La leggenda lo dice freddo e micidiale tomista del bisturi. Con un valzer rapidissimo di frasi, un repentino tango verbale, è capace di tramortire i cosiddetti ‘titani’ della cultura. In un attimo – zac, zac – sfiletta il cuore di un’opera, se lo mangia. Cesare Cavalleri, è storia, ha polemizzato con Eugenio Montale – ammirandone la poesia –, ha sbriciolato, pagina per pagina, la letteratura di Umberto Eco, ha nanificato le velleità letterarie di Calasso e reso un docile agnellino quella volpe di Eugenio Scalfari (“La cultura di Scalfari denuncia un’origine manualistica, cioè formata su manuali scritti da professori di liceo che, a loro volta, si basavano su manuali scritti da altri professori di liceo”, cito da una stroncatura pubblicata su Avvenire nel 2010). Sono solo alcuni, questi, dei tanti passati tra le lame di CC, il quale, fin dalla fisiognomica – viso di cristallo, eleganza sobria, sguardo penetrante, chioma perfetta – ha qualcosa di vampiro. Dovrei rovinare la leggenda corrusca: Cavalleri ha un sorriso robusto, una generosità marmorea e una indefettibile certezza nel bene. Amico di Flaiano e di Buzzati, ha avuto un alto rapporto epistolare con Caproni, ha conosciuto Ungaretti, è stato in amicizia con Giovanni Raboni, ha sfiorato Ezra Pound (la sua biografia è organizzata da Jacopo Guerriero in una lunga intervista pubblicata nel 2018 da Els La Scuola come “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria); eppure: legge, con arguta costanza, poeti ignoti ai più e romanzi pubblicati artigianalmente, dando spazio pubblico a chi ne ha le doti. È il Cesare dei giornalisti, Cavalleri, ed è ora di dirlo, almeno ora, alla luce della straordinaria avventura in “Studi Cattolici”, che tocca i 700 numeri (si farà festa il 2 luglio prossimo, dalle ore 16, nella nuova sede delle Edizioni Ares, in via Santa Croce 20/2 a Milano). CC fonda a Verona la rivista “Fogli” nei primi Sessanta, dal 1965 assume la direzione delle Edizioni Ares, l’anno dopo, a trent’anni, diventa direttore di “Studi Cattolici”. Carica che mantiene tutt’ora, una longevità di platino. Esattamente 50 anni fa, a 33 anni, scriveva un reportage al veleno sul Premio Strega, svelando il falso arcano (“il vincitore assoluto dei premi letterari, infatti, è già noto in precedenza”), al suo fianco Ennio Flaiano; noi incauti lettori vorremmo che le sue Letture fossero finalmente raccolte in un volume più recente dell’ultimo, edito vent’anni fa; in uno dei recenti editoriali, con baldanza intellettuale invidiabile, CC tornava sulla Cattedrale di Notre-Dame, con esplicita giustizia: “Il video della guglia – la flèche – spezzata dal fuoco, ci ha tolto il fiato. Eppure, a meno di un mese, la tragedia appare già lontanissima. Troppi commenti, troppi simboli, troppi coccodrilli. Il presidente Macron, principe dei coccodrilli, ha invitato a «trasformare questa catastrofe in occasione di riflessione su ciò che siamo stati e su ciò che dovremo essere…». Però sono proprio i francesi a non aver voluto includere il riferimento alle radici cristiane nel progetto, affondato, di Costituzione europea. E l’ideologia di Macron è più affine a quella di chi aveva distrutto la flèche nel 1792, quando una prostituta aveva impersonato la Dea ragione nella cattedrale. Troppo tardi per appropriarsi di simboli che rimandano a una realtà in cui non si crede. Restano le immagini”. Incute timore, CC, legge Saint-John Perse, a cui mi ha introdotto, cita a memoria Rimbaud, su cui ha scritto un romanzo ancora inedito. Ma è il sorriso, che giunge dal candore, a vincere su tutto, anche sulla sua santificazione. (d.b.)

700 anni, pardon, numeri, di “Studi Cattolici”. Vado subito al sodo. Numero 117/18, anno di grazia 1970. Dibattito “sulla funzione dell’intellettuale nella società odierna”. Interviene anche Dino Buzzati, verso cui hai una ammirazione non priva di arguzie. Parto da qui per chiederti due cose: che senso e che ruolo ha oggi l’intellettuale? E che rapporto avevi con Buzzati?

Un rapporto di ammirazione, appunto, con fedeltà di lettore. L’intellettuale, oggi come ieri, non ha un ruolo. La sua eventuale presenza è da inventare.

