leggendoti. Mi domando perfino che contorni ha dio, cos’è, il colore delle sue unghie e la gittata continentale dei polpastrelli. Cos’è dio? C’è? Credi? In cosa credi?

Alle domande su dio non rispondo perché sospetto troppo di me stessa. Dal che volevo prende i voti da ragazzina, ora dismetto era dopo era, tutti i miei appigli. Allo stesso modo non si può rispondere alla domanda sul che cosa ci sia dopo il linguaggio. Ogni risposta che sia ‘il vivere’ o ‘la realtà’, rimanda ad un grado di finzione di cui il linguaggio non è il simulacro semplicemente perché non inventa un mondo, non immagina un mondo ma è uno strumento scrutativo che concresce col mondo (o il mondo concresce con lui). Forse vale anche per il divino. Si potrebbe rispondere che oltre c’è solo il dono, ossia una zona in cui il linguaggio non soccorre. Ma sarebbe una risposta non risposta. Quindi meglio andare di pari passo all’enigma con quale si misura il proprio sospetto d’esistenza.

La tua parola – forse è qui l’asse saldo con l’arte – è atto. Una azione. Verbale. Civica? Che rapporto c’è a tuo dire tra arte e politica, tra regno del suono e ambito del gesto politico?

Il linguaggio è un atto di accoppiamento col mondo. Se tu fai l’amore con una donna che atto è? Non si accade contemporaneamente mediante una stessa enunciazione? La parola è un atto totale. La parola Verbo, ossia la Parola che si declina, che si coniuga, che manomette la violenza con cui nasciamo, che si autoesclude dai discorsi perché tu possa guardarla da una grande lontananza, come un astro di dolore o di amore, non è chiaro. Sono tentativi di rapporto, per questo il linguaggio ha a che fare col corpo e ne siamo attratti come da un Umore sensuale nei nostri accoppiamenti desertificati, ci permette di entrare, li fluidifica. Il linguaggio è il sesso, un po’ come dio che è padre fratello e amante, parrebbe un atto anche incestuoso e totalizzante. Eppure finche c’è atto carnale, non so se questo sia il retaggio delle cose alle quali mi sono dedicata e che spesso parlano in mia vece, il linguaggio non può davvero nascere perché finisce nelle digestioni. Come gli animali. Ma non basta essere prede e predatori, anche spirituali. Bisogna andare oltre gli umori, saper sacrificare per riceverne le viscere, saper sacrificare anche le viscere per leggerne i segni, saper distanziare la carne per poter rendere i segni passibili di silenzio, per poter scrivere ancora. Non mangiare tutto. Per questo lo scarifichiamo come si fa con un animale di cui siamo predatori ma con la paura delle prede (inseguendolo ci inoltriamo nella selva), o lo dedichiamo come atto di castità quando sentiamo di doverci riformulare (non voglio scoparti ma riidentificarmi oltre il desiderio per offrirti con l’unione la mia morte ossia la mia scomparsa in te). Organo per organo, mutando perfino la sostanza degli elementi, delle parole. È come se volessi dire: unita a tutto ma separata con te da tutto il resto. Eppure più ci si separa più ci si trasforma in prede e ritorna il desiderio di essere predati dal linguaggio. La scrittura è quel che di tutto questo resta. Un residuo. Forse la cosa più trascurabile. Questo vale anche per le opere. Sono un reperto di una cosa viva che anche quando si annulla nell’offerta non muore mai a sufficienza. Ad esempio le parole rimangono come le pelli sulle spalle di un cacciatore che veste l’anima dell’animale sacrificato.

…a che, dunque, tutto questo scrivere?

Tu fai domande che dovrebbero bruciarti prima di essere pronunciate! Ma se le fai vuol dire che le sostieni. C’è sempre una bestia invisibile. Uno scrive usando il coltello (un coltello che appartiene al nemico), usando il coltello per ferirsi. Perché lo scrivere, tutta l’arte in generale, sospetta di questa bestia. Il poeta, l’artista sa che solo aprendosi, solo rendendosi sangue, la bestia annuserà la sua esistenza e si dirigerà verso lui. Se si avvicinano animali minori, nel migliore dei casi verranno sbranati perché si diventa indifferenti agli animali che non uccidono, nel peggiore dei casi verremo disfatti dalla tenerezza e diventeranno loro i nostri dialoghi. Se si avvicinano animali impropri potremmo finire nella disperazione del ridicolo, perché tutte le forze verrebbero spostate. Per questo il dosare il sangue fa parte della strategia di questa assurda caccia invisibile. I segni di queste ferite sono possibilità di lettura, di pensiero, di incursione, di riformulazione come quando si guardano le cose quando sono sfigurate e si tenta di ricondurle ad una forma alla quale avrebbero voluto tendere. Capisci anche ora che ogni discorso sullo spirito è solo un modo di richiudere parzialmente una ferita o di rintracciarne il viso, ferita che vogliamo tenere aperta, sfiguramento che svela la domanda ‘ad immagine di cosa siamo davvero fatti’?. “A che?” non lo so, ma credo che tutto questo scrivere sia questa domanda.

Gruppo MAGOG