16 Aprile 2019

“Invece di respingere le orde tedesche nel ’39 siete fuggiti, folli di cacarella, fino ai Pirenei…”: Céline risponde coi pugni verbali a Roger Vailland, che voleva scannarlo

Non ringrazieremo mai abbastanza Andrea Lombardi per tutto il lavoro che da anni continua a condurre sul monumento di Louis-Ferdinand Céline. Lombardi è il fondatore del primo blog italiano sullo scrittore francese, oltre che traduttore e curatore di importanti volumi fino a poco tempo prima inediti nel nostro paese. La sua ultima fatica è la curatela di un agile libello, un’ottantina di pagine, dal titolo: Céline contro Vailland (trad. Valeria Ferretti, Eclettica Edizioni). Tutto ruota intorno a una bagarre letteraria avvenuta tra il Nostro e lo scrittore e giornalista Roger Vailland, durante i mesi concitati della Parigi occupata. L’inserimento delle foto d’epoca e le copie degli articoli di giornale sono elementi che arricchiscono ancora di più questa pubblicazione che va ad aggiungere una preziosa tacca alla collezione italiana dell’autore.

Il libro ci offre la possibilità di soffermarci su un argomento poco dibattuto, ovvero quella parentesi della bohème alcolizzata della butte (collina) di Montmartre. Tra i sanpietrini di Rue Lepic e il Moulin de la Galette si snodava quella rete di luoghi, più o meno mondani, battuti da Céline e dalla sua combriccola di amici e personaggi eccentrici: il pittore (amico-nemico) Gen Paul, Henri Mahé delinquente e abile disegnatore, il raffinato scrittore Marcel Aymé, il famoso attore cinematografico Robert Le Vigan, il caustico vignettista Ralph Soupault e le amatissime ballerine spiate, bramate e amate. In questo contesto apprenderà tanto sul linguaggio della strada. La carriera da medico degli ultimi farà il resto.

Il saggio d’apertura di Giampiero Mughini riporta una vivace e ricca panoramica dei luoghi e degli eventi dell’epoca. Le persecuzioni dei collaborazionisti (o presunti tali), il fragore delle bombe tedesche, la resistenza armata per le strade, l’esilio danese di Céline, il suo ritorno in Francia e gli ultimi anni di confino a Meudon nella condizione di “super-reprobo”.

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Segue la diatriba tra i due scrittori, perno su cui ruota l’intero volume. In tutto, due brevi scritti. A fare da casus belli è l’articolo di Roger Vailland che viene dato alle stampe nel 1950 sulle colonne di “La Tribune des Nations”, un giornaletto foraggiato da denaro sovietico. Il caso ha voluto che nel 1943, Vailland, nelle veci di Maquis (a suo dire “terrorista, canaglia ossia partigiano”), frequentasse lo stesso palazzotto di Rue Girardon 4, dove al quinto piano erano alloggiati Céline e Lucette. Vailland ci si recava per presenziare a delle riunioni segrete che si svolgevano nel piano sottostante quello di Céline. Senza troppi giri di parole il Maquis sostiene di essersi pentito per non aver scannato quello scrittore con una “reputation germaneuse”, quando ne aveva avuto l’occasione. Nonostante il confino danese, la risposta di Céline non si fa attendere. Per lui Vailland è un ingenuo scribacchino avvezzo alla droga, alle vanterie e appartenente a quella schiera di francesi che: “[…] invece di respingere le orde tedesche nel ’39 fuggirono, folli di cacarella, fino ai Pirenei, rientrando velocemente a casa per dedicarsi alla caccia e all’assassinio dei francesi che non gli andavano a genio, dei quali erano gelosi o di cui desideravano i beni […]”.

Dietro la sua penna infuocata, tutte le fandonie e le calunnie crollano, si frantumano una dopo l’altra. È lo stesso modus operandi di un’altra più famosa querelle letteraria, quella avvenuta con Jean Paul Sartre e immortalata nell’esplosivo pamphlet dal titolo Agité du Bocal (L’Agitato in provetta) del 1948.

Questi libercoli, che portarono non poche rogne all’autore, sono in realtà delle asperrime e lucidissime condanne al mondo moderno. In esse l’autore traccia la panoramica perfetta del fallimento sociale della nostra modernità, la sua propensione a marcire, ingannare e snaturare l’uomo, a imbrattarsi nel fango invece che elevarsi.

Non bisogna dimenticare che in Francia, in quella manciata di mesi a cavallo tra il ’44 e il ’45, “Dio era in riparazione” e ne son successe di tutti i colori. Se Céline abbandonò la sua amata Francia, lo fece per evitare di essere gambizzato o ucciso dai vari vigliacchetti alla Vailland. Ne sa qualcosa Robert Denoël, suo editore e amico, freddato di fronte all’Hotel National des Invalides mentre era intento a cambiare la gomma forata della sua auto. Nel primissimo dopoguerra, in Francia, c’è stata tutta una serie di belle e succose vendette sommarie, portate a termine alla buona, senza pensarci troppo su. Noi parliamo di quelle italiane, ma in Francia han fatto la stessa cosa! Una guerra civile non finisce sicuramente per decreto, ma il più delle volte ci sono dei lunghi strascichi di sangue vergognosi, incontrollati, inaccettabili. Gli scarafaggi stercorari, raggruppati sotto la nomenclatura di gauche caviar, forti di chissà quale superiorità morale, non sono altro che gli aborti naturali di certi intellò del Dopoguerra.

