08 Settembre 2020

“Disporre la mia vita in modo da essere l’ultimo, il più disprezzato degli uomini”. La lezione di Charles de Foucauld

La lezione – chiamiamola così –, quel giorno, verteva sull’irriconoscenza. Sulla necessità dell’irriconoscenza. Quando viene riconosciuto come tale, il bene non è più bene. Bisogna fare il bene scansando ogni riconoscimento, altrimenti si entra nella spirale dei ‘rapporti’, dello ‘scambio’. Secondo padre Antonio il culmine del bene accade quando è ricambiato con il male. Ad esempio: venire uccisi da colui a cui si è dato tutto. L’unico ringraziamento – la vera grazia – è l’irriconoscenza, diceva. Stupito del mio sbigottimento – ingolfo di libri la mia incapacità alle scelte davvero radicali – mi regalò un libro che raccoglie le Opere spirituali di Charles de Foucauld.

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La storia di de Foucauld sembra desunta da un romanzo russo. Nato a Strasburgo nel 1858, da famiglia nobile, orfano a sei anni, cresciuto con il nonno materno, il giovane de Foucauld passa il tempo a sperperare l’eredità di famiglia. Allievo all’accademia militare di Saint-Cyr, Charles se l’intende meglio coi fucili che coi libri, ama le donne più che la disciplina. Nel 1880 è in Algeria, abbandona l’esercito e si mette a esplorare il Marocco: lo accompagna un rabbino, cabbalista e avventuriero, Mardochée Aby Serour, che lo inoltra nello studio dell’arabo e dell’ebraico. Cerca l’estremo, de Foucauld, l’assoluto, e finisce per inciampare in Dio. Nel 1889 è a Nazareth, per ricalcare i passi di Gesù, “povero artigiano, sprofondato nell’abiezione e nell’oscurità”. Abiezione e oscurità diventano le ambizioni di de Foucauld, che entra nella Trappa nel 1890, fa la professione nel 1892, non si accontenta: “desidero sempre di più precipitarmi nell’ultimo abbassamento, seguendo Nostro Signore”.

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La vita di Charles de Foucauld disorienta per vertigine. “Cercare sempre l’ultimo degli ultimi posti, disporre la mia vita in modo da essere l’ultimo, il più disprezzato degli uomini”, scrive, nel 1897, da Nazareth, dove lavora come domestico delle monache Clarisse, abita un capanno, nel giardino del monastero. Nel 1901 capisce che la sua missione è portare il Vangelo nel deserto, nel Sahara, e tradurre l’inospitale in Eden. “Spingersi fino in fondo nell’amore e nella donazione, trarne tutte le conseguenze, e mai scoraggiamento, mai”: così dice il suo compito. Prima è a Béni Abbès, studia la lingua dei tuareg, per cui traduce il Vangelo. Preferisce una vita di eremitaggio e di adorazione, gli è chiesta la via dell’evangelizzare. Tutto ciò che fa, pare mostrarsi al fallimento, perché tutto ciò che si fa, infine, è una preparazione, un lascito. Traccia i fondamenti della famiglia spirituale dei “Piccoli fratelli del Sacro Cuore”, senza riuscire a crearla. Al grande orientalista Louis Massignon scrive: “Non bisogna mai esitare nel chiedere i posti in cui il pericolo, il sacrificio, l’abnegazione sono maggiori; l’onore lasciamolo a chi lo vorrà, ma il pericolo, la sofferenza richiediamoli sempre”.

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Sull’Assekrem si costruisce un eremo di sconvolgente nudità: una specie di cubo, colto dai venti, il contrario di una Sfinge. Un alveare, forse. In quei luoghi, graffiti e pitture di uomini dei primordi segnalano la presenza di tigri, di boschi, millenni fa; di altri dèi, in lotta, forse. “L’anima non è fatta per il rumore, ma per il raccoglimento, e la vita dev’essere una preparazione al cielo non soltanto con le opere meritorie, ma anche con la pace e col raccoglimento in Dio: invece l’uomo c’è gettato in infinite discussioni; il fatto che sia così poca la felicità che egli trova nel rumore, basterebbe già a dimostrare come egli si allontana dalla sua vocazione”, scrive nel 1912 a Maria de Bondy, la cugina.

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Quando si parlava di povertà – con tutto il fraintendimento che porta con sé ogni parola umana – padre Antonio mi faceva leggere questi brani di de Foucauld: “Stiamo attenti, stiamo attenti a non attaccare il nostro cuore ad una cosa creata, qualunque essa sia, bene materiale, bene spirituale, corpo, anima… Vuotiamo, vuotiamo il nostro cuore di tutto ciò che non è la cosa unica…”. E poi: “Vuoti di noi stessi e degli altri, senza ricercare né il nostro bene né quello di nessuna creatura in vista di noi e di esse, ma ricercando unicamente la gloria di Dio e ricercandola in vista di Lui solo”. Fatto beato da papa Benedetto XVI, leggo che da qualche mese è confermato il miracolo che porterà Charles de Foucauld a diventare santo. Questi sono invisibili che non penetro, ma qualche testo di de Foucauld credo – “pensa che devi morire spogliato di tutto, disteso a terra, nudo, irriconoscibile, coperto di sangue e di ferite, violentemente e dolorosamente ucciso… e desidera che questo accada oggi!” – sia necessario per avere di fronte, ostinata primizia, una vita del tutto altra, attraente per l’opposto.

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Dicono che a Tamanrasset, al centro dell’Ahaggar, in Algeria, la città dei tuareg, Charles de Foucauld sia stato tradito. Qualcuno, uno a cui aveva fatto del bene, è entrato nel suo romitorio. È il primo dicembre del 1916, di primo mattino. Egli lo ha accolto. L’uomo lo minaccia, lo getta fuori dalla baracca; gli altri lo legano. De Foucauld prega, ma il guardiano, spaventato, gli spara in testa. I tuareg lo spogliano, gettano il corpo in un fosso. “Il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e per fare il bene delle anime”, aveva scritto, quel giorno. Il deserto è il luogo della prova, dove sussurra Dio e dove si mostra l’idolo, poca distanza tra cenere e sabbia, la benedizione e l’arsura, il solo luogo da cui trarre acqua. (d.b.)

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