23 Maggio 2019

“Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”: Gadda, la “fottuta villa di campagna” e le staffilate di Guardini

“In un abbandono tra avvelenato e grottesco il gran Carlo Emilio ha profuso i suoi estri, le sue brigliate, filologiche scalmane sulla topografia della più tipica delle villeggiature milanesi; ma altresì ha ‘sfogato’ il suo amore-disgusto per una terra a lui familiare. Resta in queste pagine la formula che Gadda adotta per rappresentare (e ‘punire’) quella Brianza che il progresso e i suoi orridi malgusti hanno stravolta. Resta la vendicativa rivalsa verso un luogo che del resto gremisce di riferimenti tanti altri suoi libri; e che, sollevando una volta la maschera di quel suo risentimento, svela un gemito nostalgico verso la terra che altrove chiamerà ‘la nostra perduta Brianza’. Quella […] mirabilmente celebrata alcune stagioni prima con altri registri nella raccolta Le meraviglie d’Italia”. Così scrive Luigi Santucci nel suo Letteratura e musica in Brianza…

Ai toni encomiastici di questo volume si sostituisce, ne La cognizione del dolore, il romanzo più brianzolo di tutta l’opera gaddiana, seppure ambientato in un Sud America assolutamente surreale, il disgusto per la casa paterna, la quale fu paradossalmente il luogo in cui concepì e scrisse molte delle sue opere, come ricorda un altro lombardo, Alberto Arbasino nel capitolo che in Genius Loci ha dedicato allo scrittore: “L’opus dell’Ingegnere nascerà allora dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annuncio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata”.

Il quadro delineato da Arbasino è ancora tristemente vero… Ragion per cui il romanziere si sentì sempre alieno a questa terra, infastidito dagli autoctoni e ignorato da tutti, in morte come in vita, e ancora non c’è nessuna iniziativa per ricordarlo, ma soltanto una via a lui intitolata in quel di Rogeno, e ai numeri 7 e 9 una delle ville più antiche della regione, edificata dai marchesi Ripamonti nel XVI secolo, attualmente sotto la tutela istituzionale. Vi trascorreva le vacanze Giuseppe Gadda, politico del XIX secolo che partecipò delle Cinque Giornate di Milano, e fu poi membro del Senato, ministro e prefetto di Roma, nonché zio paterno dello scrittore.

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Col treno in direzione Asso si fa fermata a Erba, e da qui col bus si giunge a Longone al Segrino, comune in cui si trova la casa dove visse e soffrì Carlo Emilio, oggi ridotta a niente più di un caseggiato dalle forme tipiche degli idioti architetti del Dopoguerra, e dunque spartane, squadrate, spoglie, ineleganti, decisamente brianzole.

Niente a che vedere con la fulgida tradizione locale del Seicento e del Settecento testimoniata tra gli altri dal barocchetto di Villa Lurani Cernuschi, a Cernusco Lombardone, smussato nel XIX secolo ma con giardini in stile italiano, tra gli ultimi rimasti in Brianza, e un viale prospettico con doppio filare di lombardissimi pioppi.

Altro fu il destino di casa Gadda e quindi degli umori dello scrittore, visto che il padre, come recita il frammento Villa in Brianza, “costruì la fottuta casa di campagna di Longone nel 1899-1900 e quella strampalata casa gli rimase appiccicata fino al 1937”, e “fottuta” anche perché dal 1909 ipotecata per rendere la dote alla sorella di primo letto e causa delle solite “stucchevoli tasse da pagare”, finché non se ne disferà subito dopo la morte della madre…

E oggi la villa è due volte “fottuta” perché lottizzata, il tetto rifatto, le grondaie in rame e i campanelli borghesi, del tutto irriconoscibile, distrutta, anonimizzata dall’alto muro di recinzione, il portico e la terrazza murati, cancellate le decorazioni e gli affreschi, tolte persino le travi dai soffitti, le persiane sostituite dalle tipiche tapparelle marroni sempre basse come la vita in Brianza, il parco in parte spianato per farci ovviamente dei posti per le automobili.

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Già ai tempi di Gadda era ovvio che la vita vi s’insterilisse, anche se l’anno sabbatico che tra il 1928 e il 1929 vi prese per problemi di salute fu quello in cui concepì molti libri, ma non per questo alleviò il suo risentimento, pure contro i servitori della casa, “contadiname”, lo stesso orrido termine che usava Antonio Gramsci, “a cui manteniamo una casa, mentre io devo lavorare come un cane e vivere al quarto piano in una camera fredda”, e contro quel paesaggio suppostamente bucolico pariniano e manzoniano che l’autore de La cognizione del dolore descriveva pieno di rancore “con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze”.

