“Ateologia” è un termine che probabilmente non piacerebbe a Giorgio Caproni, che non voleva essere definito un ateo. Così come non amava la definizione di teologia negativa che qualcuno usava per lui. Ma, se la teologia negativa è quella che pone il concetto e la conoscenza di Dio al di là dei limiti della ragione umana, questo è proprio quanto Caproni afferma continuamente non solo nei suoi versi e quindi saremmo legittimati a usare per lui questa locuzione. “Com’è l’universo”, si domanda Caproni, “al di fuori e al di là della nostra percezione? noi chiamiamo nulla ciò che non possiamo conoscere”.
Tuttavia ci possiamo chiedere, Caproni era qualcuno che effettivamente negava l’esistenza di Dio?
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Beh, io credo che forse in pochi poeti del nostro secondo Novecento – penso in particolare a un Rebora o a un Turoldo, o anche a un Luzi – la presenza di Dio sia così forte, addirittura incalzante, ossessiva, come in Caproni. Sarebbe troppo banale e semplicistico tuttavia cercare di rovesciare la pretesa “ateologia” di Caproni nel suo contrario. Uscì qualche anno fa, su Avvenire, un articolo dal titolo a mio parere un po’ tendenzioso E Caproni avvertì il mistero divino, che riprendendo un dialogo che si era svolto nel 1986 fra il poeta e Silvio Riolfo Marengo a Sanremo in occasione dei “Martedi letterari”, tenta un po’ questo rovesciamento. Caproni, cioè, un poeta che alla fin fine crede in quel Dio che nega di continuo con tutte le sue forze. E in effetti estrapolando alcuni versi qua e là forse si potrebbe arrivare a sostenerlo. Caproni stesso in quella conversazione con Riolfo citava infatti questi suoi versi: “Proprio dove non c’è nulla/ nemmeno il dove/ c’è Dio.” Aveva anche scritto: “prego perché Dio esista” nel Lamento (o Boria) del fraticello deriso. C’è anche, in Caproni, l’opzione paradossale “di credere in Dio pur sapendo che Dio non c’è e non esiste”. Ma questo ribaltamento di Caproni in un credente, o quasi credente, sarebbe semplicistico, come appunto affermare puramente e semplicemente il contrario.
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Quella di Caproni più ancora che una negazione, è una ricerca: “di che cosa non lo so nemmeno io”. Caproni aveva anche detto: “Dio è inafferrabile, vivifica e ti uccide. Eppure io cerco la sua presenza da anni”. Questa ricerca si svolge intensamente dal ’75 al ’91 con il Trittico Il muro della terra, Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller, più il postumo Resa amissa e i Versetti del Controcaproni.
Eppure anche in Caproni, come già in Nietzsche, Dio è morto. Anzi: “Dio si è suicidato”. Oppure è fuggito, scomparso. Ecco infatti una parola molto cara a Caproni: le “asparizioni”. Ma Caproni non è un teologo e non lo possiamo trattare alla stregua di un teologo. Non è un filosofo, ma un poeta. E, come tale, non costruisce sistemi, ma vive nella contraddizione. La contraddizione, che è il territorio privilegiato della Poesia. La Poesia, a differenza della Logica, non solo si può permettere la contraddizione, ma deve permettersela. La poesia vive proprio in quel territorio che è quello della massima ambiguità e contraddizione. E questa ambiguità e contraddizione è quella stessa della vita.
La logica è un’emanazione della ragione, mentre la poesia è un’emanazione del cuore – non in un senso sentimentale beninteso, ma in quanto sede dell’emozione. Come afferma Paolo Zorboli: “il Dio di Caproni è un Dio che il cuore cerca ma a cui la ragione non crede”. La teologia di Caproni – se così la si può chiamare – è una teologia emozionale. Quello di Caproni è uno scontro frontale con la ragione, proprio nel momento in cui assume la ragione a strumento di valutazione, di ricerca, di misura. E lo trova, non può non trovarlo, insufficiente. “Nessuno potrà mai perforare/ il muro della terra” ha scritto appunto ne Il muro della terra. Nel 1990 scrive questa glossa all’Ultimo borgo: “sono un razionalista che pone dei limiti alla ragione”. Come ha osservato ancora Zorboli, si può rintracciare nel pensiero di Caproni un’influenza kantiana, del Kant dei Prolegomeni a ogni futura metafisica, in cui la ragione giudica se stessa e i suoi limiti. Dice Kant: “Il territorio al di là della sfera dei fenomeni è vuoto, ma non è un nulla assoluto, bensì un nihil privativum (“Il nulla relativo” di Schopenhauer). E Caproni: “al di là certamente c’è l’inconoscibile, c’è l’altra terra ignota, ci sono quelli che chiamo ‘i luoghi non giurisdizionali” dove alla nostra ragione non è lecito entrare e capire” e anche: “noi chiamiamo ‘nulla’ ciò che non possiamo conoscere”.
