09 Febbraio 2018

Cari scrittori, pubblicate in clandestinità e preferite la fuga alla fama. Riflessioni su un testo di Sciascia scritto sul cranio di Tolstoj

C’è un fatto. Indelebile. Il poeta, lo scrittore, l’artista. Osa. Osa quello che gli altri non fanno. Perché? Perché la facoltà immaginativa gli fa immaginare cose che gli altri nemmeno si sognano. Perciò. Si esaurisce nella bellezza di un gesto – fiorisce nell’errore – coltiva l’irragionevole. Fugge le consuetudini. Fugge. Nel suo libro più segreto e sghembo, Nero su nero, pubblico nel 1979, specie di zibaldone intriso di corroborante cinismo, Leonardo Sciascia si confronta con la figura tonante di Lev Tolstoj. E lo becca al cuore. “La vita di Tolstoj si svolge tutta sotto il segno della fuga. Fuga dalla condizione sociale ed economica in cui è nato. Fuga dal destino di scrittore. Fuga da se stesso. Fuga dalla vita. Anche il suo matrimonio con Sofija Andreevna è una fuga: forse veramente amava Liza, la sorella di lei, come tutti in famiglia credevano”. Sciascia ha ragione. I testi più autentici di Tolstoj riferiscono la fuga: La confessione è fuga dalla scrittura – il titanico russo ripudia Anna Karenina e Guerra e pace – e dall’esistenza – il libro accoltella il dolore e si centra sul desiderio del suicidio – Padre Sergij è una fuga dai fari dell’aristocrazia, una fuga dentro i recessi di Dio, poi una fuga pure da Dio; Le memorie di un pazzo è una fuga dalla ‘ragione’ che regola il mondo. Anche i personaggi dei grandi romanzi di Tolstoj fuggono: Anna Karenina si getta con la foga di una fuggiasca tra le braccia di Vrònskij per poi buttarsi sotto un treno; il Principe Andrej di Guerra e pace fugge l’ardore della vita ritirandosi nel nichilismo. Eppure, ogni volta, la fuga, pur reiterata e ritentata, fallisce, è un aborto. Come accadde a Tolstoj, per altro, che scrisse la fuga senza praticarla, se non a 82 anni, nel 1910: pensava di scappare dalla moglie, dai figli, troppi, dal segretario ingombrante, Certkòv, dal ‘tolstojsmo’ (che gli faceva sonoramente schifo), dai fan, dai contadini che amava con ribrezzo e dagli aristocratici che odiava e basta, da chi lo riconosceva come il più grande scrittore del mondo occidentale, di sempre. Tolstoj, fuggendo, voleva azzerare se stesso. Non ci riuscì. “Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l’anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi”, scrisse alla moglie, prima di lasciarla per sempre. S’ammalò per strada. Fu ricoverato presso la stazione di Astàpovo, presa d’assalto dai cronisti di mezzo mondo – quello sputo di melma sul muso russo divenne il solido platonico della letteratura mondiale – e lì spirò, “‘Me ne vado da qualche parte, così nessuno mi troverà… Lasciatemi in pace… Bisogna filarsela via, filarsela da qualche parte’: sono le ultime parole di Tolstoj, nella notte dal 6 al 7 novembre del 1910”, annota Sciascia. Il gioco, vertiginoso, piace allo scrittore siciliano che avverte in quella fuga, paradossale e pazzesca, un tigrato istinto. “Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine”. Sciascia ha capito. Lo scrittore, il poeta, l’artista, vive in modo transitivo, traslato, trapuntato nel nulla. Fugge. Tutto. Perché nella fuga la vita acquista una nitidezza sana, decisiva. Le cose si vedono solo quando decidi di perderle. I punti di fuga di un panorama si percepiscono dalla distanza: il mondo si conquista uscendo dal mondo, l’uomo lo si conosce fagocitando l’ego, facendo falò dell’io. Morale. I grandi poeti sono quelli delle grandi scelte. E qui, in questo tempo misero, di guerriglia sottopelle, l’unica scelta è la fuga, la clandestinità. Lo dico. Lo ripeto. Lo scrittore, se è vero, sputa in faccia al sistema editoriale odierno. Trova che sia un insulto finire in quella barbarica voragine delle Feltrinelli o delle Mondadori; pensa che sia assurdo disintegrarsi nel mercato digitale propalato da Amazon, dove Saul Bellow o Barbie Girl è uguale; pensa che sia un obbrobrio pubblicare per editori-transatlantico che per far quadrare il fatturato, per fare quadrato sull’ovvio, pubblicano l’autobiografia di un cantante o il ricettario di un cuoco o il diario patetico di blogger prepuberale o i quattro stracci di un istanpoet, istantaneamente da vomitare. Questo, sia chiaro, non per un misero criterio di superiorità – nei fatti di scrittura, vivaddio, l’unica forma di classismo è il genio – ma di verità. Io, lì, non ci sto. Fuggo da quel sistema. Perché quel sistema non dà valore a ciò che per me è tutto. Il verbo. In quei luoghi il verbo non risuona. Muore. Per questo. Il poeta, che non ha niente da perdere e cade sempre con il muso verticale all’asfalto, preferisce gli editori clandestini, le rarefazioni di luce nell’indifferenza. Preferisce voltare le spalle. Predilige la fuga dalla fama, da tutto. Pretende, come santa Chiara, il privilegio della povertà: non vuole condizionamenti né condoni. I poeti, gli scrittori, gli artisti devono farsi cercare, accanitamente, devono essere bloccati, così limpidi, nell’atto della fuga, senza mendicare la lettura di alcuno. (d.b.)

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