La Brianza lo privava della sua vita e fu per lui sempre e soltanto: “Dolore e dolore, dolore sopra dolore”.

Ad amareggiarlo non è semplicemente il luogo della sua infanzia e giovinezza e delle sepolture dei cari che così gli appare, ma anche le dinamiche già in atto.

“Il cemento e la plastica e lo scatolame hanno coperto anche la terra di Lombardia, la verde Lombardia non è più. Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”, scrive Gadda.

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Ed è precisamente ciò che vide Guardini, testimone in altre forme d’egual sentire, interprete delle forme urbanistiche, domestiche, paesaggistiche ed esistenziali, a partire da quel centro di tutto che era il focolare domestico, nel passaggio dal fuoco del camino alla stufa, fino ai moderni riscaldamenti centralizzati, con l’elettricità che ruppe definitivamente il legame tra l’uomo e la natura, decisivo, con la cui scomparsa si passò a una sfera del tutto artificiale.

Scrive nella nona delle sue Lettere che: “La gente qui si compiace del progresso. In verità, esso arreca lavoro e pane e molti che altrimenti sarebbero stati costretti a migrare possono restare in patria.”

Guardini non è cieco, ovviamente riconosce le ragioni di chi non vuol rimanere povero o in alternativa migrare, anche perché sa bene che “la scienza, la tecnica e tutto ciò che da esse deriva sono state rese possibili soltanto per mezzo del Cristianesimo”, che ha prodotto la grande cultura europea.

Ma da fine umanista di cultura cattolica riconosce quella che lo scrittore brianzolo Andrea Sciffo chiama “l’ultima stagione del mondo radicato”, e la mentalità che di fatto muove tale evoluzione non ha più nulla a che vedere col vero Cristianesimo e da umano che era, il paradigma è ora disumano.

“Mi si veniva svelando ciò che è l’Europa, ciò che significa l’appartenenza a un popolo, quella del sangue, ma anche il legame stabilito tra gli uomini dalla fedeltà e dallo spirito […]. Tutto questo però era grande e possente: non era ciò che rendeva triste. La causa della tristezza era questa: io sentivo come tutt’intorno a me fosse cominciato un grande morire […]. Vidi la macchina penetrare in un paese che finora aveva posseduto una cultura. Vidi piombare la morte su una vita di infinita bellezza […]. Quando passai attraverso le valli della Brianza, […] rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, in forme vigorose e ampie, non volevo credere ai miei occhi. Dappertutto una terra abitata.”

Era una cultura tutta urbana, con una forma d’esistenza nobile per tutti quanti, anche per il popolo, vita spirituale e a un tempo legata alla natura, della quale Guardini vide che l’uomo, e il brianzolo tra i primi nella penisola, sarebbe stato presto privato, che non avrebbe più potuto vivere secondo quello stile, e che si sarebbe estinto.

“La bellezza di queste località è indescrivibile, ma non me ne deriva gioia alcuna. Non comprendo, anzi, come un uomo avveduto possa essere felice, qui”, scrive, avendo visto lo stesso in Germania…

“Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella forma più armoniosa. […] Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice […]. Eredità di formazione millenaria, gli era passata nel sangue e nelle fibre del suo organismo. Una cultura divenuta tale naturalmente, diventata quasi una seconda natura”.

La causa è il cambiamento in atto. E l’impressione non lo abbandona.

La impressioni di Gadda, Corti, Sciffo, le anticipa nella sesta lettera: “Non dall’oggi al domani è sorta la monumentale produzione architettonica […]. Perché un ordine sia accettato e perché non riesca gravoso a colui che riceve, bisogna essere capaci di comandare. Per poter abitare un palazzo è necessario avere nel sangue la signorilità. Come è disgustante il vedere, in una delle nobili ville di questi luoghi […] un qualsiasi Signor X arricchito da poco.”

Ciò di cui Gadda quanto Guardini in fondo aveva nostalgia, era l’ormai antica Herrenhaus, la dimora gentilizia, padronale, signorile, la “Casa del Signore”…

Ma gli toccò d’espiare l’ateismo paterno.

La “fottuta” villa dei figli del Progresso.

Una villa sulla quale l’unica targa adeguata sarebbe questo epitaffio vergato da Gadda: “I discendenti de’ vecchi signori intristirono nelle democratiche giostre”.

Marco Settimini

(fine)

*La prima parte di questo percorso nella Brianza di Gadda la leggete qui.

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