Quelli di Sartre e Vailland non erano casi isolati. Infatti, come ricorda anche Mughini, intorno al 1950 vennero pubblicati vari articoli di giornalisti comunisti che vaneggiavano su Céline le corbellerie più assurde, tra cui l’accusa di essere un agente della Gestapo! Proprio lui che non ha mai collaborato con alcun giornale tedesco, né rilasciato interviste, né parlato con la stampa, né votato, né fatto parte di un partito, ma è stato sempre e assolutamente un indipendente. E, quando si è esposto, lo ha fatto unicamente da scrittore e non da portavoce di qualcun altro.

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Il Céline impegnato in una controversia con qualcuno o qualcosa, quello che dà libero sfogo al suo rancore, furibondo, nevrotico, senza freni, massacratore della grammatica ufficiale, del buon senso comune, è quello che – un po’ sadicamente – ci piace di più. Il Céline fine distruttore della buona lingua di Francia, maltrattatore della sintassi, puntinatore pedante è senza dubbio il più divertente, il più elettrico. In grado di tramutare la parola in vibrazione, il ritmo in energia, la punteggiatura in un rullo di tamburo e le peggiori infamie in musica. Alla sua scrittura si aggiunge quel senso di angoscia, quasi coitale, che lui dà alle frasi. I tre puntini di sospensione con cui interrompe i discorsi sono una cosa geniale. È stato lui il primo a spezzettare in tal maniera la lingua, a detonarla… a liberarla! Ne abbiamo una prova magistrale nel prima citato pamphlet Agité du Bocal, dove la letterale distruzione (verbale) del “capo popolo” Jean Paul Sartre può essere annoverata tra le migliori pagine di letteratura incendiaria del Ventesimo secolo.

Il suo esagerare, questo sconfinamento nell’irrazionale, sempre sul filo della volgarità, è tipicamente francese. Un tipo di cialtroneria, o meglio, di coglioneria intimamente legata alla sua terra. C’è un qualcosa di profondamente atavico in questa cialtroneria di Céline, forse i Galli erano così. Un’indole che appartiene unicamente alla Francia e non può appartenere a nessun altro popolo. Nessun’altra cultura, solo quella d’Oltralpe avrebbe potuto plasmare un prodotto umano simile. Arthur Rimbaud, nel suo “ponderato delirio” che è la Saison en Enfer cita, in maniera esplicita, i suoi antenati Galli come i responsabili di questa propensione al sacrilegio, all’accidia, all’incarognimento.

Con permesso d’azzardo è possibile sostenere che le posizioni politiche di Céline, più che passare attraverso i contenuti dei suoi scritti, passano attraverso l’uso che lui fa della lingua: una dichiarazione di guerra al potere. Scagliata contro un certo tipo di forma espressiva ufficiale, disciplinata, accademica. La lingua bofonchiata da Céline, oggi come allora, continua a essere uno schiaffo ai codici comunicativi del potere egemone. È in questo contesto di continuo stato di allarme che lui via via si autoeccita, s’incendia, proclama e borbotta le sue dichiarazioni di guerra all’ipocrisia del suo tempo… è in fondo a questa sua corsa che finisce per essere travolto, per autodistruggersi. L’autodistruzione è stata la conseguenza estrema di questo suo viaggio iniziatico alla scoperta della potenza della lingua. Un viaggio autolesionistico quindi, che finì per rivoltarsi contro la sua stessa persona, soprattutto contro la sua lingua: il francese di Stato, quello sistemato e ripulito a tavolino, codificato nel 1660 a Port-Royale con la Grammaire générale et raisonnée. La stessa con la quale, nella sua famosa predica, lo scrittore Bussy-Rabutin poteva rivolgersi al Re Sole per dirgli: «Re, anche tu morirai!».

Non sono vecchie chiacchiere ammuffite queste! Oggi più che mai le stesse dinamiche tornano a fare capolino: il “Potere” che negherà il premio Goncourt all’autore del Voyage, per consegnarlo a Roger Vailland (i suoi scritti chi li ricorda oggi?), è lo stesso che inserisce in uno dei libri di testo per liceo più rinomato d’Italia una sola paginetta per Céline e ben cinque per Saviano che, letterariamente parlando, è pressoché irrilevante.

Come vedete cambiano i tempi, le dinamiche politiche e i personaggi si susseguono uno dietro l’altro, ma il Dott. Destouches è sempre in piedi nell’arena, oggi come allora, capro espiatorio per le isterie del politicamente corretto d’Europa. Avanti il prossimo!

Martino Cappai

Gruppo MAGOG