Altro nome. Ennio Flaiano. Hai avuto con lui una corrispondenza intensa, mi pare. Di cosa parlavate? A proposito. Flaiano ha vinto il primo Premio Strega, era il 1947. Ricordo una tua nota corrosiva sullo Strega del 1969. 50 anni dopo, che senso ha il Premio Strega?

Ha senso (e soldi, non moltissimi) per chi lo vince. Il liquore Strega è molto buono. Flaiano era contento delle mie preghiere per lui.

Torno a “Studi Cattolici”. Qual è stata la battaglia che ti ha dato più gioia combattere, quale l’incontro (o gli incontri) che ti ha folgorato?

Dal 1974 la battaglia contro il divorzio, per promuovere la famiglia naturale. Folgorato da Eugenio Corti per “Il Cavallo rosso” e da Alessandro Spina per la scrittura delle sue “Storie di ufficiali”. Senza dimenticare “Il ponte dell’Accademia”, di P. M. Pasinetti, il primo scrittore italiano ad accorgersi che Internet avrebbe cambiato modi di scrivere e di vivere.

Sei celebre per le tue micidiali stroncature e per i tuoi innamoramenti. Due esempi. Umberto Eco, che hai costantemente ‘disintegrato’. E Eugenio Corti, di cui hai pubblicato il capolavoro, “Il cavallo rosso”. Mi sembrano emblemi di un modo opposto, appunto, di fare letteratura. Che cosa ti piace leggere e cosa leggi oggi?

Leggo poco. Pratico una rigorosa igiene mentale. Non mi vergogno di non aver letto libri, anche classici, ritenuti imprescindibili.

Cesare Cavalleri con Ornella Vanoni, di cui è ammiratore. Per altro, CC ha doti canore che pochi conoscono…

Altro binomio. Non ami Pasolini (“Nessuno legge più Pasolini”, hai detto) ma hai avuto un rapporto importante, improntato alla stima con Giovanni Raboni. Anche loro rappresentano, mi pare, due modi radicali e diversi di essere poeti e intellettuali: è così? C’è una stroncatura che, con il passare del tempo, ti sei pentito di avere scritto?

Non è vero che io non ami Pasolini: “Le Cenere di Gramsci” è un grandissimo libro. Non i romanzi e altre sue porcherie. Giovanni Raboni era un amico, anche se ideologicamente distante; accettava le mie osservazioni e riserve. In “Cadenza d’inganno” mi ha dedicato “Una poesia di Natale” (1969). Avevo stroncato un libro di poesie di Diki Garzanti, figlio dell’editore, con prefazione di Raboni. È venuto a trovarmi, quasi piangeva. Non si trattano così i giovani: bisogna prendersela con i grandi, se occorre.

Grande lettore di poeti, hai qualche poesia sepolta nel cassetto, se non ricordo male. E un romanzo abortito (o meno?) su Rimbaud. Perché non hai fatto affiorare la tua creatività?

Il “segreto” sarà svelato entro quest’anno.

È nota la tua ammirazione per Nilla Pizzi e quella per Ornella Vanoni. Oggi cosa ascolti? 

Ascolto Ornella e Nilla, Eros Ramazzotti e Fiorella Mannoia. Non mi sono mai perso un Festival di Sanremo. Non è noto (perché dovrebbe?) che io canto piuttosto bene. Ho un repertorio francese classico (Yves Montant, Léo Ferré, Charles Trenet…). Dell’immensa Edith Piaf condivido “Je ne regrette rien”, che piaceva anche a Spina. “Non rimpiango nulla”, coi ricordi accendo il fuoco.

Che caratteristiche ci vogliono per dirigere un giornale come SC? Soprattutto, hai avuto dei maestri imprescindibili di giornalismo?

Non ho avuto maestri. La cultura è sempre di autodidatti.

Ungaretti o Montale? Hai avuto rapporti con entrambi, dimmi. 

I poeti, soprattutto i grandi, è meglio leggerli che frequentarli.

Hai detto: “quando devo prendere decisioni importanti, consulto anche l’I King, l’antico libro della saggezza cinese”. È vero? Non basta una frugale preghiera?

È vero, lo consulto in rarissimi casi. L’I-King è una cosa seria, non un passatempo giocoso.

Dei poeti che hai conosciuto (ricordo anche i tuoi rapporti con Caproni, e l’incontro con Ezra Pound…) o che hai letto, qual è quello che ritieni decisivo, a cui ritorni con costanza, e perché?

Pound e Caproni, certo, ma anche Raffaele Carrieri: la sua “Civetta” è il primo libro di poesie che ho acquistato su una bancarella. Avevo quattordici anni. Sono ostinatamente fedele.

Qual è l’ultimo libro che hai letto con piacere? Come giudichi lo stato della letteratura e della poesia italiana presente?

“Belluno”, di Patrizia Valduga. Ultime parole di Amleto: “Il resto è silenzio”.

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