16 Aprile 2020

Carmelo Samonà, il Kaspar Hauser della letteratura italiana, lo scrittore che ha messo sotto accusa il potere e il sapere, troppo complesso nell’era dei libri “scorrevoli”

Non mi stupisce affatto che oggi Carmelo Samonà (1926-1990) sia uno scrittore poco letto, adagiato in una nicchia della nostra letteratura, come un corpo illustre deposto sotto una teca di vetro. Non mi stupisco perché Samonà è difficile, padroneggia la lingua italiana con la maestria di cui sono capaci i grandi traduttori e ci trascina dentro i gorghi della psiche riempiendo pagine e pagine di pensieri, calcoli, considerazioni, inquietudini, sogni, in una impressionante e meticolosa opera di scavo. L’esile forma con cui si presentano i suoi libri non deve trarre in inganno: centoquaranta pagine sono sufficienti per sprofondare in una lettura che sembra durare una vita intera, e questo oggi non è propriamente un pregio. Oggi si prediligono le letture facili e veloci, i libri devono essere “scorrevoli”. Ma l’uomo non è scorrevole, è farraginoso, vive dentro a lacune della realtà, è fatto di immaginazione e menzogne. La realtà, nell’uomo, gioca una piccolissima parte, e Samonà lo fa intendere bene all’inizio dei suoi libri. I due più noti, Fratelli (1978) e Il custode (1983) cominciano con lo stile de Il processo di Kafka, in modo apparentemente chiaro, quasi una scure tagliasse la realtà in modo netto tra un prima e un dopo, ma è solo un’illusione. Nell’opera di Kafka, ad un inizio tanto preciso (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”) segue un folle labirinto apparentemente inestricabile e ben lontano dalla realtà; ma quella supposizione iniziale, quel misterioso soggetto che avrebbe denunciato il protagonista, non racchiude soltanto l’indeterminatezza e il mistero della vicenda narrata, ma costituisce una chiave di lettura per l’intera opera di Kafka. In modo analogo, Il custode di Samonà comincia così: “In un luogo di cui non so nulla, a una distanza che mi sembra incolmabile da tutto ciò che un tempo mi fu familiare – o appartenente, anche remotamente, al mio mondo – una stanza anonima, immersa quasi sempre in una leggera penombra, ospita il mio corpo contro la mia volontà”.

Capiamo fin da subito che questa è la vicenda di un recluso, eppure ritroviamo lo stesso mistero, certo in forma meno sottile rispetto a Kafka, manifestato nel netto contrasto fra una scrittura razionale e la situazione surreale. Similmente, Fratelli comincia così: “Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato”.

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Questi incipit così scolpiti nascondono un universo vago, misterioso, mistico. L’uomo, che pure è al centro dell’indagine narrativa di Samonà, è molto lontano dalla concezione comune; l’autore ne mette in dubbio le più profonde premesse. Per comprendere da dove comincia la ricerca di Samonà dobbiamo affidarci a un altro grande della nostra letteratura, Francesco Orlando, il quale firma un breve saggio di fondamentale importanza intitolato Suoni flebili e opachi: con Samonà “parlò molto allora [anni ‘60] di distinzione fra cultura e natura”. Samonà non poteva tollerare la riduzione dell’intera esistenza umana alla sola sfera culturale, non poteva accettare che tutto ciò che appare come natura sia in realtà costruzione culturale, artificio. Questa distinzione fra natura e cultura è alla base dei testi di Samonà, dove l’uomo ritorna allo stato naturale tramite una scomposizione del suo stato culturale; i protagonisti dei suoi libri scompongono la realtà, quella presunta costruzione, fino a ritrovarsi tra le mani una manciata di segni, presenze, intuizioni, i flebili e opachi suoni indecifrabili di cui parla Orlando nel suo saggio. Questi personaggi esplorano il loro stesso corpo e lo spazio in cui sono immersi con perizia scientifica, accatastando annotazioni e impressioni che però non sembrano aiutarci in alcun modo a far chiarezza sulla loro situazione. Interagiscono nell’ambiente che li circonda con la stessa estraneità di Kaspar Hauser. Il protagonista de Il custode afferma di trovarsi in una cella e di non avere alcun ricordo della vita che conduceva prima dell’incarcerazione. Ma da come si comporta, da come “scopre” la realtà e da come la immagina possiamo dedurre che costui sia sempre vissuto in quella cella, tale la sua estraneità al mondo. Questo io narrante, come anche quello in Fratelli, solo in apparenza è precipitato in una condizione di prigionia; in realtà, sembrerebbe che proprio con la presa di coscienza, quegli incipit lapidari, i personaggi incomincino la loro emersione verso la vita. Sono delle nascite, delle riconciliazioni tra quel che è natura e quel che è cultura.

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In Samonà il dogma del “tutto è linguaggio, tutto è cultura” si sbriciola, riportando gli uomini ad uno stato prelinguistico, fatto di percezioni, intese, sguardi, respiri. Se ne Il custode l’uomo non ha nessuno con cui parlare, in Fratelli il protagonista non riesce a comunicare con il fratello mentalmente malato; in entrambi i casi, le voci narranti devono ricostruire il linguaggio, riscoprire la sacralità dei gesti, dei segni, e interpretarli al fine di sopravvivere al labirinto entro cui non sono mai entrati, ma da cui devono uscire. L’unica via, l’unica soluzione è ricostruire un rapporto comunicativo con l’altro.

Non possiamo ignorare l’appello di Francesco Orlando, la narrativa di Samonà è oggi più attuale che mai: “Sono oggi messi in dubbio la natura, la realtà, la storia: qui è tragico il tradimento della natura, il vacillare del senso della realtà, la perdita di storia. Sono sotto accusa il potere, il sapere: qui è tragica la costrizione a esercitare l’uno, l’approssimazione dell’altro”.

Valerio Ragazzini

*In copertina: George Tooker, “Voice II”, 1972

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