08 Agosto 2020

Se avessimo dato ascolto a Charles Péguy… Lode all’“amodernista” che tentò di unire scienza e mistica. Uno studio

Oltre allo studio del personaggio e alla ricerca dello scoop, fra le più alte mire della biografia c’è l’esplorazione di una personalità generazionale: l’individualità la cui vita e il cui lavoro illuminano la mentalità e la cultura, in un preciso momento e luogo della storia. Questo tipo di ambizione emerge decisamente nella mirabile biografia dell’intellettuale Charles Péguy, un pensatore troppo spesso relegato agli studi di esperti di politica e cultura francese del fin-de-siècle.

Matthew Maguire, professore associato di storia e studi cattolici presso la DePaul University, in Carnal Spirit: The Revolutions of Charles Péguy (University of Pennsylvania, 2019), ha dato un’estesa definizione di Péguy (1873-1914): quest’uomo di lettere, così selvaggiamente indipendente, fondatore del bisettimanale Cahiers de la quinzaine, tenne una posizione trasversale rispetto alle definizioni culturali delle antinomie del suo tempo, sfidando le due grandi correnti della modernità, il progressismo e la reazione. Mentre il primo si identificava nel “inesorabilità del divenire” e il secondo si sforzava di resuscitare il passato, Péguy credeva che entrambe le tendenze soccombessero in forme simili di “immanentismo”. Ossia, entrambi, ognuno a modo proprio, cercavano di determinare l’ordine finale o perfezionato – in altre parole, la fine della storia – in questo mondo e in questo tempo.

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Certamente, i progressisti illuminati erano devoti alla scienza, al positivismo e ai valori liberal-democratici; dal canto loro, i reazionari rigettavano tutto ciò, per favorire la gerarchia e un nazionalismo tradizionalista ed esclusivamente cattolico. Potrebbe sembrare un’evidente lotta fra modernisti e antimodernisti, ma non era così per Péguy. Infatti, egli credeva in un futuro guidato dalla scienza e dal costante progresso, che però non fosse più prono al modernismo – nelle sue aspirazioni più profonde – della visione reazionaria. “Questi particolaristi carichi d’ira,” spiega Maguire, “spesso sottintendono una lealtà alle più vecchie nozioni di trascendenza – inclusa la fede religiosa e la sua dichiarazione di verità eterna – ma la loro concezione di ciò trascende il tempo solo come immanenza arrestata. Presentano un passato amalgamato come unità… da reinserire meccanicamente all’interno del presente, senza creatività o stupore”. Ironia della sorte, alcuni finti antimodernisti (incluso il fondatore del movimento politico di destra Action Française e seguace del positivista Auguste Comte, Charles Maurras) credevano che la “scienza avrebbe confermato i loro particolarismi e pregiudizi”. Tuttavia, Péguy mantenne una posizione critica nei confronti di entrambe gli schieramenti e ciò gli impedì di essere identificato sia come modernista, che come antimodernista, sostiene Maguire, ma come qualcosa di molto distinto e di istruttivo: un amodernista.

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Péguy si fece strada grazie al suo essere indipendente. Si è fatto da solo, crescendo ad Orléans e dalle sue origini umili è riuscito a raggiungere l’apice dell’élite intellettuale parigina. Rimasto orfano di padre a meno di un anno, apprese il valore del lavoro dalla madre e dalla nonna, che riuscivano a sbarcare il lunario lavorando 16 ore al giorno come rammendatrici d’imbottiture per sedie. Impressionato dall’acume di Péguy, il preside della scuola che frequentava gli riservò un posto solitamente concesso ad alunni provenienti da famiglie altolocate. Da studente prodigio, Péguy iniziò la sua ascesa attraverso una successione di scuole prestigiose, fino ai migliori circoli intellettuali del paese, come la École Normale Supérieure, dove iniziò a leggere e a socializzare con alcuni dei pensatori più noti dell’epoca, tra cui Émile Durkheim, Georges Sorel, Julien Benda, Jacques e Raïssa Maritain, e Henri Bergson.

Oltre al suo percorso accademico, Charles Péguy venne formato dalla religione cattolica, dagli ideali della Terza Repubblica e da un forse senso di solidarietà con il proletariato. Tuttavia, rispose a ognuno di questi stimoli in modo fortemente personale: ripudiò le correnti clericali e reazionarie del Cattolicesimo (fino al punto di interrompere temporaneamente il suo rapporto con la chiesa); insistette sull’allargamento della giustizia a tutti i cittadini della repubblica e non solo a quelli ritenuti coerenti (per esempio, puri da un punto di vista etico o religioso); e sviluppò una varietà di socialismo anti dogmatico, che esaltava i legami mistici della solidarietà invece di un mero programma tecnocratico marxista di applicazione dell’uguaglianza.