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Se la ragione, come afferma Caproni, è impotente a sondare il mistero dell’esistenza o meno di un Dio, il mistero rimane intatto e da quel momento in avanti riguarda soltanto il cuore. O meglio, la nostra intuizione, il nostro io irrazionale, il nostro sé profondo. Allora si aprono due strade: la fede o il suo contrario. L’accettazione positiva del mistero, o il suo rifiuto.
L’accettazione positiva del mistero è per esempio quella di Lucian Blaga, il filosofo rumeno autore di una Trilogia della conoscenza in cui sostiene anzi la necessità di non poter conoscere il Mistero e di conservarlo come tale e ripropone in chiave moderna il concetto di “dogma”.
Caproni invece no: Caproni è un pessimista. Questo mistero lo terrorizza.
E siccome non può credere in una Presenza, questa si ribalta per lui in Assenza. Possiamo dire che Caproni è – come Turoldo – un poeta dell’assenza di Dio. “Ah, mio Dio” esclama “perché non esisti?”. Ma – sempre per continuare il paragone con Turoldo – questa assenza è vissuta dai due poeti in modo ben diverso: l’assenza del dio di Turoldo è quella di un Dio impotente contro il Male, forse vittima egli stesso del Male, quella di Caproni è quella di un Dio che è egli stesso Male. Naturalmente tutto questo non è sistematizzato, proprio perché Caproni è un poeta e non un filosofo. E un poeta maestro della contraddizione e del paradosso. Così questo suo Dio Assente ha al contempo due aspetti, due facce: quella dell’indifferenza e quella della crudeltà.
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Caproni apprezzava una frase di Monod: “l’uomo è nato per caso, ai margini di un universo insensibile ai suoi crimini e alle sue musiche”. Infatti per Caproni il problema non è tanto l’esistenza di Dio, cito ancora Zorboli, quanto il suo rapporto con l’uomo. Il Dio di Caproni è un Dio estraneo all’uomo, che non si interessa all’uomo, che non si prende nessuna cura dell’uomo. Ma questo Dio ha posto e pone l’uomo in una condizione di infelicità e di impotenza senza via d’uscita. È un Dio caratterizzato da una mancanza di Amore.
Nell’ateotologia di Caproni il grande assente è infatti l’amore, in una qualsiasi delle sue forme. Perciò il Cristo nelle poesie di Caproni è presente solo pochissimo, di sfuggita.
Bisogna quindi, ci dice Caproni, in conclusione imparare a fare a meno di Dio: “Faremo – ci siamo detti – senza di lui”. Il deicidio diventa un’alternativa – più valida – alla preghiera. “Dio esiste soltanto – nell’attimo in cui lo uccidi” scrive ne Il franco cacciatore. Tuttavia – e questo è il paradosso – ma la poesia di Caproni si nutre appunto di paradossi – a questo dio assente o comunque sordo, il poeta si rivolge continuamente, lo incalza, lo interroga.
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Assistiamo così a un “dialogo” in cui uno degli interlocutori rimane muto, e a una serie di domande che rimangono senza risposta. E qui viene in mente il Libro delle Interrogazioni di Edmond Jabès, un altro grande poeta pensatore del Novecento.
Ma come si può interrogare chi non esiste? Caproni mi fa pensare a un altro nostro grande poeta, il Leopardi, che similmente interrogava la luna – immagine del cosmo – e se la prendeva con lei. A questo proposito nel mio libro La poesia è un orecchio (Feltrinelli 2012), scrivevo: “Per Leopardi la natura non ha nulla in comune con i sentimenti dell’uomo. Eppure continua a interrogare la luna come se si trattasse di una persona e potesse rispondergli”. Ecco, la teologia di Caproni sta, consiste tutta in una serie di interrogazioni che non hanno, non possono avere risposta. Mentre Turoldo accetta la sofferenza, l’assenza, accetta di non poter capire (“Tu non puoi non essere/Tu devi essere/pure se il Nulla/ è il tuo oceano”), Caproni no: Caproni è toscano, e quindi è aggressivo, iroso, irridente, beffardo.
Il suo diventa un corpo a corpo con Dio che mi ricorda la lotta di Giacobbe con l’Angelo. Anche Giacobbe non sapeva chi fosse colui con cui lottava – simbolicamente – nel buio della notte. In questo duello Caproni ricorre di continuo alla provocazione: “Dio onnipotente, cerca (sforzati) / a furia di insistere (almeno) di esistere”. Con continui soprassalti di orgoglio: “la solitudine senza Dio è l’adito a tutte le libertà possibili (compresa quella di credere in Dio pur sapendo che Dio non c’è e non esiste)”. Anche Caproni esce da questa lotta azzoppato: io credo che di questo titanico duello con Dio Caproni alla fine della sua vita si sia ammalato e alla fine sia morto. Paradossalmente, una volta di più, in questa lotta con un Dio silente, il Dio assente diventa assolutamente presente.
