15 Settembre 2018

Carlo Fornara, il Don Chisciotte dell’arte italiana. Per 45 anni, rifiutò di esporre e snobbò un seggio all’Accademia d’Italia, tra D’Annunzio e Marconi. “Sono un piccolo grillo che canta la sua modesta serenata al sole di Dio”

Uno dei più grandi artisti del Novecento italiano è pressoché sconosciuto ai più, ha compiuto scelte di granitica grandezza, ed è morto il 15 settembre del 1968. “Don Chisciotte – come gli piace definirsi – di un ideale di giustizia, partiva a lancia abbassata contro i mulini a vento delle birbanterie umane. Acuto psicologo ha indagato i recessi dell’anima umana e conosce le passioni che trascinano l’uman gregge”, scrive, nel 1945, su Cultura moderna, cingendone il genio, Ettore Marangoni. Tutto, però, era stato deciso, recisamente, più di vent’anni prima. Ancora Marangoni: “Si rinchiuse nella più severa solitudine anche per effetto del disgusto provocato in lui dal carnevale della così detta arte moderna”.

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Fornara
Carlo Fornara si è ritratto più volte, con tecniche e modi diversi: questo possente “Autoritratto” è del 1890 circa

La Val Vigezzo è segata dal Melezzo, una scia d’acqua che dal precipizio dove si snoda la strada pare l’unghia di un dio: è nota come ‘valle dei pittori’ perché qui ci sono chiese ruvide riccamente decorate e una manovalanza di pittori ordinari e imbianchini che hanno percorso l’Europa – la Francia, per lo più, dove s’andava a guadagnare. In Val Vigezzo, nel borgo di Prestinone, una manciata di case dai tetti di pietra, nel 1871, nasce, in una famiglia di contadini, Carlo Fornara. Il ragazzo ha talento, impara l’arte alla mitica – al tempo – scuola ‘Rossetti Valentini’ di Santa Maria Maggiore, educato da Enrico Cavalli, un vero talento – in Francia, era stato allievo di Adolphe Monticelli, che fu l’ispiratore di Van Gogh. A vent’anni, nel 1891, Fornara espone a Milano, si perfeziona in Francia, ritorna nella capitale lombarda dove dà scandalo. “Inviai questo quadro [En plein air] alla Triennale milanese del 1897 e vi suscitò una violenta reazione nella giuria, composta da accaniti avversari del divisionismo… Un gruppo di giovani ne fece un gagliardetto di combattimento e a loro spese fu esposto nella vetrina di un lussuoso negozio di Corso Vittorio Emanuele e nacquero polemiche sui giornali”. In questo istante l’artista-contadino diventa adulto, artista in pieno possesso del proprio genio: Giovanni Segantini lo elegge a suo massimo discepolo e Fornara espone in ogni angolo del mondo artistico che conta (dalla Biennale di Venezia alle esposizioni di San Pietroburgo e San Francisco, da Londra a Monaco di Baviera e Bruxelles) insieme a Gaetano Previati e a Giuseppe Pelizza da Volpedo. Il successo di Fornara è testimoniato da quanto accade nel 1922: il grande gallerista milanese Alberto Grubicy, che avevo fatto la fama di Segantini, di Morbelli, di Previati, designa Fornara suo esecutore testamentario.

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Il 1922 è il momento culmine, il taglio di Fontana, l’acme del non ritorno, nella vita di Fornara. Il grande pittore, infatti, non alieno all’arte della fuga – tra il 1911 e il 1912 si sposta in Sudamerica: “nei profondi silenzi della lunga navigazione meditai molto sull’arte; riassunsi la mia opera, rilevandone le manchevolezze, sognando nuove opere sulla via che le mie meditazioni mi avevano indicato” – fugge l’arte del proprio tempo. Torna a ritirarsi nei recessi della Val Vigezzo. Dipinge. Rifiuta di esporre. Per 46 anni. Un gesto estremo, da samurai, simile a quello di Rimbaud. Carlo Fornara volta le spalle alla fama, al blabla artistico cittadino: preferisce la compagnia di rari collezionisti, a volte regala i quadri per scherno, cullando la dissipazione, per un tot di burro. Temperamento rude, Fornara non ha timore a cacciare ospiti sgraditi dando spago alla rivoltella.

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Ho conosciuto Carlo Fornara dieci anni fa, per la congiunzione di tre eventi. Un amico formidabile (Marcovinicio, il pittore estremo); il caro amico di Fornara (l’ingegner Alessandro Poscio), che fu paterno con me, ideatore di una collezione d’arte (che conta diversi, eccelsi Fornara) di primo livello, intorno a cui è sorta la galleria permanente di Domodossola, in Casa De Rodis. Il terzo fu un libro, Vigezzini di Francia (Skira, 2007), dove Dario Gnemmi offre, tra l’altro, la più consapevole e profonda lettura dell’opera di Fornara (qui, ad esempio, compara il pittore a Thomas S. Eliot: “Il poemetto The Waste Land ha la stessa intensità poetica di Marina di Mentone, lo stesso disperato grido… in Eliot, tuttavia, manca quasi la lucidità terribile che affiora nella piccola composizione fornariana”). Restai sbalordito dal gesto nitido, supremo di Fornara. L’artista è tale perché sa rinunciare ai fragori dell’arte – cerca una autenticità ulteriore.

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Fornara
In omaggio a Carlo Fornara, M.me Webb Editore pubblica in forma di cartolina questa “Posa fotografica per lo studio de ‘I Vangatori’, Prestinone, 1897”. Fornara si vantava di “maneggiare la frullana e la zappa colla perizia di un autentico contadino”

Perché il bisogno di lasciare tutto, per trovare se stessi? Perché la compagnia dell’umanità inquina il creatore, che cerca la quintessenza dell’uomo? Chi ambisce alla solitudine – la morte-in-vita per l’artista – non ha paura di niente: come il Beato Angelico, che pittura la propria cella per la felicità di Dio.