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Come molti intellettuali, giornalisti e attivisti della belle époque, Péguy venne segnato anche dal suo coinvolgimento nell’affare Dreyfus. Un’ignobile farsa della giustizia francese che propiziò una guerra culturale fra i sostenitori e gli oppositori della condanna del Capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese, falsamente accusato di aver passato informazioni al nemico durante la Guerra franco-prussiana. È stato proprio il caso Dreyfus a convincere Péguy ad aprire una piccola libreria socialista nel quartiere latino di Parigi. Voleva farne un forum per aprire un dibattito nel momento in cui gli antidreyfusiani, principalmente antisemiti nazionalisti e reazionari cattolici, si radunavano per le strade per opporsi al proscioglimento di Dreyfus, nonostante le schiaccianti prove della sua innocenza.

Da convinto dreyfusiano, Péguy scoprì velocemente che ciò che lo spingeva a sostenere la scarcerazione dell’innocente ufficiale non corrispondeva alle ragioni dei suoi compagni militanti, dato che questi venivano da una retorica antidreyfusiana. Non è un segreto che il suo supporto a Dreyfus non derivasse da un qualche tipo di amore astratto o universalista per giustizia – come invece fu per moltissimi, fra cui Zola, la cui celebre lettera aperta, “J’Accuse”, mobilitò numerosi altri attivisti – ma per un attaccamento particolare alle tradizioni della République.

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Péguy si rivela, quindi, come un liberale atipico, che crede che i principi del liberalismo debbano essere innestati in un humus locale, nelle tradizioni autoctone. Diffidente del cosmopolitismo, sosteneva che un “vero internazionalismo” si sarebbe dovuto ergere, come commenta Maguire, “sul nazionalismo e sulla storia che lo sostiene, invece di un internazionalismo che rigetta le radici locali e nazionali”. Quest’ultimo, secondo Péguy, era parte integrante dell’imborghesimento astrattivo e venale della società moderna, che lui, in quanto socialista, contrastava. Inoltre, guardava con sospetto i valori politici e metafisici semplicisti del “partito intellettuale” progressista; valori costruiti su una demistificazione senza sosta del mondo, attraverso l’oggettivizzazione del riduzionismo scientifico e della quantificazione di ogni cosa. La limitazione della libertà umana e il valore dato dal progressivismo duro e puro venivano incarnati dalla rivendicazione dei suoi sostenitori, secondo cui la scienza empirica sostituiva il bisogno del metafisico: una rivendicazione cieca anche per i suoi stessi presupposti metafisici.

Per portare avanti la sua battaglia contro entrambe le coalizioni politiche, Péguy abbandonò i propri studi alla École Normale e, nel 1900, lanciò la sua rivista bisettimanale, con l’intenzione di rimanere indipendente da interessi esterni (anche dal Partito Socialista, che ritirò la propria offerta di supporto quando Péguy rifiutò la supervisione del partito) e dalla pubblicità. Il suo sarebbe stato un “journal vrai” (vero giornale). La calendarizzazione bisettimanale indicava l’intenzione dell’editore, scrive Maguire, “di mediare fra il quotidiano, ossia la cronaca in presa diretta, e la più temporalmente estesa sfera di interesse della filosofia, della teologia e della storia”. Un numero poteva comprendere una pluralità di commentari, oppure un unico saggio su un grande pensatore, o persino un lungo estratto da un romanzo o un’opera filosofica (incluso, in un’occasione, senza il permesso da parte dell’autore, come con uno dei filosofi contemporanei preferiti da Péguy, Henri Bergson). Nonostante le uscite fossero irregolari, la rivista ebbe influenza ben al di là dei suoi 1.400 abbonati. Era letto dalle migliori menti di Francia, molte delle quali collaborarono con Péguy. In preda alle difficoltà economiche e mentre continuava la sua produzione personale – saggi, opere teatrali e poesie – Péguy mantenne aperto Cahiers de la quinzaine fino allo scoppio della Grande Guerra, quando si arruolò nell’esercito. Rimase ucciso poco dopo, mentre conduceva una carica contro la linea tedesca.

