Il primo ricordo è mia madre che mi tiene per mano mentre entriamo in un giardino interno di una casa del centro storico di Forlì. Poi una capretta che arriva verso di me. Poi questa donna alta, vestita di jeans larghi e maglietta, con una voce profonda quasi da uomo. Si china e mi abbraccia, negli occhi ha una maternità appesa da secoli. Entrare nel suo laboratorio era entrare nella verità. Carmen Silvestroniè stata per me ciò che un artista deve essere, un vortice dove l’uomo può assumere tutte le forme che il proprio interno gli concede, dove l’opera proviene dalla carne, dove il figlio è a volte l’idea.
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Carmen nasce dalla tentazione della terra, sin da bambina prende ciò che proviene dal suolo per creare, al fiume incontra la creta, si impasta le piccole mani. Poi impara a modellare. La scultura è la prima forma di esposizione, si porta fuori qualcosa che ci appartiene da dentro. Dare un volume, toccare la superficie della resa, perché è dalla lotta che nasce l’opera, dal suo arrendersi ad essa. Ricordo che quando si entrava nel suo studio c’era un divano su cui sedevo e sopra di questo, letteralmente sulla mia testa, una scultura fatta di coni aguzzi appesa al muro. Si chiama “Il labirinto conico”, quest’opera per me è il simbolo della resa. Bisognava arrendersi alla propria natura, alle proprie pulsioni per stare su quel divano. Nel suo studio niente ti faceva stare comodo, tutto ti chiedeva verità. Se non eri disposto a questo facevi meglio ad uscire. Le opere della Silvestroni impongono questo: sono un filtro, un imbuto nel quale puoi passare solo se ti spogli di tutte le sovrastrutture insignificanti. Lei invece era di una delicatezza e di un’apertura alla vita e agli altri quasi commovente, niente di lei ti faceva sentire giudicato o messo al muro. Ma è esattamente qui che l’arte compie il miracolo: l’opera ti costringe dove l’uomo invece cede alla dolcezza.
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Terracotta, gesso, marmo, cartapesta sono i materiali che Carmen Silvestroni usava più frequentemente. Tutti materiali che chiedono senza possibilità di perdono un approccio fisico alla materia. I muscoli del corpo devono tirarsi per imprimere forza alla materia. La scultura non è fatta per i deboli, richiede di essere lottatori, l’arena non è altro che il labirinto in cui siamo gettati e persi. La forma che esce dalla lotta è l’altra faccia del Minotauro. Dal labirinto forse non è giusto uscirne.
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Carmen incentra quasi tutta la sua ricerca artistica sull’uomo nel suo complesso sistema del corpo, delle mutazioni e delle ossessioni. Figure che si trasformano, che accennano alla parte mostruosa e meravigliosa dell’uomo, donne che evolvono nella loro compresenza di maschile e femminile, forme miste di ossa e carne che sembrano parlarci, chiedere perdono. L’opera di Carmen richiede un arresto, questo è un luogo in cui entrare è perdersi e rivelarsi insieme. Penso per esempio al complesso di figure femminili “Scacchiera” presenti al Parco Urbano Franco Agosto di Forlì: lo si vede da lontano, prima ancora di salire a questa lieve collinetta, colpisce tutti questa fila di figure femminili che passano dalla forma del nucleo al verticale, alla figura eretta. Una donna che a tratti è felino, scimmia e uomo. Una donna mista, mischiata in parti uguali ed espresse. Carmen riusciva magistralmente nell’esprimere, nell’esporre le varie nature maschili e femminili coesistenti dentro l’uomo. Riusciva a portarle fuori, a dare una forma, a farci toccare l’altra parte di noi. Tutti, forlivesi e non, si fermano davanti a Scacchiera. Disturba, è scomoda, ci attira. Scordarla non è possibile.
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Alla cartapesta Carmen Silvestroni arriva per un processo di liberazione. Il materiale appartiene alla categoria di quelli poveri, di quelli privi di peso. Manipolare la cartapesta richiede un lavoro di equilibrio tra forza e vuoto, tra emozione e razionalità. “Sassi incantati” riassume il perfetto equilibrio tra aria e materia, la tentazione della forma nella sua leggerezza. E qui la natura e l’uomo cercano un nuovo accordo, un nuovo sistema di vita a cui poter approdare. I sassi sono incantati, stanno a mezz’aria. L’uomo deve reinventarsi lo spazio, recedere dalla sua stessa natura.
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La serie di autoritratti (disegni, dipinti, sculture) di Carmen Silvestroni è disarmante. Il dialogo con il proprio io, che diventa silenzio interminabile, che si dilata nelle pupille fino a espandere tutto il nero nel bianco dell’occhio è l’ossessione che tutti gli artisti dovrebbero avere. Entrare nella propria forma, scavare gli zigomi, estrarre il cranio. La Silvestroni cercava se stessa senza sosta, in tutte le forme artistiche possibili. Conoscersi è conoscere l’altro, conquistare le terre del dolore e della gioia collettivi.
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In punto di morte Carmen Silvestroni ha regalato agli amici e ai parenti delle sculture con i segni zodiacali di ognuno. Io ho avuto in dono il mio, il simbolo del cancro. Un granchio fatto di ossa, dalla superficie della terracotta dorata esce lo scheletro di questa creatura marina. Il carapace è trasparente, le ossa sporgono tentando il movimento. Quando ero una bambina con il dito facevo percorsi attorno a quel labirinto di coni aguzzi, ora faccio percorsi attorno alle ossa.