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L’opera di Fornara l’ha pubblicata, in un catalogo che è oro per i bibliomani, Fornara (a cura di Marco Valsecchi e Franco Vercelotti), nel 1971, “nel centenario della sua nascita”, Vanni Scheiwiller, nella collana – mitologica – ‘All’insegna del Pesce d’oro’. Tra i rari artisti, Fornara è stato uno scrittore intrepido. Una breve porzione dei taccuini è stata pubblicata come Bello di colore nel 1969, ancora da Scheiwiller. La testimonianza più alta del suo atteggiamento verso ‘il mondo’, però, proviene da una lettera inviata il 26 gennaio del 1936 all’amico collezionista Amedeo Catapano (pubblicata in “Su l’orlo del suo rifugio”. Carlo Fornara attraverso le lettere ad Amedeo Catapano, Marietti, Milano 2010).

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L’antefatto è questo. Nel 1936 l’Accademia d’Italia, presieduta da Guglielmo Marconi – l’anno dopo gli succederà Gabriele d’Annunzio – propone un seggio a Carlo Fornara. All’epoca, è quello il luogo culturale di maggior prestigio, vi siedono, tra gli altri, Massimo Bontempelli, Enrico Fermi, Pietro Mascagni, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Papini, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti… Fornara, secondo il suo stile selvatico, rifiuta la proposta. Scrivendo questa lettera, di trascinante bellezza:

“Pittori contadini filosofi sono i Santi del mio Paradiso artistico. Ho riflettuto e ho concluso che non mi conviene scendere per l’incontro coll’illustre accademico. Come gusti d’arte siamo ai due opposti poli, per il resto, dico a lei quello che già dissi a un amico che mi faceva l’augurio. Cioè: se a quel seggio si arriva per raccomandazioni o pressioni non lo voglio; se lo si dà come premio a meriti cospicui non mi credo degno. Sono un piccolo grillo che su l’orlo del suo rifugio canta la sua modesta serenata al sole di Dio, ai fili d’erba, ai fiori, alle nuvole, e nulla chiede se non una goccia di rugiada alla sua sete, una radice alla sua fame”.

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Eccola, la scoperta sublime. L’artista è un piccolo grillo sull’orlo del suo rifugio. Come pubblico ha le nuvole, lo scalpitio dell’erba. Provate ad afferrarlo, ora. (Davide Brullo)

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Si pubblica una selezione di pensieri di Carlo Fornara radunati in origine nel volume “Bello di colore. Dai taccuini di Carlo Fornara”, Scheiwiller, Milano 1969

 

Per fare qualcosa di bene e di onorevole, in pittura, bisogna stare bene, cioè non aver né caldo né freddo.

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Delle idee confuse, grandiose, imponenti di quadri mi galoppano nella testa e, queste, sono le cause per cui ogni tentativo che faccio qui attorno mi par pallido e insignificante.

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Bisogna trattare il proprio orgoglio come un cavallo impetuoso; allettarlo per spingerlo al lavoro, spiare le sue predilezioni e trovarne i modi per fargli produrre i frutti migliori.

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Io scrivevo: “Ogni giorno deve essere solenne, pieno di grandi cose compiute anche praticando cose umili. Ogni giorno deve essere memorando”. Ed anche scrivevo: “Riempiendo la vita di così meravigliosa energia, più nessuna cosa mi fa paura”, ed anche: “Il mio demone m’invita a compiere la mia missione sulla terra con eroica energia” e, in ultimo ancora, “Io sarò l’anima possente che sostiene e dà vita al mio mondo”.

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Che vuole la pittura attuale, quale risulta dalla mostra di Venezia? Superfluità, frettolosità dappertutto. Si improvvisa. Continua la formula dell’Impressionismo; non si medita l’opera, non vi si accinge con preparazione, non la si estrinseca con lungo amore.

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L’originalità in arte non ha per me valore: per me, non esistono che opere belle o brutte. Trovo più facile, meno faticoso, fare un’opera originale che un’opera bella.

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Mi sembra che la mia via sia di rappresentare il vero con tutte le sue bellezze di colore, di costruzione e di solidità. Semplicità. Le interpretazione strane, di certe deviazioni della pittura moderna, non devono farmi deviare. Tornare ai sani obbiettivi dei miei primi tempi. Il desiderio di nuovo spinge i giovani alle stravaganze; ma bisogna pensare che soltanto il mezzo ora è conquistato, e che, ora, bisogna dire qualche cosa, esprimere le proprie emozioni.

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Meglio essere sinceri e dimessi o forti e simulatori?

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Arte! Arte! Non vi può essere altra serenità e gioia per me, nella vita. All’infuori d’essa tutto è vanità, perdita di prezioso tempo e ricerca di crucci.

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La tranquillità e serenità dell’animo dipende da noi. Ci rodiamo, ci tormentiamo per delle larve create dalle nostre passioni, talvolta puerili e basse. Bisogna crearsi una filosofia propria, che sia in grado di renderci indifferenti a tutti gli eventi esteriori. In me, molte sofferenze provengono dall’orgoglio, dalla smania di dominare. Considerare cosa sono in sé queste passioni; formarsi una disciplina interiore che ci renda indifferenti e superiori a tutti gli eventi. I saggi antichi erano riusciti a crearsi questa filosofia a regola della propria vita.

Carlo Fornara

Gruppo MAGOG