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Nonostante Maguire sia un accademico di genio, il suo libro non esaurisce l’esplorazione delle reali connessioni di Péguy con gli eminenti personaggi a lui contemporanei. Menziona il rapporto con il compagno dreyfusiano Julien Benda (autore de Il tradimento dei chierici), ma si sofferma poco sui forti contrasti che i due hanno avuto. Benda era un razionalista inflessibile (qualcuno potrebbe addirittura definirlo irragionevole), che dava la colpa dell’affare Dreyfus ai ceppi di filosofia tedesca e romanticismo che avevano infettato la cultura francese. Benda credeva che il misticismo e l’irrazionalismo antilluminista – di cui la filosofia vitalista di Bergson era l’emblema – minacciassero di annebbiare le cristalline e rigorose categorie cartesiane della cultura intellettuale francese, indispensabili per gli ideali della Terza Repubblica.

Per quanto apprezzasse Benda, Péguy trovava il suo estremizzato razionalismo arido e insostenibile, soprattutto quando si trattava di promuovere la solidarietà fra i cittadini di una nazione. La convinzione di Péguy secondo cui tutte le politiche iniziassero nella mistica – ossia, nella reale misteriosità delle credenze e dei miti trascendenti e condivisi – lo hanno reso un attento e profetico critico delle condizioni di separazione sociale e dell’anomia che spesso hanno portato al populismo ultranazionalista nelle moderne democrazie, tendenzialmente con risultati disastrosi.

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Si potrebbe accusare Maguire di aver lasciato delle lacune sulle divergenze fra Péguy e i reazionari cattolici. Infatti, anche se era in buoni rapporti con Charles Maurras – tanto che quest’ultimo recensì positivamente alcune delle sue opere – Péguy era irritato dal modo in cui Maurras e altri strumentalizzavano la religione cattolica per promuovere la propria agenda antiliberale. Péguy aborriva il vile clericalismo della destra, tanto che smise di frequentare la chiesa completamente, anche se rimase un sostenitore della propensione alla carità della chiesa e, in cuor suo, fortemente convinto dei valori della sua fede.

Lasciando da parte queste mancanze, Maguire fornisce una lucida ed encomiabile critica sulle correnti intellettuali di un periodo di transizione assolutamente decisivo, che comprende gli ultimi vent’anni del diciannovesimo secolo fino ad almeno i primi due decenni del ventesimo. I concetti che ispiravano i due schieramenti ideologici dominanti contrastati da Péguy non sono decaduti con la fine della Prima Guerra Mondiale. Infatti, sarebbero riemersi con ancor più vigore nella Repubblica di Weimar, con il Partito Nazionalsocialista che condensava alcune delle peggiori tendenze di entrambe le ideologie, nel tentativo di ottenere un Reich etnicamente purificato e la sua versione della fine della storia. Tutti sanno com’è andata. La più recente versione della fine della storia – quella successiva alla conclusione della Guerra Fredda – ha sancito il trionfo delle democrazie liberali e del mercato libero. Anche se molto più positiva della sua predecessora, anch’essa stramazza sotto il peso delle sue contraddizioni e dell’hybris.

Invece di differenti versioni della fine della storia così immanentiste, Péguy sperava in un’epoca della “competenza”, che incorporasse un sano interesse per gli ideali liberali e la scienza empirica (compreso un certo scetticismo sui limiti di quest’ultima) a una genuina tolleranza verso la varietà dei concetti metafisici più profondi, fra cui l’ammissione del trascendente e della mistica. Tale “federalismo metafisico”, sostiene Maguire, “limiterebbe l’eccesso di un’egemonia restrittiva della metafisica nella cultura contemporanea”. Péguy credeva che i sostenitori dell’egemonia metafisica – sia di destra che di sinistra – contrastassero le arti liberali, che invece riteneva indispensabili per una democrazia repubblicana. Uniti invisibilmente nella condivisione dell’immanentismo, questi egemonisti incarnavano la profonda intolleranza della tarda modernità e perciò andavano smascherati e contrastati per la pericolosa causa che avevano deciso di sposare. Forse, il fatto che gli avvertimenti dati dalla voce chiara e profetica di Péguy si siano perduti al suo tempo come nel secolo che da allora si è dispiegato, è da considerare una delle più grandi tragedie della modernità.

Jay Tolson

*Il saggio è stato originariamente pubblicato su “The Hedgehog Review”, si può leggere qui; la traduzione è di Giacomo Zamagni

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