In un certo modo si può dire che non c’è Dio più presente del Dio assente, del Dio sbeffeggiato, irriso, bestemmiato da Caproni. La sua presenza alla fine non è più quella del deuteragonista: egli occupa l’intera scena. È una Persona che quanto più persona non può essere: come il dio della Bibbia: innominabile e non raffigurabile, ma che però ha ispirato l’immagine del padre onnipotente e temibile di Michelangelo nella Cappella Sistina.
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Io credo che, in un rovesciamento in cui la ragione cede le armi e parla solo il buio del cuore, il Dio di Caproni esista e sia proprio quel Dio lì: il Dio delle tempeste, delle folgori, davanti al quale l’uomo è infinitamente piccolo, debole, smarrito, il Dio che incarna le forze misteriose e incomprensibili dell’universo. Ma non certo alla maniera di una visone panteista di tipo buddista che alla fine potrebbe essere pacificatrice. Si tratta piuttosto di un Dio che può richiamare quello della gnosi, il demiurgo minaccioso degli gnostici, creatore di un universo crudele. Questo Dio forse per antitesi può diventare tutt’uno con la Bestia che viene cacciata invano dal “franco cacciatore”. Caproni non ci dice chi sia questa Bestia, che può coincidere con la Morte, con il Male e appunto anche con una forma di Dio, o con tutto questo insieme. E a cui in un vago dualismo fa da contrappunto la “res amissa”, altrettanto sconosciuta e introvabile per definizione, che può essere intesa come una forma del Bene, della Grazia. Ma “amissa”, per sempre perduta, appunto. La Bestia: termine apocalittico che tuttavia sembra escludere che ci si possa spingere nel caso di Caproni a una interpretazione di un’Apocalisse o di un Anticristo a venire come quello evocato dal filosofo Massimo Cacciari nel suo saggio Il potere che frena, a partire dalla famosa Seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi.
Perché appunto Caproni non è un filosofo e il suo è solo un grido di angoscia, un attraversamento della tenebra che si potrebbe paragonare alla notte dei grandi mistici, solo che in lui non è un attraversamento verso una luce finale bensì una condizione senza fine e senza soluzione possibile.
E l’animo piagato, negli ultimi tempi, stremato, vorrebbe solo un po’ di tenerezza: vorrebbe inventarselo questo Dio tenero sollecito e misericordioso e non può: “Signore, anche se non ci sei/ ugualmente proteggi / e assisti me e i miei”. Una fragile, pallida piantina di speranza appare, che mi ricorda quelle patetiche che scoprii nelle gallerie scavate dalla lava nell’isola di Madeira, nate in lunghi tunnel bui, accanto alla scarsa luce artificiale a segnare il cammino a poca distanza dal suolo: piantine che non vedranno mai un cielo azzurro, non vedranno mail il sole. Ma ancora persiste in Caproni la traccia del bambino che pregava fiducioso, il bambino deluso, ingannato che egli ancora sente di essere quando esclama: “Come potrà il bambino che pregava/ perdonarti il furto della tua inesistenza?”. Un conto mai saldato.
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Quella di Caproni, più che una teologia o un’ateologia, è quindi una condizione esistenziale, di angoscia, come la vivono moltissimi uomini oggi, smarriti in un mondo che appare sempre più incomprensibile e ostile e in cui la presenza della Bestia si fa sempre più angosciosa.
Il Dio che Caproni cerca si potrebbe forse definire come l’Alter Ego impossibile dell’Uomo, il riflesso illusorio della sua soggettività esasperata. Per Caproni la realtà stessa è perennemente in bilico sul crinale della non esistenza: “tutti luoghi che ho visto / non ci sono mai stato”. “Se volete incontrarmi/cercatemi dove non mi trovo”. “Se non dovessi tornare /sappiate che non sono mai partito”. Il gioco degli specchi, l’io e la realtà che si moltiplicano all’infinito, pirandellianamente, rispecchiandosi uno nell’altra fino a dissolversi. “Viaggio nell’antimateria” lo definisce più modernamente Giovanni Raboni nel suo saggio pubblicato in Giorgio Caproni Tutte le poesie (Garzanti): “non spazio non tempo non luogo”. Ma il Dio in cui si imbatte è forse in definitiva un’immagine della Morte e dell’angoscia dell’uomo davanti alla Morte e insieme della sua inesplicabile attrazione. “Uccidilo. È il tuo uccisore/ ti ci vorrà poco a piantargli/ la lama della sua morte in viso”. “Faremo senza di lui” dice lapidariamente Caproni “ma saremo come i morti”.